25/7 IV meditazione di Neri, omelia al Monte delle Beatitudini


La proclamazione di questo evangelo - e tanto più perché ci troviamo in questo luogo e il vangelo lo si è proclamato proprio perché siamo qui - (ci mette nella condizione) di dire qualche parola o meglio di chiedere qualche luce al Signore, riguardo a questa così solenne, così importante e così difficile - dobbiamo riconoscere - introduzione al Discorso della montagna: la proclamazione delle beatitudini. Dobbiamo chiedere al Signore una luce particolare per poterla comprendere, dal momento che l’interpretazione corretta di questo punto condiziona tutta la visione dell’etica cristiana e tutto l’annuncio della speranza cristiana, tutta l’interpretazione, in fondo, del messaggio del Signore che riguarda come sempre sia il Signore stesso - chi è Gesù - sia la vita di coloro che hanno deciso di seguirlo o che sono stati scelti da lui - meglio - per essere suoi discepoli.

L’interpretazione delle beatitudini, dicevo, non è così facile, tanto che è molto contrastata ed è molto discussa, ma mi pare che ci siano alcuni elementi, intanto, che emergono in modo abbastanza sicuro e sui quali possiamo fondare questa nostra semplice, non scientifica, ma che non vuole essere superficiale, lettura, fatta nel corso della santissima celebrazione dell’eucaristia. C’è un elemento formale che è molto importante ed è il decisivo, che è l’inclusione che si ha fra il versetto terzo e il versetto decimo, in ambedue i versetti che aprono e chiudono le beatitudini - la beatitudine del versetto 11 “beati voi siete quando” è un pochino extra-numeraria, esce dal quadro così sistematico, così rigorosamente parallelo delle altre beatitudini. La figura dunque dell’inclusione si può rilevare poiché ambedue terminano nel secondo stico con la formula “perché di loro è il regno dei cieli”. Comincia dunque il discorso, l’annuncio delle beatitudini con la formula “perché di loro è il regno dei cieli” e termina con la formula” perché di loro è il regno dei cieli” il che significa, lo dico rapidamente, ma è abbastanza tranquillo e sicuro, che tutti i termini intermedi, “perché saranno consolati, perché troveranno misericordia, perché vedranno Dio”, sono semplici specificazioni della promessa fondamentale che è la promessa contenuta in tutte le beatitudini che è quella del regno dei cieli. “Perché di loro è il regno dei cieli”.

Il contenuto di questa grande benedizione, suprema, inclusiva di tutto - il regno dei cieli - è specificato con diverse precisazioni. Che cosa comporta il possesso del regno dei cieli? Che cosa comporta l’ingresso nel regno dei cieli? La consolazione, il possesso della terra, l’essere sfamati e dissetati, l’esser chiamati figli di Dio e tutto il resto. Dunque c’è una sola promessa nelle beatitudini che è il regno dei cieli, il regno dei cieli, il regno di Dio. L’inaugurazione grande che Gesù annuncia è, dunque, la proclamazione delle beatitudini del regno di Dio che comporta tutta questa ricchezza di grazie, di doni, di consolazione, di gioia e di pace, della quale - questa ricchezza - della quale il testo parla.

