29/7 XI meditazione di Neri, al Santo Sepolcro


Il taglio liturgico di questa pericope del Vangelo che vi è stata letta or ora è piuttosto singolare, perché è uno dei casi - e ce ne sono alcuni altri, non moltissimi - nei quali il testo è riportato in modo manifestamente incompiuto.

La pericope è interrotta, non termina - risulta molto chiaramente da alcuni elementi che sono percepibili in modo preciso - e continua anche nel brano seguente che tutti noi conosciamo benissimo, dell’apparizione di Gesù a Maria. Maria difatti, quando si reca da Simon Pietro e dall’altro discepolo, dice: “Hanno preso il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto”. Così al versetto 2. E al versetto 15 continua in questa domanda, quando si volta e vede Gesù, ma non lo sapeva che era Gesù che gli appariva come l’ortolano, e dice: “Se tu l’hai preso, dimmi dove lo hai posto ed io lo prenderò”, e alla domanda di Gesù: “Donna perché piangi? Chi cerchi?”, così lei risponde: “Piango perché hanno preso il mio Signore e non so dove l’hanno posto”. Gli elementi di continuità fra i due brani sono dunque manifesti, il che significa che la domanda posta nella prima parte - “hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto” - trova la sua risposta nella seconda, dove il Signore che appare manifesta a Maria e, attraverso di lei, a tutti gli altri discepoli, alla chiesa e al mondo, che egli stesso è risorto e sale al Padre in modo che Maria, la chiesa e il mondo sappiano che Dio ha amato il suo unigenito ed è stato fedele a lui e l’ha riscattato dai vincoli della morte.

La pericope dunque è riportata in modo incompiuto, ma è possibile anche che in questo breve incontro che facciamo per confortarci nella nostra fede nella risurrezione e soprattutto per ravvivare insieme la nostra gioia pasquale ci fermiamo soltanto nella prima parte. Contiene elementi sufficienti per ravvivare la nostra speranza, per confortarci, per insegnarci soprattutto - mi pare - che cosa dobbiamo e possiamo fare per mantenerci saldi e irremovibili nella fede, così come l’abbiamo ricevuta, così come oggi ancora San Paolo, nella Lettera ai Colossesi, ce lo ha mostrato. Dunque noi siamo al mattino, è molto presto, è ancora buio. E non sappiamo. Come possiamo passare dalle tenebre di questa non conoscenza, dalle tenebre che avvolgono ancora tutto il mondo, e dal pianto nel quale ci troviamo perché hanno portato via il nostro Signore e non sappiamo di lui, alla luce del pieno meriggio della nostra fede, alla certezza suprema, perfetta che il nostro Signore è vivente, che il nostro Signore è con noi e alla gioia esultante che deve essere la caratteristica della vita di ogni credente in Cristo. Credendo, esultiamo di gioia indicibile, ineffabile, troppo grande per essere detta. Come possiamo passare dunque da queste tenebre alla luce, dalla non conoscenza, alla conoscenza perfetta e dal pianto all’esultanza? Mi pare che questo testo, brevemente, e come al solito con allusioni - Giovanni è solito parlare così - ce lo dica però in modo molto profondo e molto bello. Prima di tutto dobbiamo correre al sepolcro. E’ molto importante. I due discepoli insieme, corrono. Non si danno pace, finché non hanno verificato. Non possono stare tranquilli, non si rassegnano alla morte, non si rassegnano alla lontananza dal loro Signore. Occorre non rassegnarsi, occorre mettersi subito in cammino, bisogna anzi affrettarsi e correre e non ascoltare le voci che dentro di noi ci invitano alla rassegnazione, alla rassegnazione alla non conoscenza, alla rassegnazione all’incertezza, alla rassegnazione alla tristezza, alla rassegnazione alla morte. No! Il credente in Cristo non è uno che accetta la morte, è uno che rifiuta la morte. Noi sappiamo e sperimentiamo di essere stati fatti immortali per il Cristo Gesù e dobbiamo con tutte le forze aderire a questa promessa e non dobbiamo mai rassegnarci né alla tristezza, né al vivere che sia un lasciarci trascinare tra scelte verso il confine della tenebra o del non essere. Non rassegnarci all’incertezza, non rassegnarci alla nebbia, non rassegnarci alla morte, non rassegnarci al pianto. Occorre ribellarsi contro di questo, perché Dio ci ha fatti per la vita, Dio ci ha fatti per la gioia, Dio ci ha fatti per la conoscenza certa della verità. Correre! Per vedere dov’è il nostro Signore, per verificare e toccare con mano, per guardare con i nostri occhi, per giungere a questa certezza. Correre, confrontarci con la verità, sempre di nuovo, di continuo, riconfrontarci con la verità suprema del mistero del nostro destino e del senso della nostra redenzione e del nostro rapporto col Cristo e dell’identità, del chi è il nostro Signore, colui che ci ha detto queste parole, che ci ha fatto tanto sperare, che ci ha fatte tante promesse e che ci ha dati tanti insegnamenti. Chi è?

