Il Signore ha chiamato a sé p.Ignace de la Potterie,
gesuita, professore del Biblico, all’età di 89 anni, l’11
settembre 2003. Vogliamo ricordarlo ripresentando on-line una sua riflessione
sul brano giovanneo che narra dell’apparizione di Gesù risorto
a S.Tommaso apostolo. L’intervento di padre de la Potterie prende spunto
dalla proposta di nuova traduzione presentata nella revisione – che attende,
però, ancora l’approvazione definitiva – della precedente
versione, a cura della CEI (Conferenza Episcopale Italiana). “Beati quelli
che pur non avendo visto crederanno” diviene, nella nuova traduzione,
“Beati quelli che pur non avendo visto credono”. Il testo originale
ha, però, un aoristo che, correttamente, padre de la Potterie traduce
con il passato “hanno creduto”, dandone, di seguito, le motivazioni
e mostrandone le implicazioni.
Il testo è tratto dalla raccolta degli articoli del gesuita belga,
apparsi precedentemente sulla rivista 30Giorni, dal titolo I.de la Potterie,
Storia e mistero. Esegesi cristiana e teologia giovannea, SEI, Torino, 1997.
L’articolo in questione porta il titolo Qualche osservazione su due passi
di Giovanni nella nuova versione CEI del Nuovo Testamento, pp. 183-189.
Siamo pronti per una immediata rimozione, se la messa a disposizione
on-line non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
L’Areopago
Due aspetti ci preme mettere in rilievo: anche in questa versione
riveduta, le parole di Gesù vengono tradotte con un’imprecisione,
rispetto all’originale greco. E tale imprecisione viene di fatto utilizzata
per confermare con l’autorità del Vangelo un’impostazione
che sembra prevalente nella Chiesa di oggi: l’idea che la vera fede sia
quella che prescinde totalmente dai segni visibili. L’errore di traduzione
a cui pensa di poter appoggiarsi tale interpretazione, che di fatto travisa
il passo evangelico, consiste nel tradurre al presente il rimprovero di Gesù:
“Beati coloro che credono, pur senza aver visto”. In questo modo
le parole vengono trasformate in una regola di metodo valida per tutti coloro
che vivono nei tempi successivi alla morte e risurrezione di Gesù. E
infatti la nota [1] spiega che solo per i contemporanei di Gesù “visione
e fede erano abbinate”, mentre per tutti coloro che vengono dopo, “la
normalità della fede poggia sull’ascolto, non sul vedere”.
Secondo questa interpretazione sembra quasi che Gesù si opponga al naturale
desiderio di vedere, chiedendo a noi una fede fondata solo sull’ascolto
della Parola. In realtà, qui il verbo non è al presente, come
viene tradotto. Nell’originale greco il verbo è all’aoristo
(πιστεύσαντες),
anche nella versione latina era messo al passato (crediderunt). “Tu hai
creduto perché hai visto” - dice Gesù a Tommaso - “beati
coloro che senza aver visto [ossia che senza aver visto me, direttamente]
hanno creduto”. E l’allusione non è ai fedeli che
vengono dopo, che dovrebbero “credere senza vedere”, ma agli apostoli
e ai discepoli che per primi hanno riconosciuto che Gesù era risorto,
pur nell’esiguità dei segni visibili che lo testimoniavano. In
particolare il riferimento indica proprio Giovanni, che con Pietro era corso
al sepolcro per primo dopo che le donne avevano raccontato l’incontro
con gli angeli e il loro annuncio che Gesù Cristo era risorto. Giovanni,
entrato dopo Pietro, aveva visto degli indizi, aveva visto la tomba vuota, e
le bende rimaste vuote del corpo di Gesù senza essere sciolte, e pur
nell’esiguità di tali indizi aveva cominciato a credere. La frase
di Gesù “beati quelli che pur senza aver visto [me] hanno creduto”
rinvia proprio al “vidit et credidit” riferito a Giovanni al momento
del suo ingresso nel sepolcro vuoto. Riproponendo l’esempio di Giovanni
a Tommaso, Gesù vuole indicare che è ragionevole credere alla
testimonianza di coloro che hanno visto dei segni, degli indizi della
sua presenza viva. Non è la richiesta di una fede cieca, è la
beatitudine promessa a coloro che in umiltà riconoscono la sua presenza
a partire da segni anche esigui e danno credito alla parola di testimoni credibili.
