27/7 II meditazione di Dossetti su Col 1, 1-11


(Seguiremo come traccia generale) comune a queste nostre riflessioni, la Lettera ai Colossesi, non perché io intenda farne un’esegesi, ma perché - mi sembra - può offrire, sulla base di un’esegesi letterale già fatta da chi può essere più competente di me, un insieme di riflessioni serie che si inquadrano nel problema o il complesso di problemi che ho potuto accennare un po’ con quella carrellata storica della mia vita, ieri sera.

Vedremo poi se ci conviene andare avanti nella Lettera, meditazione per meditazione, oppure alternare - ma questo poi lo si vedrà in concreto - alternare la Lettera e le riflessioni che ci suggerisce e poi alcune applicazioni più direttamente inquadrabili e scaturenti anzi dalla riflessione di ieri sera e dall’esperienza conseguente. Dunque la leggiamo anzitutto o la suppongo letta.

Dunque: “Paolo, apostolo di Cristo Gesù, per la volontà del Padre, di Dio e Timoteo il fratello, a quelli che sono in Colossi, ai santi e fedeli fratelli in Cristo, grazie a voi e pace da Dio nostro Padre.” Questo è il saluto molto consimile al saluto che si trova in altre lettere, propriamente, sicuramente di Paolo. Anche in questa, qualunque sia l’autore, la si ritrova. Paolo, apostolo per volontà di Dio e Timoteo che viene associato per rendere ancora più esplicita la ufficialità dello scritto che non è uno scritto privato, ma è uno scritto di comunione di una Chiesa a una Chiesa, di tutta la Chiesa.

“Ai santi”: i santi non in senso soggettivo - sappiamo bene - ma a quelli che sono stati dichiarati tali e trovati con un atto preciso di Dio - quella che è la vocazione, come è chiamata nella prima ai Corinti 1 e 2. Quindi questa santità non nasce da un equivoco perfezionismo cercato dalla persona. Non nasce da questo. Non nasce da noi stessi, ma è in Cristo. Fin dal primo momento, la lettera si caratterizza per questo suo tendere a mettere in evidenza dei punti di realtà oggettiva - che poi sarà tutto quello che io potrò dire della lettera. Questo sguardo alla oggettività. Non tanto una santità soggettiva, non tanto un perfezionismo cercato dalla nostra volontà, ma la santità che ci è data e che è voluta in Cristo e da Cristo. Come “la grazia e la pace”. La grazia non è una qualsiasi benevolenza di Dio, un atteggiamento benevolo del Signore verso l’uomo, ma è la dimostrazione della grazia data in Cristo. La pace non è un sentimento dell’anima che raggiunge la sua quiete, la sua “esychia”, il suo riposo, ma è la pace obiettiva, dichiarata da Dio in Cristo per gli uomini. Operata dalla sua riconciliazione, che è tutta iniziativa sua e che perciò sorpassa ogni intelligenza ed ogni sentimento. Tutte realtà oggettive.

