N.B. Intervento del prof. Alberto Monticone al convegno dell'Associazione Italiana Maestri Cattolici (Aimc) dell'ottobre 1982 sulla Formazione permanente dei maestri. Il testo è tratto dal volume AA VV, L'Aimc per la formazione permanente dei maestri, Roma, 1983. I titoli sono nostri.
Ho pensato di articolare questa mia riflessione intorno al rapporto tra la formazione culturale e la professionalità in tre rapide sezioni. Una prima, dedicata a qualche premessa di natura generale intorno alla funzione della cultura oggi; la seconda, più direttamente relativa alle linee essenziali di una cultura operante nel senso della formazione e della presentazione, poi, di questa formazione sul piano dell'attività e la terza ed ultima parte dedicata a qualche conclusione più direttamente attinente allo spirito di laici cristiani in ordine alla formazione culturale.
Mi permetto anzitutto di partire da una affermazione molto generale e forse scontata. Ma è
  opportuno ricordare che la cultura (e pertanto la formazione culturale) non può avere nessuna
  funzionalità; cioè non è in funzione di obiettivi precisi.
   La cultura non è neppure per la professione, per l'insegnamento, per la professionalità, perché
  è in sé una scelta di vita.
   E che poi essa divenga lo strumento portante dell'educazione, lo strumento portante del rapporto con le nuove
  generazioni e con la società è, direi, una conseguenza direttamente proporzionale alla forza, alla
  incisività di questa scelta di vita.
   Partendo da questa affermazione, forse un po' apodittica, vorrei dire ancora, in via preliminare, che ritengo che
  ogni educatore, ogni uomo impegnato nel servizio alla scuola deve anzitutto essere convinto che la formazione di se
  stesso e delle nuove generazioni passa attraverso la via culturale, cioè che cultura e formazione individuale
  sono un binomio inscindibile. Direi che proprio alla base di questa scelta di vita ci deve essere la convinzione,
  attuata attraverso tutto un lavoro personale di riflessione e un'attenzione alle vicende della storia, che la cultura
  è fondamento di ogni grande impresa dell'umanità, di ogni vero progresso, di ogni vera rivoluzione. In
  questi ultimi trent'anni, dopo la seconda guerra mondiale, ci sono state anche rivoluzioni che hanno voluto definirsi
  “rivoluzioni culturali”. Ecco, a parte il significato transitorio di queste rivoluzioni, esse ci danno la
  sensazione che ogni passaggio accelerato dello spirito contemporaneo, quindi ogni mutamento che tocchi davvero le
  basi della vita sociale e dell'umanità, del mondo contemporaneo, passa attraverso una svolta di cultura, un
  mutamento di cultura.
   Del resto, lo stesso Magistero della chiesa, che per noi cristiani è anche un lume di vita nel nostro impegno
  sociale, civile e nel nostro impegno umano in generale, ha additato nella cultura il punto nodale per il mondo
  odierno.
Qui basterebbe ricordare alcuni grandi passaggi del Concilio Vaticano II, soprattutto alcuni
  grandi passaggi di metodo, di approccio al mondo contemporaneo da parte del Concilio e poi alcuni documenti
  fondamentali dei Padri che questa generazione ha ascoltato e ha seguito, da Paolo VI a Giovanni Paolo II. Direi che,
  soprattutto in questo Magistero della chiesa, sono emersi due aspetti fondamentali: la coscienza che il contatto
  della chiesa con il mondo contemporaneo passa attraverso quella che è stata definita l'evangelizzazione delle
  culture e - secondo aspetto - la forte umanizzazione, la forte responsabilizzazione dell'uomo come portatore, segno
  e, al tempo stesso, trasformatore della cultura contemporanea. E per tutti vorrei ricordare alcuni importanti
  discorsi di Paolo VI sulla cultura e da ultimo l'Enciclica di Giovanni Paolo II “Laborem exercens”, dove
  è l'uomo al banco di lavoro, che partecipa della creatività dell'universo e completa la creazione. E,
  però, questa responsabilità dell'uomo al banco di lavoro è una responsabilità
  eminentemente di natura culturale, cioè di capacità di visione del mondo e di trasformazione del mondo
  in forza della propria soggettività.
