Presentiamo on-line il presente testo di Antonio Maria Sicari, utilizzato durante il primo
incontro di catechesi per gli adulti 2003 nella parrocchia di S.Melania. La figura di Madeleine Delbrêl
ci appare come uno dei paradigmi della vita del laico cristiano nella società, come uno dei segni dei tempi
donato da Dio al suo popolo, la Chiesa, e al mondo, per l'ultimo secolo del secondo millennio e per il primo del
terzo.
Presentiamo inoltre alcuni degli scrtti della Delbrêl, perché attraverso le sue stesse parole essa
possa essere conosciuta.
Restiamo a disposizione per l'immediata rimozione se la presenza di questi testi sul nostro sito non fosse
gradita a qualcuno degli aventi diritto.
L'Areopago
Tratto da Antonio Maria Sicari, Il sesto libro dei ritratti di santi, Jaca Book, Milano, 2000, pp. 127-145.
Il secolo XX, appena trascorso, si aprì con uno slogan
molto triste: «Dio è morto», aveva lasciato detto Nietzsche,
credendo di annunciare la nascita di un uomo finalmente «superiore».
Ma, già nei primi vent'anni, due terribili sventure (la prima guerra
mondiale che provocò nove milioni di morti e un'epidemia che ne uccise
altri ventidue milioni) mostravano che era l'uomo che continuava a morire, e
spesso in maniera assurda.
Nel 1921 Madeleine Delbrêl ha diciassette anni, e scrive un tema di un
impressionante radicalismo che inizia così: «Dio è morto.
Ma, se ciò è vero, bisogna avere la lucidità di non vivere
più come se Dio esistesse ancora». La ragazza è spietata:
se Dio è morto, allora a dominare è la morte e bisogna prenderne
atto coraggiosamente. Scrive: «Io sono stupita dalla generale mancanza
di buon senso». Secondo lei, i rivoluzionari «sono interessanti,
ma hanno capito male il problema», perché vogliono un mondo nuovo
senza pensare che, poi, bisogna comunque abbandonarlo. Gli scienziati «sono
un po' bambini», perché sperano, con le loro ricerche e i loro
ritrovati, di riuscire a debellare la morte, e invece riescono ad uccidere soltanto
alcuni modi di morire: «la morte, per quanto la riguarda, sta benissimo».
I pacifisti «sono simpatici, ma sono deboli nel calcolo» perché,
se anche fossero riusciti ad impedire la prima guerra mondiale del 1915-1918,
tutti i morti allora risparmiati sarebbero poi deceduti infallibilmente entro
il 1998. La gente perbene «manca di modestia», perché vuol
migliorare la vita senza accorgersi che «più la vita è buona,
più diventa duro morire». Gli innamorati «sono radicalmente
illogici e restii a ragionare»: si promettono amore eterno, ma diventano
«sempre più infedeli» perché, ad ogni giorno che passa,
si avvicinano sempre di più all'estremo abbandono. E annota: «Io
non vorrei restare vicino, da vecchia, all'uomo che dovessi amare: vedrebbe
cadere i miei denti, raggrinzirsi la mia pelle, e il mio corpo mutarsi in un'otre
o in un fico secco». Le mamme poi «sarebbero pronte ad inventare
la felicità», pur di assicurarla ai loro figli, i quali, però,
se anche non diventeranno «carne da cannone», diventeranno pur sempre
«carne da morte». Perciò conclude: «Io non voglio avere
bambini. È già abbastanza che segua tutti i giorni in anticipo
i funerali dei miei genitori».
Per Madeleine insomma le uniche persone serie sono gli artigiani e gli artisti,
che fanno cose che durano come le sedie, i quadri, le poesie... Poi ci sono
quelli «che ammazzano il tempo, aspettando che il tempo ammazzi loro...».
«Io sono una di queste...», conclude. Così si presenta dunque
Madeleine a diciassette anni: il componimento, che abbiamo dovuto sintetizzare,
è scritto magnificamente: meriterebbe una lettura integrale, tanto è
ricco di annotazioni geniali, di sorrisi addolorati, di lucida disperazione.
S'intuisce una sconfinata voglia di vivere e una inesauribile voglia di amare,
ma in un cuore che ha imparato di non dover attendere nulla, di non aver nemmeno
il diritto di dire «addio!», dato che la parola contiene già
quel Nome di un morto («Dio!») che ha trascinato via tutto
con sé.
