28/7 IX meditazione di Neri, al Cenacolo


Potrà sembrarvi a prima vista che il testo del Vangelo che ho pensato di far leggere per questa celebrazione si addica meno di altri, che raccontano direttamente l’istituzione dell’Eucarestia all’insieme di questa celebrazione liturgica che, preparata dal testo del Deuteronomio, è tutta incentrata sul cibo nuovo che il Cristo ci dà, sull’eucaristia stessa e sulla sua istituzione. In realtà credo che così non sia, come spero che con grande semplicità insieme si possa ora vedere. Ed è forse una buona occasione per rivedere insieme con la grazia nuova che il Signore ci dà - vi assicuro che anche a me capita, in ciascuna di queste piccole omelie, di scoprire aspetti nuovi dei testi che commento, ai quali prima mai avrei pensato - è un’occasione buona per rivedere insieme questa pagina del Vangelo così ricca, così difficile e spesso così male o insufficientemente interpretata. Interpretata molto spesso in modo debole e in qualche modo squalificante – si può dire - rispetto a quella che ne è l’intenzione e il contenuto dominante e che appare nettissimo se ci si pone in una certa prospettiva di lettura.

Dunque: “Prima della Festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre”. Certo, perché sapeva che sarebbe passato da questo mondo al Padre, nella Festa di Pasqua. Chiarissimo. L’annotazione prima della Festa di Pasqua è (elementare). Gesù sapeva che quella era l’ora e per questo lo disse – il richiamo ancora alla Madonna, “non è ancora la mia ora”. L’ora era quella. Era l’ora, come mette bene in rilievo Giovanni che così colloca l’evento capitale del mistero pasquale del Cristo nella quale gli agnelli erano immolati nel tempio, nella quale lui, l’Agnello, è immolato, sull’altare vero, definitivo del quale tutti gli altri erano soltanto figura ed attesa, l’altare dal quale sarebbe salito a Dio come profumo soavissimo di sacrificio, come nei tempi antichi, ma il sacrificio preterumano, il sacrificio transcosmico, il sacrificio perfetto, l’offerta del suo unigenito, l’altare della croce.

Dunque, prima della festa di Pasqua Gesù sa bene che è giunta la sua ora, l’ora del suo sacrificio. Ma l’ora del suo sacrificio è qualificata nel Vangelo di Giovanni - e dobbiamo far attenzione alle formule, che ci possono sembrare un po’ ridondanti e che invece sono sempre calibratissime, pensatissime in questo testo del Vangelo come dovunque, nel Quarto Evangelo, soprattutto – (come l’ora) di passare da questo mondo al Padre, perché questo è tutto il dramma del Cristo, questa è tutta la vicenda del Cristo, questo è tutto il suo itinerario: sono uscito dal Padre, sono venuto nel mondo, ora lascio il mondo e ritorno al Padre, come spiegherà fra poco nel grande discorso che rivolgerà con tanta intimità e solennità insieme, ai discepoli. L’ora quindi del sacrificio è l’ora del passaggio. Per questo è l’ora dell’esaltazione, l’ora nella quale il Cristo passa da questo mondo al Padre - “quando sarò innalzato da terra”. E’ Gesù che sale al Padre. Dunque è Gesù che è esaltato al di sopra di ogni cosa, che varca i cieli, che si squarciano per accogliere lui, l’unigenito. Passa al Padre. E’ per questo che si capisce, dopo che ha detto questo: “avendo amato i suoi che erano nel mondo”. E il problema dell’interpretazione di questa pagina è tutto qui: Gesù passa da questo mondo al Padre, ma i suoi, come spiegherà tanto bene al capitolo 17, ma anticipandolo già prima, sono nel mondo. Ricordate - il cap. 17 è tutto giocato su questo essere nel mondo, non esser del mondo. Loro rimangono nel mondo, o Padre, ma io ti prego. Ma non anticipiamo. Il problema dunque è tutto qui: Gesù passa da questo mondo al Padre e i suoi sono nel mondo. E’ qui il guaio, è qui il dramma. Gesù allora si separa dai suoi? Lui ritorna nella gloria e li abbandona nel mondo? Li lascia nel mondo? Realmente li lascia nel mondo? Ha fatto loro tanto bene. Ha annunciato la parola del Signore, ha rivelato il nome del Padre, ha comunicato loro grazia, dalla sua pienezza tutti hanno attinto, è passato facendo del bene, li ha risanati dai loro peccati, ha guarito la loro mente dall’ignoranza, il loro cuore dalla freddezza, la loro vita dall’estraneità a Dio, ma occorre che li ami sino alla fine.