   Allora, il primo punto di questa premessa è nella necessità, a mio modo di vedere, di essere convinti
  che la cultura e la formazione sono un binomio, un binomio inscindibile e l'una non può andare senza l'altra
  e, comunque, nessuna formazione laica, cristiana dei giovani, ma anche la formazione permanente di ogni adulto,
  può avvenire senza un solido, profondo mutamento culturale che per voi è una scelta di vita.
   La seconda premessa che vorrei fare tocca il tanto discusso tema delle due culture. Alcuni anni fa nel periodo della
  contestazione giovanile più vivace, si è avuta in tutto il mondo una grande discussione, un grande
  dibattito intorno alle due culture: cultura umanistica, cultura scientista. Perché c'era stata questa proposta
  di una alternativa fra due culture? Perché si puntava sul prevalere dell'una o dell'altra per il mondo
  moderno, per l'uomo d'oggi? Ecco, a mio modo di vedere, questo accadeva perché la cultura veniva intesa
  soprattutto in un'ottica di oggettivazione totale, di oggettivazione radicale, cioè si partiva piuttosto dalla
  sua strumentazione e non tanto dal soggetto. Ora io vorrei dire che, proprio come persone che vivono nel mondo della
  formazione quindi in prospettiva di avvenire, ma anche come persone che partono da una convinzione e da una visione
  cristiana, religiosa della vita, non possiamo non dare una risposta diversa a quell'alternativa che veniva posta
  allora e cioè sottolineare l'unicità profonda della cultura, sia essa la cultura umanistica sia essa la
  cultura scientista, unicità che promuove e proviene dalla soggettività dell'uomo e che lo vede nella
  sua complessità, cioè nel rapporto con i suoi valori più tipicamente umanistici nel senso
  tradizionale del termine, e con i valori della scoperta naturale della natura e della scienza applicata alla natura.
  La soggettività è al centro, credo, di una vita culturale moderna, di incontro tra l'uomo e il mondo
  contemporaneo. Soggettività che consente di abbracciare insieme e di motivare insieme la cultura umanistica e
  quella scientifica.
   Infine come premessa a qualunque percorso o itinerario di formazione culturale e di educatori, credo che occorra
  approfondire ulteriormente il senso della cultura come ricerca. E oggi ricerca significa andare in Italia
  controcorrente, perché anche nella cultura del nostro Paese più della ricerca prevale la progettazione
  sicura, il desiderio di acquisizione di dati o addirittura l'offerta di dati sulla base di teorie ben definite, non -
  oserei dire - di ideologie. Cultura come ricerca significa, invece, promozione del soggetto, inquietudine; significa
  soprattutto libertà e coraggio. Libertà personale, libertà dell'uomo di cultura, libertà
  degli insegnanti, libertà del cittadino, e anche coraggio, cioè capacità di mettersi in
  discussione, e capacità di mettere in discussione anche tutti gli altri, coraggio delle proprie scelte. E
  allora si riannoda questa valutazione della cultura come ricerca alla prima mia sommaria proposizione e cioè
  che la cultura deve essere intesa, e soprattutto da dei cristiani, come scelta di vita.
   E quando si parla di scelta di vita si affermano due concetti estremamente provocatori: scelta implica
  libertà, coraggio, responsabilità; vita significa davvero capacità di valorizzare tutta
  l'esperienza.
Partendo da questa premessa, tenterei rapidamente di proporre a me stesso e a voi in questa
  seconda, breve parte del mio intervento, quale itinerario vorrei percorrere e mi sforzerei di percorrere negli anni a
  venire anche per la mia personale formazione permanente, non tanto ai fini dell'insegnamento, dell'intervento
  educativo, pedagogico nella scuole quanto come scelta, come scelta di vita dalla quale poi deriva un'educazione alla
  scelta e alla scelta culturale in particolare.
   Questo itinerario parte ancora da una constatazione molto precisa che è la seguente: la formazione culturale
  (specie poi con la responsabilità di un'autentica professionalità educativa) non può essere
  definita in via teorica una volta per tutte: non ci può essere un modello di formazione culturale per una
  persona che poi deve esercitare la sua professionalità di educatore e di insegnante o comunque di uomo di
  cultura; non ci può essere un modello permanente di formazione culturale, definito teoricamente una volta per
  tutte. Nella formazione culturale (e specialmente per una professionalità come la nostra) vi sono
  evidentemente fattori permanenti, costanti, punti di riferimento fissi, fondamentali, e aspetti contingenti non meno
  fondamentali, non meno necessari di quelli, diciamo così, permanenti. Occorre insieme ricorrere, per la
  formazione culturale personale e professionale, a un progetto stabile di formazione, quindi ad un metodo che è
  quello che teoricamente è definibile in maniera fissa, e a una capacità fortissima di
  contemporaneità storica nella formazione stessa.