«Anche le parole Dio si è portato via», dice proclamando
l'ultima evidenza, come se scoppiasse a piangere. E conclude il suo tema: «Si
può dire a un morente, senza mancare di tatto, “buongiorno”
o “buonasera”? Allora gli si dice: arrivederci” o “addio”,
... finché non si sarà imparato a dire: “a non vederci più
in alcun luogo...”, “al nulla assoluto”». Che ne sarà
di una ragazza così? Madeleine ha una vitalità prorompente e non
pensa certo a lasciarsi andare.
Con le amiche più care, in un bel giorno di primavera, sceglie «la
sua vocazione»: «restare sempre giovani, qualunque cosa accada,
per quanti anni passino!...». A diciott'anni s'innamora: lui, Jean, è
alto, sportivo, serio, pieno di interessi, intellettualmente e politicamente
impegnato ed evidentemente dotato di una profonda vita spirituale. Fanno coppia
fissa e tutti dicono che sembrano nati l'uno per l'altra... Improvvisamente
il ragazzo scompare: sconvolta, Madeleine viene a sapere che Jean è entrato
nel noviziato dei domenicani, ed è una separazione assoluta. Non capisce.
Il suo anticlericalismo si riaccende violento, e per di più anche in
famiglia la sofferenza dilaga: il papà di Madeleine — ferroviere
e poeta mancato — diventa cieco e va gridando la sua angoscia perfino
per le strade, per le quali si trascina disperato come un barbone. «In
quel momento», confessa, «avrei dato tutto l'universo, pur di sapere
che cosa ci facevo dentro!». Il problema della fede si pone, ma non perché
ella sia in cerca di conforto. Scrive: «Cento mondi, ancora più
disperati di quello in cui vivevo, non mi avrebbero fatto vacillare, se mi avessero
proposto la fede come consolazione». A perseguitarla è, invece,
il ricordo della bella umanità di Jean e di altri amici conosciuti in
quel periodo felice: «Mi era accaduto l'incontro con parecchi cristiani
né più vecchi, né più stupidi, né più
idealisti di me, che vivevano la mia stessa vita, discutevano quanto me, danzavano
quanto me. Anzi, avevano al loro attivo alcune superiorità: lavoravano
più di me, avevano una formazione scientifica e tecnica che io non avevo,
convinzioni politiche che io non avevo... Parlavano di tutto, ma anche di Dio
che pareva essere a loro indispensabile come l'aria. Erano a loro agio con tutti,
ma – con una impertinenza che arrivava fino a scusarsene – mescolavano
in tutte le discussioni, nei progetti e nei ricordi, parole, idee, messe a punto
di Gesù Cristo. Cristo avrebbero potuto invitarlo a sedersi, non sarebbe
sembrato più vivo...». E tra tutti quei cristiani che l'hanno costretta
a pensare, un posto di rilievo l'ha certamente quel Jean che ha considerato
Dio talmente reale da lasciare lei. La ragazza diciassettenne che aveva
formulato in maniera durissima e consequenziale il suo ateismo è ora
una ventenne costretta a compiere un percorso inaspettato. Prima guardava il
mondo convinta che tutto dimostrasse la non esistenza di Dio e, se si faceva
qualche domanda, essa suonava così: «Come si conferma l'inesistenza
di Dio?»; ora la domanda diventa: «Dio potrebbe forse esistere?».
Ma capisce di conseguenza che, se cambia la domanda, deve cambiare anche il
suo atteggiamento interiore. Ricorda allora che «in occasione di un baccano
qualsiasi, era stata ricordata Teresa d'Avila che consigliava di pensare in
silenzio a Dio cinque minuti ogni giorno». Ed ecco la conclusione: «Scelsi
quel che mi sembrava tradurre meglio il mio cambiamento di prospettiva: decisi
di pregare!». Un simile racconto di conversione tocca delle notevoli profondità
pedagogiche. Madeleine non prega perché si è convertita, prega
perché quello è l'unico atteggiamento possibile ed onesto, una
volta accettata l'ipotesi che Dio potrebbe esistere. Il suo sì
non è il risultato di una convinzione acquisita (e quindi, in qualche
modo, necessitato), ma il regalo anticipato a un Dio che, se esiste,
è Tutto. Il Tutto merita tutto, anche se si ha soltanto
il presentimento del suo esistere. E Madeleine non prega solo cinque minuti,
ma affonda nella preghiera. E lo fa in ginocchio perché vuole
essere sicura di farlo realmente, anche col corpo e non soltanto con
le idee. Ecco la sua conversione: si è gettata di colpo nel centro della
fede; ha abbracciato impetuosamente Dio e si è lasciata abbracciare,
senza nemmeno esser certa che le braccia di Lui, nel buio, fossero protese.
