26/7 VII meditazione di Neri, omelia a Betania


Ieri sera abbiamo visto il primo dei segni di Gesù. Vediamo ora l’ultimo. Il primo che prometteva lo Spirito Santo che Gesù avrebbe dato nella sua ora, quando il Padre lo avesse glorificato.

L’ultimo segno, pure di importanza capitale, che prelude a tutto il mistero del Cristo e che ci fa comprendere fino in fondo il senso dell’opera di Dio, il suo scopo e il suo risultato. E’ un segno di importanza capitale e che Gesù compie nonostante il rischio, perché ritiene che sia decisivo vederlo e sapere di questo segno per comprendere la rivelazione che lui è venuto a portare sulla terra. Così mi pare debbano essere intesi i versetti 9 e 10 - voi avete sentito la lettura: “Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno non inciampa perché vede la luce di questo mondo, ma se uno cammina nella notte inciampa perché la luce non è in lui”. Cioè il mio tempo sta per concludersi, il tempo in cui io sono (nel mondo) – “Finché sono nel mondo sono la luce del mondo”, ricordate come dice anche nel luogo parallelo del capitolo 9, prima di compiere il segno della illuminazione. Occorre quindi che in questo tempo, che è solo di ore ben stabilite, (ci sia) il momento preciso nel quale scocca l’ora di Dio e il Cristo va alla sua morte e la sua rivelazione, la sua parola è chiusa.

Il tempo di questa grande illuminazione, della quale si raccoglierà il frutto lungo tutta la storia della Chiesa e durante tutta la storia del mondo sino alla fine dei secoli, sta per concludersi, finirà. Lo stesso Spirito Santo non aggiungerà nulla di nuovo, prenderà dal suo e farà ricordare e insegnerà le cose che Gesù stesso ha detto. E per questo sono dodici le ore del giorno, non si può allungare lo spazio della giornata. E finché è nel mondo Gesù deve rivelare tutta la luce che contiene, deve compiere il mistero della sua rivelazione. “Ho manifestato il tuo nome agli uomini, ho compiuto l’opera che tu mi hai dato”. Fa parte di quest’opera che Gesù, ormai allo scoccare dell’ora della fine della sua missione terrena, deve terminare di compiere la rivelazione contenuta in questo episodio e nelle parole con le quali Gesù lo esplica e lo insegna. Quindi di una importanza capitale, altrimenti si cammina nelle tenebre. Se non si sa questo, se non si conosce questo, la luce non entra nella nostra vita, è tutto ottenebrato il nostro cammino. Lo stesso cammino nostro nel mondo - di discepoli del Cristo - non può essere compiuto senza che noi inciampiamo e cadiamo. E’ essenziale quindi conoscere e comprendere questo, per capire ciò che è il mistero e il senso voluto da Dio e definito da Dio nella nostra vita. Questo mi pare che sia molto chiaramente espresso in questa formula solenne con la quale Gesù si difende rispetto al tentativo dei discepoli di trattenerlo ancora, fuori da Gerusalemme. “Io debbo”; questa è la rivelazione decisiva. E in che cosa consiste questa rivelazione decisiva? E’ data da alcune formule e alcune parole che voi conoscete, che io semplicemente vi ricordo. Sono molto in soggezione di parlare con delle persone che sanno tutto - so che non dico niente di nuovo. Ma in un certo senso (mi rallegro), perché appunto sapete già e quindi ricordiamo insieme. Attraverso (le espressioni evangeliche) che ci consentono unicamente, se bene facciamo attenzione, di capire con esattezza.