   Ma quale può essere, oggi, la proposta pubblica di un mondo sensibile ai valori e ai valori cristiani in modo
  specifico per una formazione culturale permanente? La proposta pubblica deve partire (e chiedo scusa se io continuo
  ad aggiungere elementi di premessa, ma mi sembra che nella opinione pubblica italiana sia molto difficile addentrarsi
  nella via della cultura senza prima sgomberare il campo da tanti elementi che allontanano da una strada chiara) da
  una visione razionale e insieme entusiasmante di una scelta di vita come è quella culturale. Ebbene, mi pare
  che occorra combattere l'idea che la cultura sia “aggiornamento culturale”. Soprattutto nel mondo della
  scuola questo termine (“aggiornamento culturale”) ha avuto una grande fortuna ed ha, beninteso, una
  grande validità; tuttavia, in molta parte dell'opinione pubblica, esso ha portato a qualche contraddizione
  interpretativa e soprattutto non ha consentito facilmente un approccio più serio, più approfondito alla
  cultura come elemento di formazione. La cultura, cioè, non è aggiornamento, non può essere
  aggiornamento soprattutto per degli educatori. Evidentemente se essa è approccio globale dei problemi, delle
  prospettive, dei risultati della storia del proprio tempo non è una aggiunta di conoscenze, di formule
  pedagogiche, né di conoscenze di esperienze.
   Evidentemente più che aggiornamento, il primo passo in un itinerario formativo di cultura, è essere e
  voler essere culturalmente motivati, cioè, fare quella scelta di divenire gente di cultura.
   Io penso che ogni educatore, ma forse anche ogni cristiano che voglia essere un po' all'altezza del proprio tempo,
  impegnato nella società, nella vita, nella famiglia in maniera seria, profonda, ogni cristiano dovrebbe
  decidere gradualmente, ma chiaramente, di essere culturalmente motivato, di appartenere alla gente di cultura (non ha
  importanza che questa sia fatto in termini poveri e nell'umiltà):
   Il primo passo di una formazione culturale in via permanente del nostro mondo dell'insegnamento e dell'educazione
  deve essere questa volontà di appartenere alla gente di cultura, di essere culturalmente motivati. E, credo,
  che le difficoltà del nostro vivere civile e le crisi della politica, ma anche quelle dell'economia affondino
  le loro radici in Italia e forse anche fuori d'Italia in questa difficoltà di motivazione, di senso, in quello
  che in tanti ambienti viene definito un problema morale, ma è un problema sostanzialmente di motivazione.
   Il secondo passo di questo ideale itinerario formativo comincia già a portarci, io credo, dentro i contenuti
  precisi di questa scelta di vita, di questa scelta di appartenere alla gente di cultura: e consentitemi di affermare
  che il primo contenuto preciso è la centralità della storia.
   Io credo che se la cultura è valore in trasmissione (perché la natura della cultura è di non
  rimanere chiusa, ferma, ma di motivare le persone, la vita, gli ambienti) non può avvenire, non può
  verificarsi e non può essere operante senza memoria storica, senza cioè la centralità della
  storia, nel senso che ogni formazione ha bisogno di memoria storica e non possiamo essere, se vogliamo essere davvero
  uomini di cultura che hanno fatto la scelta della cultura, gli orfani del presente, cioè proiettati verso un
  attivismo pedagogico, un attivismo etico, un impegno operativo come orfani del passato.
   Bisogna avere una fortissima memoria storica, perché soltanto chi non è orfano del passato, dal punto
  di vista culturale, dal punto di vista cioè della storia, può davvero muovere con tutta la ricchezza
  del soggetto.
   Ciascuno di noi vive per quello che è stato non soltanto nel proprio itinerario personale, ma nel proprio
  retroterra morale, culturale, storico, ambientale; vive per quello che è la sua scelta presente e vive per il
  suo futuro.