Fino alla fine indagare, fino alla fine cercare. “Donna, perché piangi, chi cerchi?” Anche noi dobbiamo sempre cercare, finché non abbiamo trovato, per crescere sempre di più in una conoscenza, in una sapienza, come dice San Paolo, che deve diventare una “pleroforia”, una certezza piena, quasi sperimentale, come un toccare con mano nella fede. Non dobbiamo aspirare ad una certezza che vada al di là dell’orizzonte della fede – “beati coloro che non hanno visto, che hanno creduto”. E’ questa la natura della certezza che ci è data, ma è certezza, ma è verità. Ma non vacilla la nostra fede, tanto è vero che si deve fondare su di essa tutta la nostra vita, tutta la vita di tutti gli uomini di ogni comunità umana e di ogni mistero di coscienza d’uomo. Correre. Questo nostro correre, questo cercare, questo perseverare - consentitemi di uscire un attimo dai confini di questa mal tagliata pericope - ecco questo perseverare di Maria vicino al sepolcro. Piange, non si dà pace, sta lì che piange, cerca, cerca. A chi cerca così è promesso che troverà. La nostra ricerca deve essere, come dicevo già prima, nel senso di questa sempre maggiore certezza, sempre più vitale speranza, sempre più pervadente e irraggiante gioia, perché siamo fatti per questo. Non dobbiamo dire: così è la vita. Non dobbiamo rassegnarci. Vediamo come in un barlume. Sì, in un certo senso, rispetto a come vedremo, ma dobbiamo poter dire anche noi come disse Pietro: “Noi abbiamo conosciuto e abbiamo creduto che tu sei il Figlio di Dio, noi sappiamo che tu sei risorto”. Correre.