Che cosa vuol dire “amarli sino alla fine”? Non fino al segno supremo, come qualcuno traduce. No, teniamo il testo: sino alla fine. Qual’è la fine di questo amore? E’ il fine di questo amore, è la conclusione, è la realtà ultima cui tutto tendeva. Quale? Quella di far sì che i suoi, pur essendo ancora visibilmente nel mondo, non fossero più del mondo e fossero essi stessi trasferiti con lui, nella gloria del Padre. Di fare i suoi non mondani - “li amò sino alla fine”, ci fece questo dono. Quanti ce ne aveva fatti, ma se non ci avesse fatto questo! Se ci avesse lasciati realtà di questo mondo e se, dopo essere passato, come tanti rivelatori gnostici, dopo essere passato, dopo averci spiegato, dopo aver fatto rifulgere da sé la gloria del mondo divino, donde proveniva, ci avesse lasciati qui, non ci avrebbe amati sino alla fine, ma ci amò sino alla fine. Noi che eravamo nel mondo. E ci prese con sé, nella gloria del Padre. Gesù sale al Padre dunque, non solo, ma sale con i suoi che sono nel mondo, pur lasciandoli ancora apparentemente o per una certa dimensione del loro essere, che non è però la dimensione ultima e suprema, nel mondo. E’ giunta l’ora perché lui passi da questo mondo al Padre, ma ama i suoi che sono nel mondo sino alla fine. Il testo è, se così inteso - e mi pare non ci sia altra interpretazione onestamente possibile - già (interpretato): tutto quello che fa lo fa per questo, per amarli sino alla fine e portarli con sé.

E per questo, compiuta la cena, quando già si è consumato ormai, si è consumata la sua consegna, “avendo già il diavolo gettato nel cuore di Giuda, di Simone Iscariota di tradirlo” - e questo il diavolo l’ha fatto soltanto perché è il Cristo, lui, il Signore che gliel’ha consentito; “e quando gli diede il boccone il diavolo entrò nel suo cuore”. Gesù si è consegnato, Gesù che ha scelto quel discepolo perché lo tradisse, sapendo che lo avrebbe tradito. Certo l’ha scelto amandolo, l’ha scelto per beatificarlo, ma l’ha scelto sapendo che sarebbe stato lui che l’avrebbe tradito. Lo ribadisce anche in questo testo il Vangelo: ormai il sacrificio si è compiuto, si è consumato perché ormai la decisione irrevocabile è stata presa, non solo da parte del Cristo di consegnarsi, ma anche da parte del traditore di consegnarlo. La duplice consegna: la consegna che il Cristo compie di sé al Padre e la consegna che il traditore compie ormai nel suo cuore del Cristo ai suoi nemici perché lo uccidessero.