   Diceva e dice un grande vescovo italiano, attento ai valori della cultura, che ogni vita della chiesa locale, quindi
  di quella italiana, ma di ogni esperienza di comunità ecclesiale, è nella sua memoria del passato,
  nelle sue radici, nel suo presente, nella sua volontà di trasformare il futuro. Che cosa significa,
  “memoria storica”? Aver “memoria storica” significa non soltanto conoscere la storia
  politica, religiosa, sociale e culturale del proprio Paese e del mondo contemporaneo, ma anche avere quella
  particolare sensibilità, quella particolare capacità di capire che quella conoscenza non è fine
  a se stessa, ma è presupposto ineludibile di ogni cultura che voglia diventare operativa per la persona e per
  il mondo circostante. Memoria storica, tra l'altro, diventa molto importante in questa nostra Italia dove la
  dimenticanza del recentissimo passato è la prassi quotidiana.
   Basterebbe soltanto aprire una parentesi: quanti di noi, di noi italiani, hanno facilmente dimenticato i mesi
  terribili del terrorismo di alcuni anni fa, quanti di noi hanno dimenticato facilmente la contestazione giovanile,
  quanti di noi hanno dimenticato facilmente le speranze di momenti particolarmente significativi a metà degli
  anni sessanta? E a metà degli anni settanta, per esempio, nel mondo della chiesa? Ecco la dimenticanza
  è la caratteristica dominante. Perché? Perché non siamo abbastanza sensibilizzati noi sul piano
  civile in Italia e noi come cristiani alla memoria storica alla memoria storica come percorso privilegiato e centrale
  della cultura. E aggiungerei che, per voi che fate parte di un associazionismo legato all'impegno educativo, la
  memoria storica del vostro percorso di associazione, ma anche di tutta quella tradizione pedagogica ed educativa del
  mondo cattolico italiano, deve essere un punto di riferimento anche in polemica, anche in dialettica con scelte fatte
  in altri tempi.
   Ma non partite, non partiremo mai da zero, se avremo questa ricchezza e questa sensibilità della memoria
  storica. Direi che in ogni biblioteca di persone che hanno fatto la scelta della cultura ci deve essere qualche libro
  della storia contemporanea, non qualche libro per apprendere o per conoscere qualche dettaglio o qualche
  interpretazione un pochino fantasiosa dei nostri storici contemporanei, ma qualche libro a cui ogni tanto far
  riferimento attraverso la propria coscienza, riferimento alle esperienze dell'immediato passato o anche della
  più grande tradizione.
   Il primo passo di questo itinerario è rappresentato dunque dalla centralità della storia imperniata
  nella memoria storica, in proiezione futura.
E allora vorrei dire, anche per non spaventare loro e anche soprattutto per non spaventare me
  stesso che questa memoria storica, questa specie di richiamo alle storie (che io non faccio in maniera foscoliana
  naturalmente) vuole però riferirsi ad una essenzialità della cultura.
   Non c'è bisogno per una solida cultura di avere tanti testi, moltissime letture, un bagaglio enciclopedico
  come molta della cultura illuministica di cui c'è ancora qualche forte tradizione in Italia.
   E' sufficiente, anzi forse necessario, avere pochi testi, ma tutti quelli che davvero contano per gente che vuole
  avere la sensibilità del passato e la proiezione verso il futuro.
   Del resto anche la professione di educatore poggia proprio sulla capacità di insegnare ai ragazzi l'andare al
  centro dei problemi, cioè scegliere, cioè andare al centro di quelle cose che contano davvero.
   E' così il modello culturale: educare ed educarsi in termini di storia, per esempio, alle scelte,
  all'essenzialità. Il mondo cattolico in modo particolare, a cui noi facciamo tutti riferimento, ha bisogno di
  poche cose, ma di poche cose importanti sulle quali tutti siano davvero informati, tutti davvero si misurino e questo
  è anche una caratteristica di un vero cristiano. Un passo in avanti in questo itinerario culturale del
  docente, comunque dell'uomo, è il percorrere una esperienza formativa permanente in se stesso e poi con o in
  vista di un aiuto altrui; un passo ulteriore è dato a mio giudizio dal nesso tra estetica e storia.