E qui c’è quell’episodio strano - ma che appare assai meno strano per chi indaga un po’ di più il vangelo di Giovanni, di quanto non possa sembrare a primissimo udito, a primissima vista - dell’arrivo per primo al sepolcro, del discepolo che Gesù amava e del suo attendere e dell’entrare per primo e del verificare per primo, da parte di Pietro, la presenza delle bende e del sudario a parte e poi dell’entrare anche dell’altro discepolo, della sua fede che viene dopo questa prima verifica. L’episodio ha un parallelo quasi perfetto nel cap. 21, dove ancora sono insieme Pietro e Giovanni, il discepolo che Gesù amava, ed è Giovanni che dice “è il Signore”, è lui che lo sa per primo, ma poi lascia che Pietro si tuffi e che giunga per primo alla riva e che per primo incontri il suo Signore. Ed è a Pietro che è affidato il compito di trascinare solo, solo, con una potenza che ricorda quella che il midrash ebraico attribuisce - e il testo della Scrittura fa presagire anche e fa capire in qualche modo – a Giacobbe, che solo rotola il masso, mentre i pastori aspettavano che arrivassero altri di rinforzo. Giacobbe solo rotola il masso, e il midrash insiste moltissimo, come a dire che può - che potenza straordinaria! - e Pietro che solo trascina a riva la rete piena di 153 grossi pesci, tanto grossi e tanti che ci si stupisce che questa rete non si laceri. Dunque è Pietro che giunge prima ed è a Pietro, nonostante la prima intuizione del maestro alla riva fosse stata del discepolo che Gesù amava, che è lasciato il compito di trascinare la rete a terra. Sono testi sul primato che valgono non di meno del cap. 16 di Matteo. Non di meno! Anzi sono in un certo senso, proprio perché meno espliciti, quasi ancor più significativi, egualmente eloquenti. Arriva prima, è il discepolo che Gesù amava ed è il discepolo che è dotato di questa intuizione d’amore che capisce da lontano, ma questo non lo autorizza ad entrare per primo. La verifica prima è della chiesa. Pietro qui è il capo della chiesa, chiaramente, già. Non è ancora avvenuto il conferimento cosiddetto del primato, ma già chiaramente è presentato come tale e significa, simboleggia, ed assume in sé, riassume in sé il significato della chiesa, della chiesa strutturata, della chiesa con il suo capo, della chiesa che testimonia, della chiesa che annuncia. Pietro, con il quale anche Paolo volle confrontarsi, perché non gli accadesse di correre, o, meglio, di aver corso invano. E dopo la nostra fede nel Cristo. E’ fede basata sulla chiesa, è la chiesa che crede per prima e noi l’accogliamo dalla chiesa questa fede. Dice: “Ma noi, ma io ho una esperienza spirituale particolare”. Ma non conta! La mia fede mi è data da questo consenso dei fratelli e mi è data dalla testimonianza autoritativa, ordinata, chiara, solenne, nitida, gridata della chiesa. Allora rimarrà salda. Guai a noi se l’affidassimo al fervore del nostro amore, allo slancio, alla freschezza della nostra ricerca soltanto, all’ardore stesso, soltanto, della nostra supplica. E’ la chiesa che ce la garantisce, io credo quello che crede la chiesa. E’ la chiesa perché per prima ha verificato, è alla chiesa che il mistero è stato rivelato, è la chiesa che me lo trasmette, è la chiesa che me lo comunica, è la chiesa che me lo partecipa, è la chiesa al cui grido di fede si unisce il mio stesso grido, la mia stessa testimonianza, la mia stessa gioia di credere. Così la fede rimane salda, così sta sicura. Ma se non entriamo in questa prospettiva, se affidiamo la nostra fede e la nostra gioia all’alto e basso della nostra sensibilità, al crescere o al calare di quella che ci sembra la nostra esperienza spirituale, è pericoloso il nostro cammino, è molto, molto rischiosa la nostra scelta. La nostra fede deve rimanere immota e perfetta, totale, come è l’affermazione della chiesa, nella celebrazione della sua liturgia, nella sua professione fatta davanti a Dio, agli angeli e agli uomini: “Io credo”. E il nostro “io credo” che dobbiamo dire così proprio, “io credo”, come facciamo nel rinnovare le nostre promesse battesimali. Alla domanda: “Credete?” si deve rispondere. Avete fatto così, avete presieduto tante volte la liturgia e non vi sbagliate a questo riguardo - non è necessario dirlo a voi, come ogni volta bisogna dirlo ai fedeli - si risponde in prima persona, avete risposto: “io credo”. La chiesa che è fatta anche di questo “io credo”, ma del nostro io che si confonde con l’altro io di tutta la comunità dei credenti, corpo organico e compatto, presieduto dal Cristo capo, che annuncia e canta la sua immensa speranza: “io credo”.

Posso a un certo punto aver l’impressione di non vedere più, a un certo punto, il segno manifesto, manifesto, le bende e il sudario ripiegato a parte - è un segno estremamente significativo. Può darsi che questo segno ad un certo punto non mi dica più niente e che di per sé alla mia mente, alla mia sensibilità, alla mia percezione razionale, sensibile, sembri così opaco, così insolito. Questo non attenuerà il mio atto di fede e la mia gioia. Come potrei vivere altrimenti? Io credo con tutto lo slancio, con tutta la freschezza con cui crede la Sposa santa del Signore, nel suo canto di Pasqua. Io credo. E’ bellissimo così che Giovanni, il discepolo che Gesù amava - e ciascuno di noi può dire così, ciascuno, vedete come non si trascura la valutazione del destino, del mistero mirabile straordinario di ogni anima - è il discepolo che Gesù ama e ciascuno di voi può dirlo di sé evidentemente e Giovanni è il tipo del discepolo, è il discepolo che ama tanto e pure attende. E’ mirabile questa attesa dell’altro che arriva, che scenda per primo, e per primo veda, perché a lui è stato dato. Alla chiesa.