Si è gettata e si è trovata immersa nella luce, nel fuoco. Più
tardi userà volentieri il termine: «abbagliamento», e dirà:
«poi, leggendo e riflettendo, ho trovato Dio; ma pregando “ho creduto”
che Dio mi trovasse, e che Egli è la verità vivente che si può
amare come si ama una persona». Quasi echeggiando sant'Agostino, dialogherà
con l'Altissimo, colma di stupore: «Tu vivevi e io non ne sapevo niente.
Avevi fatto il mio cuore a tua misura, la mia vita per durare quanto Te e, poiché
non eri presente, il mondo intero mi appariva piccolo e stupido e il destino
degli uomini insulso e cattivo. Ma, quando ho saputo che vivevi, t'ho ringraziato
d'avermi fatto vivere, t'ho ringraziato per la vita del mondo intero».
Dopo una simile esperienza, sembra esserci una sola vocazione possibile: vivere
in modo che la preghiera diventi tutta la vita. E infatti Madeleine pensa subito
di entrare al Carmelo. Ma si accorge che è lo stesso Dio a tenerla legata
a una situazione familiare irrisolvibile, dato che il papà sprofonda
sempre più nelle sue angosce e la mamma è al limite della resistenza.
Ma se il Carmelo non è possibile, allora ne segue inevitabilmente che
il mondo dovrà diventare il suo Carmelo, il suo monastero. Comincia imbevendosi
degli scritti di santa Teresa e di san Giovanni della Croce, poi frequenta la
sua parrocchia come una cristiana qualsiasi, e qui le viene incontro, come un
dono, un prete straordinario: Padre Lorenzo, «un prete che voleva essere
soltanto prete» e che «insegnava a vivere il Vangelo dappertutto»
facendolo diventare «una chiamata attuale, una chiamata personale»
per ogni ascoltatore. Madeleine lo definiva: «il Buon Samaritano della
Parola», perché la donava come guarigione e salvezza a tutti coloro
che incontrava per strada. Si faceva compagno a tutti, ma poi li educava, uno
per uno, a saper «restare soli col Signore Gesù» per lasciare
Dio libero di agire a suo piacimento. In quei primi anni di “vita cristiana”
ella è appassionata di letteratura: pubblica saggi e libri di poesie
(ottenendo anche un prestigioso premio letterario), che hanno a tema ciò
che è “umilmente doloroso”, ciò che si muove a fatica
nelle strade desolate della città. Ma ecco che padre Lorenzo le propone
di impegnarsi nel movimento scout, quanto di più lontano ella
poteva immaginare dalle sue passate preoccupazioni intellettuali e artistiche.
Deve imparare giochi, canti, esercizi fisici per guidare la sua squadriglia
e dimostra una vivacità instancabile e un'intelligenza pedagogica così
sicura che ben presto le affidano l'educazione delle ragazze più grandi,
destinate ad essere responsabili, e la sua parola d'ordine è «gioia».
Dallo scoutismo, con una ventina di ragazze, passa poi a formare un gruppo detto
«Carità», nel ricordo dell'impresa di san Vincenzo de' Paoli
che aveva dato questo nome alle comunità di donne che si prendevano cura
dei malati e degli emarginati.
Ha un solo progetto chiaro: «Essere volontariamente di Dio, quanto una
creatura umana può volere appartenere a colui che ama. Essere volontariamente
proprietà di Dio, nella stessa maniera totale, esclusiva, definitiva,
pubblica con cui lo diviene una religiosa che si consacra a Dio». In altre
parole: ciò che di più profondo c'è nel sacramento del
matrimonio e ciò che di più totale c'è nella vocazione
religiosa, ella vuole viverlo nel mondo.
A tale scopo, la scelta della verginità è indiscutibile
(e ciò rende necessario anche un orientamento contemplativo),
ma ella vivrà tutto ciò senza allontanarsi dal mondo. Il suo progetto
è di «far calare i consigli evangelici nella vita laica».