   Io vi chiedo scusa ma vorrei dire che abbiamo bisogno nella formazione permanente dei docenti e poi nella proposta
  educativa e professionale ai ragazzi, di bellezza; abbiamo bisogno cioè che la cultura artistica ma
  soprattutto il corrispondente nell'arte alla memoria storica cioè la sensibilità per l'estetica, il
  senso dell'estetica, siano fortemente, impregnino fortemente la cultura, la nostra cultura.
   L'estetica del resto è uno dei modi, delle vie principali per scoprire i valori della vita. Occorre, secondo
  me, vivere oggi, nella propria formazione culturale, l'amore per la bellezza, perché la bellezza intesa nel
  senso filosofico, teoretico, ma anche nel senso vitalistico, l'estetica è la via per la scoperta dei valori
  naturali, spirituali, umanistici.
   Come si deve avere rispetto per la memoria storica, occorre che l'uomo di cultura abbia l'amore, la passione per la
  bellezza della sua condizione, per la bellezza della condizione naturale, umana, della vita, per la bellezza della
  sua persona e del suo senso globale.
   Naturalmente, come dicevo, l'estetica è rivelatrice di valori ed è anche sollecitatrice di speranza,
  di ottimismo, di coraggio anche nelle persone.
   E questo appare evidente proprio forse guardando al mondo dei ragazzi che, voi mi insegnate, passa attraverso una
  convinzione affettiva della bellezza dell'adulto.
   Occorre che anche questo aspetto sia rilevato nel cercare di capire i gradini della formazione culturale.
   Ancora, un altro gradino di questa formazione culturale, a mio modo di vedere, dovrebbe essere oltre alla memoria
  storica e all'estetica, la letteratura.
   Ecco, qui vorrei dire che certo non occorre, come non occorre nella storiografia, che noi leggiamo tutti i migliori
  romanzi o tutte le migliori opere della letteratura italiana o del mondo occidentale contemporaneo ma piuttosto
  intendere la letteratura come specchio della storia dell'uomo del nostro tempo, ivi compresa la letteratura di svago;
  avere la capacità e la libertà di utilizzare la letteratura di svago per noi, per il nostro svago, come
  specchio di noi stessi e della storia del nostro tempo. E allora qui si aprono evidentemente scelte,
  possibilità numerosissime; personalmente non mi spaventerei, non ho la possibilità, non credo
  addirittura, di avere neppure il dovere di leggere tanta letteratura, ma credo di avere il dovere, anzitutto, della
  mia libertà personale di accostare la letteratura che più corrisponde alle mie esigenze di persona che
  vive nel tempo, in questo particolare tornante della nostra storia.
   Letteratura come specchio del nostro tempo, specchio a volte drammatico o divertente. Ma come si guarda nello
  specchio? Si guarda per trovare la persona e non per avere una documentazione della vita degli altri in modo
  oggettivo.
E, infine, l'ultimo gradino di questa teoria della formazione culturale per la parte, direi
  permanente, costante, per la parte stabile che è sostanzialmente metodologica, è il binomio cultura e
  sapienza cristiana.
   Ecco io non dico e non voglio dire che una sana cultura, la sana formazione culturale nostra, debba basarsi sui
  testi biblici, sulla patristica, sulla letteratura cristiana contemporanea, sulla teologia. Dico anche questo,
  naturalmente, ma l'accento mi pare cada piuttosto sulla ricerca culturale attraverso il metodo di una sapienza che
  viene dal contatto con le fonti del pensiero e dell'etica cristiana.
   E' nel modo del contatto che, a mio modo di vedere, si fa questa esperienza e questa crescita culturale in senso
  cristiano, cioè con la volontà di ricercare la sapienza nella utilizzazione di queste fonti. E la
  cultura, infatti, qualunque cultura anche la più laica, la più lontana, la più alternativa a
  quella cristiana, a quella che si vuole riferire alla radice cristiana, qualunque cultura è monca senza una
  forma di sapienza. E quali fonti di sapienza non sono le fonti primigenie della vita cristiana? Ogni insegnante, ma
  anche ogni uomo di cultura vorrebbe essere un saggio, per giovane che sia.  