Però c’è al termine di questa prima parte anche un’altra osservazione, che pure è tipicamente giovannea ed è molto bella. Il discepolo che vede e crede - e qui Sant’Agostino che (afferma che Giovanni) crede a quello che aveva detto la Maddalena, Maria, (cioè che lo avevano portato via), scusate, non è attendibile, (perché) il “credidit”, a questo punto, è il “credette che Gesù era risorto”, non c’è ombra di dubbio possibile a questo riguardo, mi spiace per il padre massimo della nostra chiesa, Agostino, così che su questo punto si sbaglia - però qui si rimprovera: “non avevano infatti (ancora creduto)”. “Avevano”, è bellissimo, perché ormai la sua fede non è più la fede sua soltanto, è la fede di Pietro, è la fede della chiesa, abbiamo visto. “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, secondo la quale - dice il testo - egli deve risuscitare dai morti” e si rimprovera d’aver atteso fino a quel punto. Ma non poteva non attendere - “non avevano ancora compreso”. Si rimprovera, ma in un certo senso anche si scusa, perché sa che da solo non può comprendere e che la Scrittura deve essere spiegata dall’evento stesso della risurrezione, verificato, constatato, annunciato, proclamato, testimoniato e che la Scrittura deve essere lo stesso Cristo a spiegarla. E quando Giovanni dice “non avevano ancora compreso la Scrittura” si rimprovera, ripeto, ma in qualche modo anche si scusa.

E come avrebbero potuto comprenderla se Gesù in persona non si fosse accompagnato a loro e non avesse aperto le Scritture perché le comprendessero e la loro mente, perché comprendessero le Scritture, come appare nell’episodio dei discepoli di Emmaus? E’ Gesù che deve spiegarla, e come avrebbero potuto comprendere le Scritture se la luce dello Spirito Santo non fosse scesa nei loro (cuori?…) Si scusa dunque anche in qualche modo dicendo così, ma anche si accusa. A questo punto però non più, a questo punto no! A questo punto capisce, sa! Quando il Signore glielo spiega con l’evento stesso che verifica tutte le Scritture, sintetizzandole tutte, sa che le Scritture dicono che egli doveva risuscitare dai morti. Doveva risuscitare dai morti! E a questo punto le Scritture stesse sostengono la sua fede. Non è più tanto il segno del sudario ripiegato in un angolo a parte. E’ la Scrittura, illuminata dall’evento, illuminata dallo Spirito, resa comprensibile dall’illuminazione interiore dello Spirito e dalla spiegazione datane autoritativamente e con chiarezza dal Cristo stesso, che mostra come le Scritture di lui parlino, ma a questo punto è la Scrittura che gli testimonia, a ogni pagina, che il Cristo, il Messia doveva risorgere e che il suo Signore è vivo ed è accanto a lui e lo attende, e che è la gloria, perché così sta scritto.

Ecco l’altra grande sorgente della nostra certezza e della nostra pace. Quando leggiamo la Scrittura alla luce dell’interpretazione che ne dà l’evento stesso pasquale e lo Spirito Santo col quale siamo in comunione e che ne ha dato il Cristo con la sua parola divina, ad ogni pagina troviamo conferma della nostra fede, perché la nostra fede va recuperata giorno per giorno, giorno per giorno.

Kant diceva che la metafisica è una cosa che sta dritta, sta su soltanto se è tenuta continuamente in movimento come, dice, una palla, una biglia, su un cappello tondo, rigido. Bisogna muovere continuamente il cappello perché la biglia stia su e così un pochino la nostra fede regge se continuamente rinnovata. Noi la nostra fede dobbiamo ritrovarla tutte le mattine, ogni giorno, fresca, nuova, sempre quella e sempre nuova. Come la ritroviamo? Con la Scrittura. E’ la Scrittura che ogni giorno la ravviva, che ogni giorno la fa rinascere, che la ripresenta a noi in tutta la sua bellezza, in tutta la sua armonia, che la giustifica in tutti i dettagli, che la spiega in tutta la sua infinitamente profonda e infinitamente vasta portata. E’ la Scrittura. Ecco dunque che cosa fare per rimanere continuamente in clima pasquale; non suggestionarci in altri modi direttamente psicologici. Non serve a niente, è inutile; non si salta tirandosi per i capelli. Non si crede di più autosuggestionandosi che si crede, anzi, per carità, per carità, è la cosa peggiore, che si rovescia inevitabilmente contro chi tenta di operare su di sé questa suggestione. Non è quella la strada: è il correre alla ricerca, è il perseverare nel pianto e nel chiedere: “Signore, dove sei?” E’ il correre, è il credere, ogni giorno rinnovando la nostra adesione all’“io credo” che pronuncia con un cuore solo e una voce sola, l’unica, la colomba perfetta, la sposa del Verbo. E’ il ritrovare quotidianamente il senso, la portata, la verità e le armonie nascoste della nostra fede nelle Sante Scritture che dicono che egli doveva risorgere.


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