Siamo in un tempo in cui l'accostamento di questi termini sembra ancora strano;
non esistono ancora i moderni «istituti secolari» e non si immagina
nemmeno la possibilità di una vita comune tra cristiani laici.
Madeleine sceglie perciò un lavoro che la possa tenere a stretto contatto
con i poveri, assoggettandosi agli studi necessari per divenire assistente
sociale. Nel 1930 ciò significa essere destinate ai bassifondi delle
città dove si ammassano poveri e operai, il vero proletariato, soggetto
a sfruttamento, che pone nel marxismo le proprie speranze di riscatto. Così
una decina di ragazze - senza voti religiosi, senza abito particolare e senza
difese istituzionali - decidono di partire per la periferia di Parigi con l'intento
di vivere assieme, lavorando in mezzo alla gente più povera, mettendo
tutto in comune, senza avere alcuna proprietà (né personalmente
né assieme). Formano una comunità «casta, povera e obbediente»
che ha come unica regola l'approfondimento comunitario del Vangelo, e come unica
struttura stabile il riferimento ad una responsabile. Secondo Madeleine, il
gruppo deve essere così semplice e umile, nel normale tessuto della Chiesa,
che quasi non bisognerebbe nemmeno vederlo.
Con un paragone dolcissimo, scrive: «Il mio sogno è che il nostro
gruppo sia nella Chiesa come il filo di un vestito. Il filo tiene assieme i
pezzi e nessuno lo vede, se non il sarto che ce l'ha messo. Se il filo si vede,
allora il vestito è riuscito male». Prima che si riesca a realizzare
l'impresa, il gruppetto si assottiglia molto: di dieci ragazze, ne restano tre.
A Ivry (una cittadina vicino Parigi) offrono loro un «Centro di azione
sociale» e le tre coraggiose fissano la loro partenza per il 15 ottobre
1933. La festa di santa Teresa d'Avila è stata scelta appositamente,
perché è un monastero «nuovo» quello che vanno a fondare:
è una vita contemplativa «nuova» quella che le attende. Partono
con poche suppellettili e una statua della Madonna tra le braccia. Certi resoconti
sulla situazione a Ivry, risalenti a quegli anni, ci fanno capire bene a cosa
vanno incontro. Gli operai lavorano circa dodici ore al giorno, privi di ogni
sicurezza sociale e sanitaria, oltreché di ogni previdenza; sono mal
pagati, ammassati in alloggi fatiscenti. Le donne sono costrette anch'esse ad
andare in fabbrica perché la famiglia possa sopravvivere. La salute è
un lusso. Negli anni '40, nel quartiere più industrializzato della città,
su quindicimila abitanti, se ne conteranno ancora 2000 ammalati di tubercolosi.
L'alcoolismo diffuso è assieme una piaga e un rifugio. La Chiesa serve
solo agli anziani; gli altri la frequentano soltanto per battesimi, matrimoni
e funerali.
Di fatto Ivry è diventata “la capitale politica del Partito Comunista
Francese”, sede del segretario generale del partito. Sugli edifici pubblici
non c'è il tricolore, ma la bandiera rossa. I muri sono tappezzati di
manifesti che invitano a film sovietici, conferenze ideologiche, battesimi civili,
pasque rosse, e simili. L'amministrazione comunale - in fatto di alloggi e impieghi
- privilegia gli iscritti al partito. Ci si saluta col pugno alzato, e i preti
non si meravigliano troppo se per strada i monelli li prendono a sassate. Perfino
i ragazzi nel gioco o nelle sassaiole - per marcare con chiarezza il solito
antagonismo di squadra - attribuiscono agli avversari il nome di «preti»,
mentre tutti vorrebbero appartenere alla squadra dei «compagni».