Ma occorre anche aver presenti e salire i gradini della formazione contingente alla cultura, avere
  presenti i percorsi da compiere per storicizzare la formazione culturale. E a me pare che i gradini di questa seconda
  parte siano sostanzialmente tre: il primo è la cultura come ascolto. E io credo che anche la più
  raffinata cultura, che passi attraverso la memoria storica, la letteratura, la valorizzazione dell'estetica, la
  più forte conoscenza teologica e sapienziale dell'esperienza cristiana non sia ancora sufficientemente calata
  nella realtà, se questa cultura non si arricchisce attraverso un'attenzione fortissima, mediante l'ascolto,
  alle vicende sociali e politiche e alle vicende umane quotidiane del proprio tempo.
   In fondo anche talune scelte operative della nostra scuola di questi ultimi anni, come leggere i giornali in classe,
  per esempio o discutere di talune forme dell'essere informati delle vicende, sono segnali di una esigenza,
  dell'esigenza che la cultura adotti fortemente il metodo dell'ascolto, perché questo è l'unico modo di
  essere gente del proprio tempo politicamente preparato socialmente matura.
   Un uomo di cultura, che sia fuori del proprio tempo, che non conosca e soprattutto non senta le tensioni sociali,
  non ha una cultura piena, soprattutto non ha una cultura in trasmissione ed aperta ad una prospettiva futura.
   Tra l'altro vorrei ricordare che una delle novità del rapporto chiesa-mondo di questo secolo è stata
  data proprio dal Concilio con una forte attenzione ai segni dei tempi. Che cosa significa questo? Una scelta di
  atteggiamento, soprattutto. E questa scelta di atteggiamento in termini laici è rappresentata in modo
  particolare dall'ascolto della politica, della società e della vita reale delle persone, in questo nostro
  particolare Paese, in questo nostro particolare momento.
   Al secondo gradino mi pare che ci sia, in questa cultura del contingente, la cultura delle relazioni personali. Non
  saremo mai abbastanza preparati culturalmente e professionalmente per diventare, per essere totalmente degli
  educatori delle nuove generazioni se non compiamo quella conversione continua e quello sforzo continuo, forse il
  più difficile, di conoscere, di capire le persone del proprio ambiente, di conoscere il territorio negli
  aspetti umani, cioè di conoscere che cosa c'è dietro le facce, gli avvenimenti, le sofferenze che
  appaiono in superficie.
   Molto spesso nella nostra esperienza politica e sociale di questi ultimi anni si fa riferimento al territorio: la
  regione, l'ambiente, il comune. Ecco, si è fatta una forte mitologia del territorio che in parte è
  positiva, in parte però può essere elusiva se non si va a capire che cosa c'è dentro questo e
  dietro le facce, gli avvenimenti e le difficoltà dell'ambiente che circonda la nostra vita reale.
   E, infine, il terzo ed ultimo aspetto di questo povero itinerario, che io non saprei in maniera migliore definire,
  è una decisione interiore, è un atteggiamento psicologico oggi estremamente importante.
   La vera cultura del proprio tempo è una cultura che sa guardare, ascoltare, rendersi conto delle situazioni,
  aggiornarsi nel proprio tempo, aggiornarsi in senso morale sul proprio tempo. La vera cultura deve essere, deve
  avere, sa avere l'umiltà di rinunciare a se stessa, sa offrire il primato al rispetto dell'uomo.
   La vera, l'autentica cultura, è capace di rinunciare ai propri progetti, anche alla propria
  professionalità educatrice, pur di dare il rispetto, il primato al rispetto dell'uomo e cioè al
  rispetto della condizione degli altri, al rispetto delle persone con cui si vive, dell'ambiente e al rispetto della
  persona che si vuole educare.
   La vera cultura non può essere cioè scissa dalla carità, nel senso di promozione dell'uomo e di
  donazione dell'uomo. Questo è un aspetto che gli uomini di cultura, quelli che più hanno la coscienza
  di avere fatto questa scelta di cultura, difficilmente accettano.
   Eppure il vero uomo di cultura è quello che sa rinunciare anche alla propria potenzialità culturale,
  rinunciare anche al progetto di educare per entrare attraverso la porta, la strada del rispetto della persona con cui
  si incontra.
   L'umiltà dell'uomo di cultura e soprattutto questa carità verso gli altri è la misura vera di
  un'autentica scelta di formazione culturale.
   La pienezza culturale si ha quasi nel momento di questa passione, di questa rinuncia.