E poi c’è quel versetto terzo che sembra così una ridondanza e che male interpreteremmo se lo intendessimo soltanto come una affermazione soltanto. E’ anche questo, ma va interpretata come una affermazione della gloria del Cristo in questo momento di somma umiliazione. Dice il versetto 3: “Sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era uscito da Dio e a Dio ritornava”. Dice due cose: che è uscito da Dio e a Dio ritorna - e già lo abbiamo detto - ma sta anche l’altra cosa: che il Padre gli ha dato tutto nelle mani. E certo è l’unigenito. Tutto - abbiamo visto - è stato creato per mezzo di lui. No, non vuol dire soltanto questo, né prevalentemente questo. Il Padre gli ha dato tutto nelle mani. Chi gli ha dato nelle mani? Ha posto nelle mani del Cristo - è questa una delle grandi linee della rivelazione contenuta nel quarto Vangelo - coloro che sarebbero stati salvati. E’ nel Cristo la salvezza, è dal Cristo che dipende la salvezza, è a lui che il Padre ha donato i suoi discepoli. Molto spesso il Vangelo di Giovanni parla dei discepoli come di coloro che il Padre gli ha dato e riprende questo discorso nel cap. 17 in modo estremamente significativo. Il Padre dunque gli ha dato tutto nelle mani, e quello che gli ha dato nelle mani il Padre, Gesù non lo abbandona. Dice al cap. VI - vi ricordate? - e ancora al cap. X “e nessuno me li strappa dalle mie mani, perché il Padre che me li ha dati è il più forte di tutti, è il più grande di tutti”. Allora quello che qui si ribadisce che è avvenuto è che nel Cristo soltanto è la salvezza e che al Cristo sono stati consegnati dal Padre, nelle mani del Cristo, i discepoli. Allora il Cristo che va al Padre, non vuole lasciare i discepoli nel mondo, non vuole abbandonarli, non vuole lasciarli nella perdizione, non vuole lasciarli nella morte, non vuole lasciarli nell’umiliazione, non vuole lasciarli nelle tenebre, ma li vuole prendere con sé, perché tutto è stato dato a lui.

Ora come fa il Cristo a prenderli con sé? Come fa? Allora ecco, dice cosa fa. Si alza da cena - e qui ogni formula è meravigliosa, ogni formula è un incanto. Dalla grande cena, della quale quella era un segno, dal banchetto eterno della beatitudine di Dio, si alza da cena, depone le vesti. Che meraviglia questo “depone le vesti”! Egli che era nella forma di Dio non considerò come una rapina essere presso Dio, ma “depose la forma”, si svuotò della forma, per assumere la forma dello schiavo. Depone le vesti, qui l’interpretazione patristica è perfetta. Non è fantasia. E’ mancanza di fantasia quella dei moderni che eventualmente non si accorgono di questo significato che c’è intenzionalmente nel testo: depone le vesti, depone l’abito della gloria e si riveste dell’abito dello schiavo.

E’ la Lettera ai Filippesi, l’inno cristologico tale e quale. Si cinge del lenzuolo di schiavo. Ecco che cosa fa, per prendere con sé quelli che il Padre gli ha dato. Sapendo che gli ha dato tutto nelle mani e che ormai è giunta l’ora nella quale - se non lo fa adesso, non lo può più fare! - lascia questo mondo e va al Padre. Depone le vesti, poi versa dell’acqua in un catino e comincia a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con il lenzuolo: è il compito dello schiavo. Ma versa l’acqua, l’acqua che sgorgherà dal suo costato, dal lato destro del tempio, l’acqua della purificazione suprema, l’acqua che trasforma in nuova creatura, l’acqua che rigenera coloro che in essa sono immersi. “Versa l’acqua”. E’ Gesù che nella forma di schiavo versa quest’acqua e la pone a nostra disposizione. E il significato di questo lavare i piedi sarebbe - e questo è uno dei rischi più gravi dell’interpretazione, di un’interpretazione un po’ superficiale della quale certamente nessuno di voi, nessuno di noi si è reso colpevole – (quello) che fa di questo testo un gesto soltanto di umiltà: ecco lava i piedi, guardate come si abbassa, rende un servizio. Sì, rende un servizio. Ma bisogna intenderlo in senso forte: rende il servizio. Quale servizio? Lo dice dopo.