L’imprecisione introdotta dai traduttori riguardo al tempo dei verbi usati
da Gesù è servita a cambiare il senso delle sue parole e a riferirle
non più a Giovanni e agli altri discepoli, ma ai credenti futuri. E’
passata così inconsapevolmente l’interpretazione del teologo esegeta
protestante Rudolf Bultmann,che traduceva i due verbi del passo al presente
(“Beati coloro che non vedono e credono”) per presentarla “come
una critica radicale dei segni e delle apparizioni pasquali e come un’apologia
della fede privata di ogni appoggio esteriore” (Donatien Mollat). Mentre
è esattamente il contrario. Ciò che viene rimproverato a Tommaso
non è di aver visto Gesù. Il rimprovero cade sul fatto che all’inizio
Tommaso si è chiuso e non ha dato credito alla testimonianza di coloro
che gli dicevano di aver visto il Signore vivo. Sarebbe stato meglio
per lui dare un credito iniziale ai suoi amici, nell’attesa di rifare
di persona l’esperienza che loro avevano fatto. Invece Tommaso ha quasi
preteso di dettare lui le condizioni della fede. Vi è un altro ricorrente
errore di traduzione, ripetuto anche dalla nuova versione CEI. Quando Gesù
sottopone le sue ferite alla “prova empirica” richiesta da Tommaso,
accompagna questa offerta con un’esortazione: “E non diventare incredulo,
ma diventa (γίνου) credente”. Significa che Tommaso
non è ancora né l’uno né l’altro. Non è
ancora incredulo, ma non è nemmeno ancora un credente. La versione CEI,
come molte altre, traduce invece: “E non essere incredulo, ma credente”.
Ora, nel testo originale, il verbo “diventare” suggerisce l’idea
di dinamismo, di un cambiamento provocato dall’incontro col Signore vivo.
Senza l’incontro con una realtà vivente non si può cominciare
a credere. Solo dopo che ha visto Gesù vivo Tommaso può cominciare
a diventare “credente”. Invece la versione inesatta, che va per
la maggiore, sostituendo il verbo essere al verbo diventare, elimina la percezione
di tale movimento, e sembra quasi sottintendere che la fede consiste in una
decisione da prendere a priori, un moto originario dello spirito umano. E’
un totale rovesciamento. Tommaso, anche lui, vede Gesù e allora, sulla
base di questa esperienza, è invitato a rompere gli indugi e a diventare
credente. Se al diventare si sostituisce l’essere, sembra quasi che a
Tommaso sia richiesta una fede preliminare, che sola gli permetterebbe di “vedere”
Gesù e accostarsi alle sue piaghe. Come vuole l’idealismo per cui
è la fede a creare la realtà da credere. Le spiegazioni della
nota, basate su queste traduzioni inesatte, e che per fortuna, come ha premesso
monsignor Antonelli, non possiedono “alcun carattere di ufficialità”,
sembrano comunque piegare le parole di Gesù alla nuova tendenza che vige
oggi nella Chiesa, secondo cui una fede pura è quella che prescinde dal
“vedere”, ossia dall’appoggio e dallo stimolo dei segni sensibili.