E vado alle notazioni conclusive di questa mia chiacchierata. Vorrei subito dire che, accanto a
  queste scelte culturali e a questi gradini che ho cercato di mettere insieme, di indicare come itinerario personale
  di formazione, occorre porre gli strumenti adatti alla comunicazione.
   Io non vorrei sottovalutare o avere l'aria di sottovalutare il valore della tecnica del porgere cultura della
  tecnica pedagogica. Vorrei, però, che una autentica crescita culturale, nel senso delle cose da me dette
  prima, ci porti a dire che gli strumenti della comunicazione sono importanti, necessari e vanno anche studiati,
  utilizzati a pieno con tutta la modernità, con tutta la ricchezza degli strumenti stessi ma con una
  finalizzazione.
   La cultura, cioè, se è autentica, se ha raggiunto una formazione piena, nel senso della
  soggettività della persona e della storicità di essa, promuove nell'insegnante la capacità di
  trasmettere, e di trasmettere soprattutto un metodo. E penso che la professionalità, al termine di un
  itinerario culturale o comunque nel corso di esso perché sempre esso viene ripetuto e ripreso, consiste
  soprattutto nel gettare le basi per un metodo culturale, per far fare ai ragazzi la stessa scelta, le stesse scelte
  che hanno fatto e continuano a fare i docenti.
   Del resto, il riscatto umano e sociale di questa nostra generazione in Italia è affidato soprattutto al
  miglioramento culturale e cioè a quelle scelte di fondo che fanno diventare gente di cultura.
   Tutti i nostri ragazzi, dai più piccoli ai più grandi, dovrebbero essere gente di cultura in crescita
  ma potenzialmente chiamati da un esempio che utilizza tutta la tecnica e la strumentazione pedagogica, ma chiamati da
  un esempio trascinatore.
   Chi ha fatto davvero una scelta di cultura fa lievitare i mezzi di trasmissione della cultura stessa ai fini di una
  scelta.
   Le vere scelte sono trascinatrici e difatti la cultura in fondo non si insegna, si trasmette. La cultura non si
  impara, si assimila e soprattutto attraverso le scelte degli altri, l'esempio degli altri, l'esempio non in termini
  banali, evidentemente.
   Occorre, dunque, per trasmettere cultura, per trasmettere una scelta, occorre viverla, incarnarla in tutta la sua
  ricchezza.
   E allora qui si ritorna ai principi primi cioè al rapporto tra cultura e persona. Chi fa la scelta culturale
  non ne riserva, non tiene degli angoli della propria persona separati da questa scelta culturale.
   Come tutte le scelte anche la scelta culturale è pienezza di sé senza riserve, cioè è
  pienezza di persona, cultura e persona.
   E concludo dicendo che, se è così, la formazione culturale e la professionalità che ne discende
  sono modi eccellenti di sviluppare e di esercitare la laicità cristiana, cioè diventare protagonisti di
  quel rapporto chiesa-mondo che per i laici è stato additato da una grande tradizione nella chiesa universale e
  nella chiesa italiana in modo specifico e che vent'anni fa è stato fortemente proposto ai laici cristiani dal
  Concilio Vaticano II, non soltanto attraverso l'invito a capire i segni del proprio tempo, non soltanto attraverso
  una responsabilizzazione dei laici cristiani, ma attraverso soprattutto due proposte metodologiche estremamente
  significative per questa laicità cristiana.
   La proposta data dal Concilio è quella di utilizzare gli elementi culturali per capire il mondo, il proprio
  tempo e per presentare una strada cristiana per la evangelizzazione, con una opzione metodologica per ogni laico
  cristiano responsabile, consistente nel testimoniare la fede con l'abito e il linguaggio del mondo, che è poi
  trovare i modi di rapportarsi con la gente, con il proprio tempo, con i progetti sociali, con la storia del proprio
  tempo e cercare di capirli e assumerli in una scelta soggettiva e poi tradurre questo abito, questo linguaggio del
  mondo, nel proprio modo di essere, per far passare attraverso questo abito e questo linguaggio i contenuti ottenuti
  dalla propria scelta culturale e cristiana.
   Quindi anche sotto questo profilo, direi che la scelta di cultura è una scelta eminentemente di
  laicità cristiana.