“A coloro che sono in Colossi”: è un modo molto ritrovato nelle lettere di Paolo, questa determinazione che fa poi rivolgersi alla comunità come comunità locale. Anche qui ciò che è considerata era anzitutto la comunità locale. Lo sviluppo di questi riferimenti alla comunità locale nelle intestazioni delle lettere del “corpo paolino”, trova poi appunto un’espressione massima negli analoghi - e molto diversi e più completi - indirizzi di S.Ignazio di Antiochia. Potremmo leggerne qualcheduna e vedere a che cosa porta questa considerazione immediata della comunità locale. Per esempio, Ignazio agli Efesini: “Ignazio, detto anche “Teoforo”, alla benedetta nella grandezza di Dio Padre in pienezza, a colei che è santa, è stata predestinata prima dei secoli, ad essere sempre per una gloria che rimane, immutabilmente unita ed eletta nella passione vera, nella volontà del Padre e di Gesù Cristo nostro Dio, alla Chiesa degna di essere detta beata, che è in Efeso dell’Asia, augura di gioire moltissimo in Gesù Cristo e in gioia incontaminata”. Cioè troviamo che alla comunità locale si attribuisce - quando essa è formata con le sue componenti essenziali, con il suo consiglio degli anziani, poi con il suo vescovo - si attribuisce una natura ben diversa dal suo fondamento sociologico. Non è una città entro le sue mura, non è un agglomerato di persone più o meno organizzate, non è un ordinamento politico, è l’oggetto di una pre-elezione e di una predestinazione. E in che cosa questa elezione, predestinazione? Nella volontà di Dio e nella passione del Cristo. Questo è il fondamento e questo è il cemento unitivo nella comunità che viene così considerata. Però anche qui, nella Lettera agli Colossesi, si ha anche riguardo alla comunità universale, all’ecumene, e anzi il discorso è un continuo passaggio dalla comunità locale alla unica santa Chiesa di tutto il mondo, di tutto l’ecumene. Questo lo troviamo - dunque - troviamo la comunità locale nel versetto 2 e nel versetto 4 e troviamo invece l’accento portato sull’unità, sulla grande Chiesa, sul grande ecumene della Chiesa universale riunito nel mondo intero, perché ha ricevuto e riceve l’Evangelo, la grande Parola del Padre, nel suo Cristo. Questo lo troviamo nei versetti 6 e 7. E poi più avanti ancora si ha questa alternanza e questo passaggio che fa sì che il cristiano debba subito mettersi in presenza di queste due realtà e stabilire subito il contatto con queste due sfere. Non può vivere senza anzitutto fare riferimento alla comunità locale nella quale l’unica chiesa dell’ecumene si visibilizza e si manifesta in concreto e d’altra parte non può pensare di essere soltanto chiuso in essa, anche quando sia lata e anche quando sia di centinaia o di milioni di persone. Deve sempre fare riferimento alla grande convocazione che per tutto il mondo opera ed anima l’Evangelo di Cristo. Questi passaggi continui sono ben presenti nella lettera, di questa sollecitazione al nostro cuore a vivere con i piedi in due staffe, per così dire, senza di che il nostro organismo cristiano non si costruisce…

Poi segue il ringraziamento: “Ringraziamo il Padre del Signore nostro Gesù Cristo sempre per voi pregando”. E’ il ringraziamento che si esplica in un’intercessione continua ed è un’intercessione continua che trova il suo culmine in un ringraziamento. Le due cose si intrecciano. Che cosa ne viene per conseguenza? Che il nostro vivere concreto, cristiano, quello che - direi con una parola un po’ di moda da qualche tempo - è il nostro vissuto, nostro vissuto religioso, spirituale, è precisamente la preghiera di intercessione per gli altri, senza di che non abbiamo spessore, non abbiamo vita come cristiani, non possiamo dire: ho vissuto da cristiano. E’ chiaro che per la lettera, il vertice del nostro vivere è la preghiera di intercessione, che si concreta in un grande ringraziamento o in un grande ringraziamento, che si esplica in una continua preghiera di intercessione. Questo ci interpella, eh! Ci costringe ad esaminare, a vedere se veramente c’è nella nostra vita un tessuto e uno spessore continuo, senza vuoti, così fatto.

E se questo oltre che essere proprietà nostra - la nostra vita - è anche ciò che inculchiamo negli altri primariamente, come vertice del loro essere e del loro vivere da cristiani. La grande preghiera di intercessione per gli altri e di ringraziamento per gli altri. Questa preghiera nella Lettera la troviamo, oltre che in principio, nei versetti 3 e poi nel versetto 9, poi anche al versetto 23 e, forse ancora, continua ancora al versetto 29 che è l’ultimo del capitolo. A chi è rivolta? A Dio, in nome di Cristo. Risulta già inizialmente al versetto 3: “Rendiamo grazie a Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo”. Cristo è il mediatore necessario per la preghiera. Si prega in nome suo il Padre. E questo ci dice una cosa molto semplice, che non ci pare però così semplice, anche se poi ne sperimentiamo le conseguenze: che la preghiera non è ovvia. E’ un dono, è un dono di Dio, fattosi in Cristo e che si esercita, si estrinseca attraverso il Cristo, nel ritorno al Padre. Altrimenti che cosa preghiamo? Non preghiamo! Ci illudiamo di pregare, ma non preghiamo. E quanti si illudono oggi di aver trovato dei sistemi di preghiera che non hanno questo circuito! Vedremo che é proprio uno degli scopi della Lettera ai Colossesi di colpire questo. Di colpire, in altre parole - e lo vedremo dopo, non stamane ma prestissimo - una realtà di vita religiosa e spirituale che presume di essere più alta ancora, ma che invece è deplorevolmente bassa e deviata. Non è ovvia. E’ un dono, è un dono del Padre in Cristo che si estrinseca in un nostro rapporto attraverso il Cristo riconosciuto come necessario ed unico mediatore che ci dà accesso al Padre.