E’ vero, come spiega la nota, che nel tempo attuale “la visione
non può essere pretesa”. Niente nell’esperienza cristiana
può mai essere oggetto di “pretesa”. Ma mettere in alternativa
il vedere e l’ascoltare e sostenere che “la normalità della
fede poggia sull’ascolto, e non sul vedere” ossia che basta ascoltare
il “racconto” del cristianesimo per diventare cristiani, sembra
essere in contraddizione con tutto ciò che insegnano le Scritture e la
Tradizione della Chiesa. Le apparizioni a Maria di Magdala, ai discepoli e a
Tommaso sono l’immagine normativa di un’esperienza che ogni credente
è chiamato a fare nella Chiesa; come l’apostolo Giovanni, anche
per noi il “vedere” può essere una via d’accesso al
“credere”. Proprio per questo continuiamo a leggere i racconti del
Vangelo: per rifare l’esperienza di coloro che dal “vedere”
sono passati al “credere” (si pensi alla contemplazione delle
scene evangeliche e all’applicazione dei sensi a esse, secondo
una lunga tradizione spirituale). Il Vangelo di Marco si conclude testimoniando
che la predicazione degli apostoli non era solo un semplice racconto, ma era
accompagnata da miracoli, affinché potessero confermare le loro parole
con questi segni: “Allora essi partirono e annunciarono il vangelo dappertutto,
mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la parola con i segni
che la accompagnavano” (Mc 16,20). Molti Padri della Chiesa, dall’occidentale
Agostino fino all'orientale Atanasio, hanno insistito su questa permanenza dei
segni visibili esteriori che accompagnano la predicazione e che non sono un
di meno, una concessione alla debolezza umana, ma sono connessi con la realtà
stessa dell’incarnazione. Se Dio si è fatto uomo, risorto col suo
vero corpo, rimane uomo per sempre e continua ad agire. Ora non vediamo il corpo
glorioso del Risorto, ma possiamo vedere le opere e i segni che compie: “In
manibus nostris codices, in oculis facta”, dice Agostino: “nelle
nostre mani i codici dei Vangeli, nei nostri occhi i fatti”. Mentre leggiamo
i Vangeli, vediamo di nuovo i fatti che accadono. E Atanasio scrive nell’Incarnazione
del Verbo: “Come, essendo invisibile, si conosce in base alle opere
della creazione, così, una volta divenuto uomo, anche se non si vede
nel corpo, dalle opere si può riconoscere che chi compie queste opere
non è un uomo ma il Verbo di Dio. Se una volta morti non si è
più capaci di far nulla ma la gratitudine per il defunto giunge fino
alla tomba e poi cessa – solo i vivi, infatti, agiscono e operano nei
confronti degli altri uomini - veda chi vuole e giudichi confessando la verità
in base a ciò che si vede”. Tutta la Tradizione conserva con fermezza
il dato che la fede non si basa solo sull’ascolto, ma anche sull’esperienza
di prove esteriori, come ricorda il Catechismo della Chiesa cattolica al paragrafo
156, citando le definizioni dogmatiche del Concilio ecumenico Vaticano I: «“Nondimeno,
perché l’ossequio della nostra fede fosse conforme alla ragione,
Dio ha voluto che agli interiori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero
anche prove esteriori della sua rivelazione”. Così i miracoli di
Cristo e dei santi, le profezie, la diffusione e la santità della Chiesa,
la sua fecondità e la sua stabilità “sono segni certissimi
della divina rivelazione, adatti a ogni intelligenza”, sono “motivi
di credibilità” i quali mostrano che l’assenso della fede
non è “affatto un cieco moto dello spirito”».
In particolare, sono i santi che attualizzano per i loro contemporanei i racconti del Vangelo.
Quando san Francesco parlava, per chi era lì presente era chiarissimo che i Vangeli non
erano un racconto del passato, solo da leggere e ascoltare: in quel momento era evidente che in
quell’uomo era presente e agiva Gesù stesso.
Non per niente anche Giovanni Paolo II ha proposto in chiave positiva proprio la figura
dell’apostolo Tommaso, quando, in un suo discorso ai giovani di Roma, il 24 marzo del
’94, li ha invitati a prendere sul serio, rispettare e accogliere questa sete di prove
esteriori, visibili, così viva tra i loro coetanei: «Noi li conosciamo [questi
giovani empirici], sono tanti, e sono molto preziosi, perché questo voler toccare, voler
vedere, tutto questo dice la serietà con cui si tratta la realtà, la conoscenza
della realtà. E questi sono pronti, se un giorno Gesù viene e si presenta loro,
se mostra le sue ferite, le sue mani, il suo costato, allora sono pronti a dire: Mio Signore e
mio Dio!».
Per altri articoli e studi di p.Ignace de la Potterie o sul vangelo di Giovanni presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici
[1] Il padre de la Potterie si riferisce qui alla nota al testo preparata a margine della nuova traduzione CEI. L’intero apparato di note critiche ed esplicative non è ancora stato approvato definitivamente. Già allora – l’articolo è del 1997 – mons. Antonelli, a nome della CEI, esprimeva cautela su tali note (Nota de L’Areopago).