Prima di tutto Gesù dice quella cosa strana che sembra detta a perdi tempo - ma non è pensabile nel Vangelo di Giovanni che questo sia - “Lazzaro, il nostro amico, dorme”. Dorme! Poiché, siccome non è capito, come al solito - quando Gesù parla in senso spirituale, la gente lo capisce sempre a un senso più basso, nel suo significato più banale - ricordate tutti il dramma del discorso di Gesù con Nicodemo, di Gesù con la samaritana, di Gesù con i giudei di Cafarnao dopo la moltiplicazione dei pani, e così via, è continuo tutto questo - Gesù spiega: “No, è morto”. Ma non per rimangiarsi la parola che ha detto prima. “E’ morto sì, ma dorme”. E’ una delle parole più decisive di tutto il testo. Dorme, non è (morto), è morto e non è morto. E’ morto, perché il suo corpo si è addormentato, si è addormentato in una grande attesa, ma si è semplicemente addormentato, non è morto. Tanto è vero che basta un grido. L’ultima scena vuol dire proprio questo. Quando uno dorme, se si grida forte, si sveglia, se chi grida forte è il Signore, in questo caso. E il Signore grida forte: “Lazzaro, vieni fuori!” E Lazzaro sente. Dormiva. Ed esce, esce legato mani e piedi. Nessuna forza può più contenerlo. La vita che ha e che era semplicemente non manifestata e che era, per così dire, semplicemente sopita, di cui era impedito, l’emergere e il (...). Ma la vita c’è e il suo corpo stesso, avvolto con bende e legato, si muove, vola. Lazzaro esce, volando – “Uscì legato mani e piedi”. Fu sciolto dopo. Lazzaro dunque è morto, ma non è morto, in realtà e Gesù spiegherà subito dopo perché: “Dorme”.

E l’impotenza totale nella quale è un corpo morto è un’impotenza soltanto apparente, perché in realtà basta una parola, perché questo corpo di nuovo si muova e si muova con infinita leggerezza e con una, agilità, con una bellezza, che questo stesso corpo non aveva quando era ancora in quella che gli uomini, nel loro linguaggio così banale e così incapace di penetrare il mistero e la realtà profonda, chiamavano vita.

Il senso della resurrezione di Lazzaro è, credo, precisamente questo. Sarebbe molto male inteso se lo si intendesse come un segno che prelude alla resurrezione finale. Non vuol dire questo. Non è un segno che “un giorno” verrà la resurrezione. Non è di questo che si tratta. E’ il segno di un’altra cosa: che già adesso Lazzaro vive. Lo intendeva, lo avrebbe inteso, in questo modo la risposta data da Marta. Quando Gesù dice: “Risorgerà tuo fratello?” dice: “Sì, so che risorgerà nella resurrezione dell’ultimo giorno”. Ma Gesù contesta. E’ vero, non la smentisce, ma dice c’è anche qualche cos’altro, c’è ben di più. E le disse Gesù - questi sono i due versetti capitali, il versetto 25 e il versetto 26, il centro da tutti i punti di vista - “Io sono la risurrezione e la vita. Chi crede in me anche se muore, vivrà e chiunque – (di quelli) che sono qui presenti, adesso che (Gesù è) qua - vive e crede in me non muore in eterno”. Fosse l’unico luogo in cui questa cosa è detta, potremmo forse conservare dentro di noi qualche dubbio. Ma non è l’unico. Già ieri mi accadeva di richiamare il testo del cap. VI, nel quale Gesù contrappone la vita che dà il pane vivo, alla vita che si aveva prima della sua venuta. “I nostri padri mangiarono la manna e morirono. Chi mangia di questo pane non muore”. Ma come, noi ci accostiamo all’eucaristia e quante generazioni prima di noi si sono accostate al Cristo, pane di vita nell’eucaristia, e sono morti! “No”, dice Gesù. E’ questo il punto: “No”, perché noi non moriamo. Noi non moriamo! “Chi vive e crede in me non muore”. Non c’è, cioè, la rottura, nella nostra vita, che si realizzava allora e si continua nei santi e nei giusti anche dell’Antico Testamento. Perché la nostra morte è dietro le nostre storie e siamo già risorti. Quindi chi crede, essendo già risorto, chi aderisce al Cristo, essendo nato dallo Spirito ed essendo perciò spirito, essendo con il Cristo, (non può morire). “Maestro se fossi stato qui, il mio fratello, il nostro fratello non sarebbe morto” dicono con la medesima formula sia Marta che Maria.  Ma noi siamo con il Cristo. Lo abbiamo visto anche stamattina - “Il Signore è con te” - in che modo noi siamo con il Cristo, uniti a lui, come un solo corpo. Non possiamo morire. Si addormenta il nostro corpo, in attesa della resurrezione, ma noi non moriamo, perché aderendo al Cristo siamo già passati dalla morte alla vita e la morte non è più davanti a noi come un futuro, un futuro d’angoscia, un futuro terribile. La vita è vita per la morte, come dice Heidegger? Questo, dal punto di vista fenomenologico, sembra del tutto incontestabile ed è incontestabile, ma non è la verità! La morte non è il nostro futuro. La morte è il nostro passato. Credendo in Cristo abbiamo già lasciato la morte e siamo in una vita che non finisce e non c’è soluzione di continuità. Fra il nostro vivere nella grazia in Cristo in questa vita e la vita che è la stessa e che continua nel Paradiso, semplicemente con l’addormentarsi del corpo, rivelandosi, manifestandosi e dandosi totalmente (non c’è interruzione).