Quando reagisce in modo così severo a Pietro che gli dice: “Tu non mi laverai i piedi in eterno, tu lavi i piedi a me?” E Gesù dice “se non ti laverò non avrai parte con me”. Allora che cos’è questo lavare i piedi? E’ rendere partecipe del frutto, del mistero, della sua immolazione, della sua immolazione redentrice, della purificazione dei peccati che il Cristo compie, “compiuta la purificazione dei peccati”. Per cui chi rifiuta di farsi lavare i piedi non è soltanto un orgoglioso che dice: “Ma insomma, perché? Io non voglio fare questa figura, non sta bene”. (Non è soltanto) uno che non capisce. “Lo capirai dopo”. E’ il grande mistero che si capisce dopo, solo con il dono dello Spirito. Solo con la rivelazione compiuta del mistero del Cristo si capisce cosa vuol dire questo lavare i piedi. Fosse stato soltanto un gesto di umiltà, un gesto di estrema condiscendenza, non ci sarebbe stato bisogno di quel “dopo”. Quando Gesù dice: “Non lo capisci adesso, lo capirai dopo”, vuol dire che è un mistero supremo celato nel cuore di Dio. Ecco cosa vuol dire lavare i piedi: se non ti lavo non avrai parte con me, se io non ti purifico, se non ti lavo con il mio sangue, se il mio svuotarmi non riempie, se l’acqua che sgorga dal lato destro del tempio, del mio costato trafitto, non ti lava, tu non hai parte con me! E’ chiaro quel che dice il Signore. Dunque Gesù che, come dice il cap. III di Giovanni, solo sale al cielo, “perché nessuno è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo” e come aggiungono alcuni testi - ma non è il testo critico, “il Figlio dell’uomo che è in cielo” - Gesù che solo sale al cielo, può portare con sé e vuole portare con sé i suoi discepoli, non li abbandona e li porta seco, egli deponendo le vesti e rendendoli partecipi, riversando su loro tutto il frutto della sua redenzione del suo sangue purificatore, dell’acqua purissima che sgorga dal suo costato trafitto. E Pietro dice: “No, non mi laverai i piedi”. Ecco il rischio. E’ presentato non come una semplice boutade di Pietro - ecco il solito carattere. No, non banalizziamo. E’ un rischio costante, è il nostro rischio, è la vera alternativa - capite una cosa estremamente seria - è il vero problema, lasciarsi o non lasciarsi lavare i piedi da Cristo. Beh, insomma, ti rendo un servizio. Lasciatelo fare. Eh sì, eh sì! Cosa vuol dire lasciarsi lavare i piedi? Vuol dire evitare due alternative, rispetto a questa che è l’accettazione, l’accettazione del dono, il sì alla grazia, alla grazia pura. Pietro non fa niente, sta lì fermo soltanto, deve permettere che il Signore gli lavi i piedi. Non dite che è facile, ci è tanto difficile. Ci è tanto difficile. E’ la pura grazia, il puro dono di Dio da accettare come tale, sapendo che noi non portiamo niente, non è lui che si lava i piedi, né se li lava né se li asciuga. E’ Gesù che lava e asciuga. Le due alternative rispetto a questo sono da un lato la presunzione, la presunzione di non averne bisogno. “La mia salvezza si compie in modo diverso: sono io in fondo, io mi comporto bene, io ho il diritto di essere salvato”. No tu non hai il diritto di essere salvato. Siamo tutti figli d’ira, come gli altri, tutti figli d’ira e nessuno è salvo per le proprie opere. Si è salvi soltanto per il dono puro, assoluto, gratuito, non meritato, non preparato, se non da Dio stesso per sua grazia. E’ tutto qui.

Oppure la disperazione: “No, non ci credo, non è vero, non è possibile”. In queste due strade che divaricano rispetto al sentiero dritto, unico del dire: “Sì o Signore, lavami non solo i piedi, ma anche le mani, la testa”, per queste due strade che divaricano, quanti rischiano di andare, e quanto rischiamo di andare.