Madeleine è talmente estranea a un tale ambiente da ignorare perfino
il significato della bandiera rossa. L'unica cosa che sa è che ha, davanti
a sé, persone «non credenti e povere». Ciò che le
tre ragazze desiderano - nella loro estrema e volontaria povertà - è
«vivere gomito a gomito» con la gente, senza dissociarsi in nulla,
se non nell'amore e nella fede. Rinunciano alla loro divisa da scout, quando
s'accorgono che infastidisce e allontana gli altri, e poi fanno ciò che
sanno fare. Madeleine è assistente sociale (o meglio: sta ancora studiando
per diventarlo), una delle due compagne è infermiera, l'altra è
maestra d'asilo. Cominciano a partecipare alle attività parrocchiali,
ma s'accorgono che questo le emargina. Perciò vanno in mezzo alla gente,
sfidando le ostilità. Fanno quello che possono, ma con fantasia tutta
femminile. Un giorno che una famiglia povera le ha restituito in malo modo il
pacco-dono (di scarso valore, del resto), Madeleine, per farsi perdonare, si
presenta con un mazzo di rose e lo mette in braccio a una povera donna che non
ne ha mai ricevute in vita sua... E il capo famiglia, arrabbiato militante comunista,
le dice commosso: «Se la carità è questa, allora voglio
proprio parlare di carità…”. Ed ecco che padre Lorenzo viene
fortunatamente nominato parroco a Ivry e i cristiani, prima asserragliati in
difesa, si mobilitano. La questione dei rapporti tra cattolici e comunisti non
è teorizzata o discussa da Madeleine, ma risolta di schianto in base
a un semplicissimo principio: «Dio non ha mai detto: Amerai il prossimo
tuo come te stesso, eccetto i comunisti», perciò c'è solo
da accogliere l'evidenza: i comunisti sono di fatto «il suo prossimo»
più immediato. Perciò non li evita, come raccomandano i benpensanti,
ed è pronta a riconoscere quel che c'è di buono - come aspirazione
alla giustizia e dedizione reciproca - in quei rudi militanti della prima ora.
E perfino pronta a un dialogo con loro quando si tratta di assistere i disoccupati.
Si ferma soltanto quando si scontra col problema della violenza. I comunisti
le spiegano che ci sono violenze così terribili e solidificate che non
possono essere estirpate se non passando attraverso una violenza di segno contrario.
Il Vangelo invece le dice di amare ogni uomo e tutti gli uomini senza alcuna
eccezione. Madeleine legge e rilegge il Vangelo, e la contraddizione le appare
sempre più evidente e irrisolvibile, ma è solo il primo colpo
assestato alla sua istintiva generosità e voglia di giustizia. L'altro
colpo è ancora più grave: i testi-guida del partito - che ella
legge attentamente - insegnano che l'ateismo è essenziale alla lotta
operaia, e che inculcarlo nelle anime dei giovani è lo scopo primario
dell'educazione. «In quel tempo», racconta, «sussultai di
paura per Dio, mio bene». E fu così che tra lei e il marxismo si
scavò «un abisso incolmabile»: con il marxismo, non con i
marxisti. La tentazione di cedere anche all'ideologia era stata però
fortissima, perché le si era presentata ammantata d'amore per gli uomini.
Ma il suo cuore, votato in profondità all'amore per Dio, aveva subito
intuito l'inganno e aveva reagito. Con questi travagli, l'identità del
gruppo si precisa. Nel 1938 Madeleine scrive un testo programmatico che resterà
celebre (e che ella pubblica significativamente sulla rivista «Etudes
Carmélitaines»). È intitolato: «Noi, gente della strada»
e proclama che ci sono cristiani per i quali «la strada» - cioè:
il pezzo di mondo in cui Dio, di volta in volta, li manda - «è
il luogo della santità», come lo è il monastero per le persone
consacrate. E' la vocazione specifica della «gente qualunque», in
un «luogo qualunque», che svolge «un lavoro qualunque»,
assieme ad altri «uomini qualunque» e che, tuttavia, «si tuffa
in Dio» con lo stesso movimento con cui «si immerge nel mondo».
Ma dove trovare il silenzio che le claustrali custodiscono nei loro monasteri?
Madeleine spiega che nel mondo non è certo difficile trovare «ammassi
umani dove l'odio, la cupidigia, l'alcool segnano il peccato», ma proprio
qui diventa possibile esperimentare «un silenzio di deserto nel quale
il nostro cuore si raccoglie con facilità estrema». E dove trovare
la solitudine? Risponde: «La nostra solitudine non è essere soli...