Un’altra precisazione, formale, ma che influisce molto sul contenuto del testo e sulla sua interpretazione fondamentale, è che ciascuna delle beatitudini, come appare più chiaramente in quelle intermedie, dal versetto 4 al versetto 9, è riferita soltanto ad alcuni, in modo preciso. Mi spiego: “Beati coloro che piangono” non “perché saranno consolati” simpliciter, come traduce la CEI, in modo un po’ approssimativo e rapido, ma “perché essi saranno consolati”, “oti autoi”, perché essi saranno consolati, essi e non gli altri. Il termine “essi” è enfatico e indica che sono loro quelli che sono consolati e non gli altri. Beati quindi quelli che si trovano in questa condizione, perché essi ed essi solo saranno consolati, saranno loro i consolati, saranno loro i saziati, saranno loro che troveranno misericordia e non gli altri. Il testo delle beatitudini quindi di Matteo, così interpretato - e sono elementi di una semplicità incredibile, quindi dati incontestabili, rappresentano queste piccolissime osservazioni che ho fatto di natura esegetica per introdurmi alla lettura del testo - il testo dunque delle beatitudini, così come è presentato, se letto attentamente, non si discosta nella redazione mattaica molto da quella che è la redazione lucana. Luca al cap. VI alterna tre beati con tre guai. Il testo di Matteo non ha questa forma, ma ha il medesimo contenuto, poiché precisa molto bene che solo quelli saranno consolati, solo quelli saranno saziati e non c’è bisogno di aggiungere: “Guai a voi che ridete”, né c’è bisogno di aggiungere: “Guai a voi o ricchi”, né c’è bisogno di aggiungere: “Guai a voi o violenti”. E’ la stessa cosa. E’ la stessa cosa! Il testo quindi bellissimo, estremamente confortante, ma che resta anche, proprio per questa sua formulazione precisa, che occorre rilevare ad una lettura attenta del testo, una forte e severa ammonizione. Perché è l’annuncio di un giudizio, di un grande giudizio, che è il giudizio di Dio. Il suo regno, il regno di Dio è il suo giudizio. Finalmente: “Adesso Io mi alzo, ora vengo, ho tanto pazientato”. Questo è il regno del Signore. Il grande regno atteso, atteso con pazienza e con impazienza, atteso con speranza e atteso con angoscia - “fino a quando o Signore tarderai, quando verrai o Signore? O Signore, se tu piegassi i cieli e scendessi!”. “Ora io vengo, dice il Signore”. Questo è il regno, è il regno che Gesù annuncia - “perché di loro è il regno dei cieli”. E’ lui il portatore del regno, è lui che lo inaugura questo regno, è lui che lo proclama come ormai alle porte, perché è egli stesso il regno, come dice Origene, è Gesù “l’autobasilea”, il regno in persona. E perché egli è il giudice dell’ultimo giorno, che inaugura, già con la sua vita terrena, con l’ultimissimo spazio del tempo, bruciato ormai dalla sua stessa venuta che sta per consumarsi nella sua apparizione finale. “D’ora in poi vedrete il Figlio dell’Uomo venire nella gloria”. Questo regno di Dio che si inaugura, si instaura e si realizza in Cristo è il suo giudizio. Il suo giudizio - finalmente! - giudizio giusto, giudizio che fa giustizia.

E che fa giustizia a chi? Ai suoi poveri! Ai suoi poveri, a quelli che hanno subito ingiustizia, in qualsiasi modo. E’ giusto che si nasca ciechi? E’ giusto che si sia calpestati da tutti? E’ giusto che non si possegga niente? E’ giusto che si sia oggetto di disprezzo ogni giorno? E’ giusto che non ci sia nulla di sano nelle nostre ossa e che tutti quelli che ci vedono si discostino da noi? E’ giusta la solitudine? E’ giusta l’angoscia? Sono giuste le tenebre? E’ giusta la violenza che si subisce? E’ giusta la povertà, l’indigenza, per cui si manca del necessario, del quale anche i piccoli dei corvi sono provveduti da Dio? E’ giusto tutto questo? No, non è giusto, dice il Signore. Non ci ha creati per questo. Ci ha creati per la gioia, ci ha creati per la beatitudine, ci ha creati per la pace, ci ha creati amandoci. Non è giusto tutto questo. A chiunque possa riferirsi la responsabilità di una situazione così come si è creata. A chiunque, a chiunque. Al diavolo stesso che ha portato la morte nel mondo, mentre Dio non ha creato le creature per la morte, Lui che è amante della vita. Al peccato che ha creato nel mondo e che aggrava sempre di più una situazione di violenza, di oppressione, di contraddizione, di falsità, di menzogna, di tenebra e di disperazione. A chiunque si possa riferire. All’uomo che si fa tanto spesso strumento del nemico, per l’oppressione del suo fratello. A noi stessi che nella nostra infinita debolezza, fragilità, incostanza e nella responsabilità ineludibile del nostro stesso personale peccato, siamo causa a noi di tanto dolore e di tanta angoscia, di tanta sofferenza. Comunque, non è giusto, non è giusto che sia così. “O Signore, se tu piegassi i cieli e scendessi!” La fine di questa situazione di violenza che investe tutta la realtà, tutte le creature, è annunciata con la venuta del regno che rende giustizia, rende giustizia, punisce e premia, ristabilisce l’equilibrio. “Tu hai avuto tanti beni sulla terra, adesso Lazzaro che ha avuto tutti i suoi mali, ha la sua parte di beni che non ha potuto godere sulla terra e che gli è stata tenuta in serbo per il regno dei cieli, ora egli è nella beatitudine e tu sei nel tormento”. Il giudizio di Dio! Raramente ci pensiamo, ma è la realtà con la quale dobbiamo e dovremmo sempre più confrontarci per interpretare alla luce di questa realtà, di questa speranza e di questo annuncio, tutta la nostra vita e tutta la vita dei nostri fratelli.