Non basta. Dopo aver fatto questo ed averlo ben spiegato - ma è chiarissimo cosa intende dire il Cristo, è di una limpidezza incredibile! - dal versetto 12 in poi dice - e quello che dice conferma l’interpretazione che abbiamo dato - “Quando ebbe lavato i loro piedi ed ebbe ripreso le sue vesti e si fu seduto di nuovo”. E’ quello che spetta di compiere a noi, dopo la glorificazione del Cristo. Il Cristo è nella gloria, ha ripreso le sue vesti. E’ nella gloria e noi qui che cosa dobbiamo fare? “Lavarci i piedi gli uni con gli altri”. Quante volte si è detto: la disponibilità nel servizio, la generosità, il sapersi umiliare, il prendere l’ultimo posto. No, no non cambia il senso della formula “lavare i piedi”. Anche noi dobbiamo, così, come ha fatto il Signore, così deporre le nostre vesti, cingerci e lavare i piedi. Non è una disponibilità ad un servizio anche umiliante. E’ il deporre la propria vita gli uni per gli altri. Questo è il servizio che ci chiede il Cristo. Gli altri servizi sono semplicemente il segno della verità di questo servizio, sono semplicemente il sacramento, per così dire, il simbolo, il tipo, l’irradiarsi coerente, nel nostro modo di porci, nel nostro modo di agire, di questo servizio che il Cristo ci chiede di compiere. Così anche noi dobbiamo deporre la vita gli uni per gli altri, dice in termini formali ed inconfutabili la prima Lettera di Giovanni. “Vi ho dato un esempio perché così facciate anche voi”, assunti nell’opera salvifica compiuta dal Cristo a nostro favore, siamo assunti anche - questo non possiamo dimenticarlo, è tutta la teologia di Giovanni  qui - nell’opera salvifica da compiere a favore dei nostri fratelli. Partecipi dell’atto della redenzione, avendone accolto in noi il dono, siamo diventati partecipi dell’atto redentivo anche essendo stati chiamati a diventare vittime per i nostri fratelli, per la vita del mondo, perché là dov’è il Maestro sia anche il suo discepolo e non c’è discepolo maggiore del maestro. E’ alla luce di quel passo del cap. 12 che va inteso. E’ così che come quel grano di frumento caduto in terra ha portato frutto, così, se non si muore, non si porta frutto ed è per questo che Paolo si diceva, senza esitare, colui che completava nel suo corpo ciò che mancava dalla passione del Cristo per il suo corpo che è la Chiesa. Ricordate e ricordiamo, come non ricordare questo testo. E diceva ancora senza esitare “di essere versato in libagione di sacrificio sulla fede dei suoi fedeli”. Quindi la partecipazione al mistero del Cristo è insieme le due cose: il lasciarci lavare i piedi e il lavare i piedi, ambedue intese in quel senso forte, semplice, totale che hanno in questa pagina solennissima. Qui Gesù non perde il tempo a dare un insegnamento morale tra tanti altri che aveva dato, dice ben di più. Dice il comando supremo: “Che vi amiate come io vi ho amato”. E il come non vuol dire dal momento che io vi ho amato soltanto, ma che vi amiate nelle stesso modo con cui io vi ho amato. Quindi deponendo la vita. E che c’entra l’Eucarestia? E che cos’è l’Eucarestia, se non questo? Nel Vangelo di Giovanni che cos’è l'Eucarestia, se non questo? Che cos’è nel cap. VI - quel testo che ha fatto tanto faticare giustamente gli esegeti, che non si capisce - ma di cosa parla, che cos’è questo mangiare, mangiare la carne, bere il sangue del figlio dell’uomo? Prima di giungere a quella esplicitazione suprema, esplicitazione coerente con tutto il resto che è: “la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda”, dove parla chiarissimamente del sacramento/mistero dell’Eucarestia, pane e vino consacrati. Ma che cos’è questo mangiare la carne e bere il sangue, se non partecipare alla passione del Cristo, accostandosi al Cristo nella fede, lasciarsi purificare da questa passione, coinvolgere in questa passione per avere e mangiare di questa passione, assimilandola in sé, per avere in noi la vita. Ma come? Nutrendoci del corpo e del sangue di Cristo abbiamo in noi la vita e viviamo dove lui vive e come lui vive. Così partecipando dell’atto - il mistero pasquale della croce e della glorificazione del Cristo Gesù - immoliamo la nostra vita. E in modo che il suo sacrificio non è più soltanto il suo, ma è il sacrificio suo e del Cristo totale, di tutta la chiesa che con lui, cibandosi di lui, si immola per la salvezza del mondo. C’è qui tutto, l’Eucaristia, in questa pagina. Il Signore ci conceda di celebrarla sempre così l’Eucaristia, sapendo che in essa siamo gratuitamente lavati da colui che ha deposto l’abito della gloria e che ci ha lavati con il suo sangue e sapendo che in essa si aprono per noi le porte del regno dei cieli e siamo trasferiti nel grande passaggio della Pasqua, da questo mondo al Padre, e sapendo che in essa, volenti o nolenti, se veramente vi partecipiamo, siamo assunti nell’offerta vittimale che il Cristo fa di sé per la salvezza del mondo. 


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