L’oggetto: il ringraziamento - che vuole anche essere intercessione - è perché ha udito l’autore “la vostra fede in Cristo Gesù e la dedizione che avete verso i santi tutti per la speranza che è riposta per voi nei cieli e che avete udito nel Verbo della verità che è in tutto il mondo”. Adesso poi traduco meglio e vedrete. La fede dunque è l’oggetto di questo ringraziamento e di questa intercessione. A un tempo la carità e la speranza. Ma anche qui - attenti eh! - sono prospettati perché sono determinati con elementi che li obiettivizzano; non sono atteggiamenti sentimentali o spirituali soggettivi. La fede, e la fede che ci è stata data da Cristo, la fede di Cristo – dice - in Cristo. Si può anche tradurre la fede che ha per oggetto Cristo, ma è più conforme al pensiero della Lettera ai Colossesi intendere la fede che ci è stata data da Cristo. La carità che è l’amore verso tutti i santi, non un sentimento, ma la comunione concreta all’interno della Chiesa, all’interno cioé della comunità prima di tutto, verso tutti i santi. Non una qualche vaga simpatia o una qualche vaga sentimentalità o un sia pure chiaro, operante agire per il bene degli altri. No, l’amore concreto che si estrinseca nei confronti di coloro che sono parte della nostra stessa comunità, che fanno quindi parte della Chiesa, che hanno per comune determinatore e comune misura la predicazione della Chiesa, ciò che la Chiesa annunzia nel suo modo essenziale di essere e di dire, quindi in fondo la catechesi battesimale. Questa è la carità che qui si considera. E poi la speranza che non è la speranza che io provo o che ho, ma è il bene della salvezza che è per me predisposto nei cieli, ed è per me custodito nei cieli. Anche qui è tutto oggettivo, questo bene della speranza per me custodita nei cieli. E’ misurata sulla misura dell’Evangelo, “quam audistis in Verbo veritatis Evangeli”. Il quale a sua volta è operante e si riconosce nella totalità della Chiesa, dove porta frutto e cresce con un suo dinamismo, e che si coglie nell’unica Chiesa perché in tutto il mondo - dice “in universo mondo” - e insieme si visibilizza nella comunità locale di cui Paolo, o l’autore, traccia la storia dicendo che è la comunità che è fondata da Epafra, ecc. Quindi ecco questo oggetto molto individuato e concreto: la fede data da Cristo, la carità verso i santi, i membri della comunione concreta che si attua e si riunisce nella comunità locale, la speranza che ci è custodita nei cieli, conformemente alla verità di cui ci assicura l'Evangelo, che perciò poi si è esteso in tutto il mondo e con un suo dinamismo fruttifica e si accresce.