Questa grande proclamazione del giudizio e del criterio del giudizio è annunciata nelle beatitudini che proclamano essenzialmente il rovesciamento escatologico. Si rovescia, poiché la situazione di questo mondo è ingiusta, radicalmente ingiusta. La venuta del regno di Dio non semplicemente la aggiusta, ma, in termini generali, si può dire - e Gesù lo dice in termini nettissimi, direi senza sfumature addirittura - la rovescia. La rovescia! Quello che è chiamato il paradosso delle beatitudini “Beati quelli che piangono” è meno paradossale di quanto non si possa credere. E’ semplicemente il rovesciamento: “Hai tanto pianto. Basta adesso, non piangere più. Io il Signore, ti consolo. Hai tanto avuto fame? Basta. Adesso, io, il Signore, ti sazio”. E’ il rovesciamento escatologico, che fa parte di tutto il messaggio dell’Antico Testamento, che ne è il centro. Lo troviamo dovunque, pensate ai capitoli di Ezechiele sul giudizio esercitato dal pastore buono - finalmente! - che rende giustizia alle pecore deboli, oppresse, quelle che erano uccise, quelle che erano sfruttate. Allora chi entra, chi è beato? Perché questo annuncio di giudizio è in realtà formulato come un grande grido di gioia: “Beati, beati voi!” Come dice Luca: “Beati voi!” Chi entra? Entra nel regno colui che è oggettivamente povero. Non è la virtù della povertà che (cambia). E’ la povertà: “Tu che sei stato un poveraccio, tu che tutti hanno preso a pesci in faccia, tu, beato te, perché adesso cambia, adesso hai anche tu la parte che ti spetta delle benedizioni, del sorriso, della gioia, della ricchezza infinita del tuo Dio. Beato te!” Non è la virtù, è la povertà: “Quelli che sono deboli, quelli che piangono”. O del “penthos” o dei “penthountes” quanto si può parlare spiritualmente! Penso alcuni di voi conoscono – ecco forse tutti che so - il grande, bellissimo libro di Hausherr, scritto sul “penthos”, sulla categoria del penthos, sulla contrizione cristiana, del pianto cristiano - è bellissimo - che raccoglie tutti i dati della tradizione su questa categoria fondamentale del sentire cristiano che è il penthos, il lugère, il piangere, la contrizione, è il vivere in questo mondo come penitenti no? Ma non è di questo penthos che qui si parla. I penthountes sono quelli che piangono sul serio, rispetto al momento in cui non ci sarà più ogni lacrima, “perché il Signore Dio asciugherà ogni lacrima dai vostri occhi”, quindi beati voi che piangete, perché avrete la grande gioia che il Signore stesso sarà Lui ad aspergere le lacrime che scendono dai vostri occhi. Voi che piangete. Vuol dire così. Il testo, prima di tutto, vuol dire così. E beati voi che in questa situazione di sofferenza - ecco i “pauperes spiritu” - non siete voi a volervi fare giustizia e in questa situazione di sofferenza dal Signore attendete con pazienza, con ansia, con implorazione, con grida e con lacrime, la sua giustizia, il suo giorno.