Quindi il pensare e il parlare e il sentire come se noi dovessimo morire, è un sentire inadeguato rispetto a quella luce di rivelazione che il Cristo vuol darci con questo testo, con il quale vuole dimostrare non che Lazzaro risorgerà alla risurrezione dell’ultimo giorno, in forza del Cristo, ma che Lazzaro non è morto. Il senso del cap. 11 è questo. Qui c’è da chiedersi se veramente noi abbiamo accolto la luce di questa rivelazione, se pensiamo così. Io mi accorgo di non pensare abbastanza a questo, e di non sentire abbastanza così. Bisogna che senta più “nel Signore”. E’ strano come provvidenzialmente, ad esempio, oggi me l’abbia fatto capire in due momenti diversi, questa mattina alla Basilica della Vergine annunciata a Nazareth e ora mi costringa a riflettere (ancora su questo). Io non penso così, non sento così. Non ho sensibilmente paura della morte mia, ma non sentivo ancora così. Io spero che oggi sia una giornata di grazia. Succede che in un istante uno capisce quello che prima non ha capito in tutta la vita. Qualche volta succede. E’ il mio pensiero: “Non è morto, dorme, dorme, perché ha creduto in Cristo”. Come è bello questo. Il discorso della speranza cristiana, dunque, non è soltanto un rimando alla verifica ultima di questa grande speranza della nostra resurrezione che c’è e ci sarà, perché anche questo corpo addormentato si sveglierà e questa sarà quell’ultima vittoria, sull’ultimo possesso della morte, della quale Paolo parla nel cap. 15 della prima lettera ai Corinti. Ma già adesso la morte è stata vinta. La morte e la vita hanno combattuto un duello mirabile, non soltanto nel Cristo, ma in coloro che sono le sue membra. Essendo con il Cristo già sono risorte con il Cristo, come ci dice San Paolo: “Siete nei cieli con lui”. Ma già essendo con il Cristo sono in una vita che non può cessare, perché sono uniti al Cristo risorto, e quindi la loro vita è una vita immortale. Voi siete risorti. Già. Ecco il grande significato di questo capitolo, di questo segno, un segno supremo, perché non c’è redenzione se non è dalla morte. Non c’è vittoria, non c’è liberazione se non è dalla morte. E’ quello il nemico da vincere. “Nel giorno in cui mangerete questo frutto morirete”. E’ questo quindi che era l’unico grande risultato dell’intervento di Dio e della storia salvifica. E questa vittoria sulla morte va intesa nel modo integrale con cui il Signore qui rivela che si è compiuta e che si compie in noi. E’ semplicemente il cadere del velo: la nostra vita, quella che noi abbiamo, è già la vita divina e quindi non c’è tolta per esserci restituita. Non c’è tolta più. Dorme! Tanto è vero basta la voce: “Lazzaro vieni qui” e Lazzaro uscì legato mani e piedi. Ma come si compie questa vittoria? Il testo dell’evangelo che ormai ci presenta la vita del Cristo così vicina al suo compimento supremo di lotta, di martirio - sa di morte sulla croce - ce lo fa comprendere. Quando Gesù - come traduce il testo un po’ fantasiosamente – “scoppia a piangere, vedendo piangere Maria, Marta e i giudei”. Vedendoli piangere, piange. Assume su di sé il loro pianto. E’ lui che assume su di sé la nostra morte ed è questo il prezzo che fa sì che la nostra morte sia vinta. Ed è lui che combatte, fremendo nello Spirito. E’ il fremito del combattente (…) contro il nemico e che vince la morte.

Quindi il nostro dire: “La morte non c’è più”, non è (…) come si dice in India: “La morte non c’è”. No, la morte c’è, ma è stata vinta. Non c’è più perché c’è stato uno che a un certo punto l’ha vinta. Come l’ha vinta? Morendo. E com’è vinto il dolore? No, non è vero che non ci sia. C’è, ma è stato vinto. E le lacrime sono state asperse. Come? Perché c’è uno che ha preso su di sé tutto il nostro pianto. “Vedendo il pianto di Maria, Marta e i giudei che erano con lui, scoppiò in pianto. E dissero - giustamente - guarda quanto lo amava”.


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