L’intercessione dunque che segue: “Perciò anche noi, dal momento che abbiamo udito, non cessiamo di pregare per voi richiedendo che siate riempiti della conoscenza della volontà di Dio in ogni sapienza ed intelletto spirituale”. L’intercessione dell’apostolo o dell’autore è qui espressa con concetti molto intrecciati - anche se si vuole sovrapposti. Non è nemmeno la conoscenza razionale di carattere metafisico. E’ invece una sapienza ed un intelletto “spirituale” operato dallo Spirito, dal dono di Dio. E qui faccio una piccola divagazione del genere delle cose che ho detto ieri sera per raccontare una cosa: ho conosciuto Benedetto Croce e l’ho conosciuto alla Costituente, dove ha fatto un discorso, peraltro alto e nobile, appunto sull’art. 7 della Costituzione, cioè sul regolamento dei rapporti tra Stato e Chiesa e ha finito il suo discorso dicendo: “Veni creator spiritus”. Ora lo Spirito di cui qui si tratta, non è lo spirito di Benedetto Croce, non solo lo spirito soggettivo di Benedetto Croce, ma quello di cui lui parlava. Quell’altro è lo spirito hegeliano oggettivo che si attualizza, si incarna nella storia degli uomini e che massimamente si incarna nell’ordinamento statuale e che massimamente per Benedetto Croce in quel momento, non nel momento della Costituente ma alcuni anni prima si incarnava nello Stato hegeliano, prussiano. Basta leggere un libro che secondo me farebbe bene a molti, oggi dimenticato, le pagine sulla guerra, di Benedetto Croce, che egli scrisse prima dell’intervento italiano nella guerra del ‘14 e in cui naturalmente sosteneva la causa degli Imperi centrali, che appunto rappresentavano per lui la massima realizzazione nella storia dello spirito. Questo non è lo Spirito! Lui lo invocava con le parole dell’inno della della Chiesa, ma è un altro spirito, non è lo Spirito di cui parla S.Paolo nella Lettera ai Colossesi. E qual è questo Spirito? Qual è questo Spirito che qualifica la sapienza e il senso dell’intelletto, della conoscenza di Dio? Qual è? E’ lo Spirito del capitolo XIX di Giovanni, che il Crocifisso ha effuso su tutto il mondo nel suo ultimo respiro dalla Croce. E’ lo Spirito che il Cristo ha insufflato sugli apostoli la sera del primo giorno dopo il sabato, è lo Spirito che poi è sceso in lingue di fuoco sugli apostoli, le quali lingue - dice il testo - si sono sedute su ciascun apostolo. Questo “sedere”, questo “posare”, ma proprio “sedere sulla testa degli Apostoli”, questo è lo Spirito, lo Spirito di Cristo, del Cristo crocifisso e risorto, che, sì, deve profondamente animare la nostra conoscenza di Dio. S.Paolo prende subito le distanze dai suoi contraddittori che vedremo qui sotto e che deve portare ad una semplicissima conseguenza: a piacere in tutto a Dio. “Perché noi possiamo camminare in maniera degna di Dio piacendogli in ogni cosa, in ogni opera buona fruttificando e crescendo nella conoscenza di Dio”. Questo Spirito, che è lo Spirito del Cristo crocifisso e risorto, ci deve far capire, ci deve portare non tanto ad una qualsiasi conoscenza di Dio (una “theoria”) o una qualsiasi conoscenza - come qui pensavano i contraddittori di Paolo - degli abissi, delle profondità, del mistero, del mistero a cui la iniziazione misterica introduce. Ci deve semplicemente portare alla conoscenza della volontà di Dio - non solo il suo essere, presupposto - ma della sua volontà, della sua volontà concreta, individuata su di me e su di noi, sul noi collettivo della comunità. E che poi si deve sviluppare con un dinamismo infinito, conforme alla gloria di Dio - dice il versetto 11 al quale ci fermiamo.

Lo Spirito che ci anima e che ci porta, di conoscenza in conoscenza della volontà di Dio, ci rende anche capaci, atto per atto, di attuare questa volontà di Dio, cioè di avere una conoscenza conforme alla attuazione ed all’esperienza che ne ricaviamo continuamente e in una maniera incessante, infinita, perché il suo traguardo è soltanto l’infinita gloria di Dio.

Ecco tutta la prospettiva della vita cristiana, tanto più della vita del sacerdote coerente, dell’apostolo, non misurata su altri canoni - è chiaro che con questa prospettiva tutti i canoni, tutte le misure, etiche per esempio, diventano vane, sono completamente sconosciute, non dicono niente, non dicono nulla, oppure fanno adagiare nella piccola soddisfazione, terribile, di essere a posto con la morale corrente. Ma non è questa la prospettiva. Non ci sarà mai canone di moralista, che possa dire: tu sei a posto, in questa prospettiva. Quando invece noi entriamo in questa veduta e sentiamo l’assoluta necessità di rispondere all’incessante dinamismo di questa realtà infinita, trascendente eppure così intima a noi, da essere più intima di noi, che è lo Spirito di Gesù, nel suo dono, nella sua richiesta inesauribile come inesauribile è la gloria del Padre.


[Torna all'indice]