E’ molto nello spirito del Salmo 37 che è contro l’ira dell’uomo, che non produce la giustizia di Dio: il non farsi giustizia da sé, l’essere povero nello spirito. Potendo confidare soltanto in Dio, perché non c’ha nessuno su cui contare e volendo confidare soltanto in Dio, perché è Lui solo che sa, è Lui solo che può. Quindi è la povertà, è la sofferenza, è il pianto, è l’ingiustizia subita. Nell’accettazione, che non è il subire, capite! E’ l’accettazione di chi protesta, di chi dice: “Signore vieni. Maranathà, vieni o Signore!” La grande invocazione: “Non tardare, o Signore Gesù, vieni!” Quindi non è la rassegnazione di chi subisce, è il grido di chi invoca l’affrettarsi del giorno, confidando che solo Lui può veramente fare del tutto giustizia e affidandosi a questo suo decreto infallibile, saggio, dolce e ineccepibile. I miti, i pacifici e i puri di cuore che guardano Dio solo e che attendono, che hanno fame e sete di giustizia. Vedete non i rassegnati, quelli che hanno fame e sete, che sono divorati da questo desiderio della giustizia di Dio e della santità e beatitudine che vengono da Lui. Ecco, beati noi, nella misura in cui siamo così. E’ stupendo, non nella misura in cui ci realizziamo, ci affermiamo, abbiamo successo, riscuotiamo consenso. Ma che sono cose brutte? Si deve evitare questo? Per carità, sia benedetto Dio quando lo da tutto questo, ma questo è dono, come dice il testo che avremmo letto se avessimo fatto in tutto integralmente la liturgia di San Giacomo. Come dice il Signore alla madre di Giacomo e, meglio alla domanda della madre di Giacomo, rivolgendosi ai due fratelli, i figli di Zebedeo, “Tutto questo non spetta a me darvelo, ma è per chi, per colui per il quale è disposto dal Padre mio”. Questo è dono. Voi intanto, intanto, “potete bere il calice che io berrò?” Ciò che conta al di là del puro dono da invocarsi, da gradirsi, di cui ringraziare, ma al di là di questo puro dono, ciò che conta, ciò che costituisce il termine del giudizio, ciò che costituisce il motivo della gioia – “Mihi autem absit gloriari nisi in crucem”, Gal 6, 14 - ciò che conta e ciò per cui Gesù dice “beati” sono le lacrime che io verso, è la fatica che io faccio, è la solitudine nella quale sono, è la mia fame e sete ed è questa ricerca pura del Signore, la purezza dei miei occhi e del mio cuore perché ad essa hai promesso che vedrà Dio.

Quello è ciò che conta nella nostra vita, ciò che sarà contato. Non saranno i nostri successi, che non sono nostri, non dipendono da noi. Non sarà la fortuna, il consenso suscitato dalle nostre parole, dalle nostre opere, dalla nostra organizzazione, non sarà questo - è puro carisma, il Signore lo attribuisce a sé, perché del Signore è la vittoria, del Signore è il successo, del Signore è il trionfo. Quello che è nostro, invece, è quanto noi partecipiamo della Croce del Cristo. Per questo non possiamo gloriarci se non della Croce, perché rispetto ad essa è detto: “Beati”. E per questo Paolo non voleva gloriarsi se non delle sue tribolazioni e rallegrarsi se non di questo: “Sovrabbondo di gioia in tutte le mie tribolazioni, gloriabor in infirmitatibus meis, mi glorierò nelle mie infermità” (2 Cor 12, 5). Questo è il grande dono della pace, perché saremo glorificati. No, saremo con-glorificati, con-regneremo, come hanno chiesto i fratelli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, uno alla destra e uno alla sinistra. Saremo con-glorificati, ma se con-soffriremo. Beati quelli che piangono, beati i miti, beati i puri di cuore, beati i poveri. Questo è il motivo della nostra pazienza, questo è il motivo della nostra speranza, perché altrimenti ci sarebbero delle grandi ingiustizie nel mondo, sapete. E io mi ribello alle ingiustizie, noi dobbiamo ribellarci alle ingiustizie, Dio farà giustizia, non ci sarà nessuno che in quel giorno potrà dirsi defraudato. Oggi noi siamo molto dei privilegiati. Io avrò tanto piacere - spero - in quel giorno di vedere gli infiniti uomini, gli infiniti meno privilegiati di me - che sono uno fra i più privilegiati, che cosa mi manca? Non mi manca niente, ho avuto tutto - che il Signore metterà in alto, in alto, molto più in alto di me, lui ricordandosi di quelli di cui io non mi ricordo, che neppure vedo, nella soddisfazione e nella sazietà nella quale mi trovo. Come sarò contento. Non ci sarà ingiustizia fatta ad alcuno in quel giorno, ma neppure ingiustizia fatta a me e il Signore si ricorderà della mia fatica e della mia solitudine. Se ne ricorderà, ne sono sicuro, soprattutto se non cercherò, dibattendomi affannosamente io, di volerne uscire con le mie opere, io di voler affermare qui e di voler garantire qui l’attuazione del mio giudizio.

E’ la nostra grande speranza, la nostra grande attesa. E’ il motivo e il luogo della nostra grande pace. Beati! Il Signore ci chiede di comprenderlo così, se questo è vero, e mi pare proprio che non sia lontano dallo spirito di questo testo e di annunciarlo così, se questo è vero. E questo farà nuovo tutto il nostro annuncio, e lo farà veramente evangelo, il buon annuncio, fatto ai poveri.


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