La nostra solitudine è incontrare Dio dovunque». Insomma, a Madeleine
Gesù non dice soltanto: «Seguimi!», ma: «Seguimi in
strada!», e le chiede di camminare con Lui, a fianco di tutti i poveri
della terra, soprattutto di quelli che non sanno più dove portino i sentieri
dell'esistenza. Se, dunque, il monastero è per lei semplicemente il mondo
- senza distinzione tra spazi sacri e profani -, nemmeno la preghiera deve più
distinguersi dall'azione, non perché si dimentichino i tempi dell'orazione,
ma perché anche l'azione diventi preghiera. A chi le obietta, secondo
una mentalità assai diffusa, che non è possibile essere tutti
di Dio quando si è chiamati a vivere da laici, in mezzo al mondo, Madeleine
ribatte: «Non è concepibile che un Dio onnipotente, mentre vuole
essere amato, dia ai suoi figli una vita nella quale non possano amarLo».
Ritrovando i più begli insegnamenti di santa Teresa di Lisieux, ma compresi
da laica, scrive: «Ogni piccola azione è un avvenimento
immenso in cui ci è dato il paradiso e in cui possiamo dare il paradiso.
Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere
a macchina. Tutto questo non è che la scorza di una realtà splendida:
l'incontro dell'anima con Dio, incontro ogni minuto rinnovato, ogni minuto che
diventa, nella grazia, sempre più bello per il proprio Dio. Suonano?
Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Una informazione?...
Eccola: è Dio che viene ad amarci. È l'ora di mettersi a tavola?
Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare». Anche Madeleine
era affascinata dalla vocazione missionaria. Ma alla tradizionale descrizione
del missionario vestito di bianco che sbarca su rive lontane e contempla la
lunga distesa delle «terre non ancora battezzate», ella sostituisce
un'altra immagine: “Il missionario, in abito o giacca o in impermeabile,
dall'alto di una scalinata del metrò, vede di gradino in gradino, nell'ora
di punta, una distesa di teste, distesa che freme aspettando l'apertura dei
cancelli: una distesa di baschi, berretti, cappelli, copricapo di tutti i colori.
Centinaia di teste, centinaia di anime. E noi lì in alto. E, più
in alto, dappertutto, Dio...». E quando diceva che si poteva pregare ed
essere missionari anche accalcati nel metrò, intendeva questo: «Signore,
i miei occhi, le mie mani, la mia bocca sono tuoi. / Questa donna così
triste davanti a me: ecco la mia bocca perché tu le sorrida. / Questo
bambino quasi grigio, tanto è pallido: ecco i miei occhi perché
tu lo guardi. / Quest'uomo così stanco: ecco tutto il mio corpo perché
tu gli lasci il mio posto, ed ecco la mia bocca perché tu gli dica dolcemente:
“Sedetevi”. / Questo ragazzo così fatuo, così sciocco,
così duro, ecco il mio cuore perché tu lo ami, più di quanto
non lo sia mai stato...». E, citando san Giovanni della Croce, spiegava:
«Si semina Dio all'interno del mondo, sicuri che germoglierà da
qualche parte, perché: “Dove non c'è amore, mettete amore
e raccoglierete amore ». E venne il tempo della lotta, quando la Francia
dovette reagire all'aggressione nazista e subire poi la sconfitta e l'occupazione...:
la nazione sembrava distrutta e le città sembravano sfaldarsi. Perfino
le più naturali appartenenze, sociali e familiari, sembravano
essersi dissolte. Già nel corso della guerra, Madeleine diventa, a Ivry,
un punto naturale di aggregazione nella lotta contro la miseria e il disfacimento,
tanto che la città si tramuta in un geniale laboratorio di ricostruzione
(soprattutto a favore delle famiglie) al quale si guarda da tutta la Francia.
Perfino il «Soccorso Nazionale» guarda alla Delbrêl e alla
sua équipe, e le chiede di preparare personale ausiliario per le assistenti
sociali. Ella accetta, ma chiede di educare le giovani “sul campo”,
cioè mettendole al lavoro. Si tratta di una “Veglia d'Armi”
- così intitola un testo destinato alla loro formazione - in cui spiega
che si tratta di imparare ad avvicinare «gente che è stata scorticata
viva» e che perciò soffre solo a sfiorarla; gente che dev'essere
incontrata «con dolcezza». Ma che cos'è la dolcezza?
Spiega: «È ciò che riesce a toccare senza ferire»,
e vuole che le sue assistenti siano «esseri dolci che passano senza scalfire».
Quando manda le sue giovani a «visitare le famiglie», le avverte
che queste non hanno bisogno di essere visitate «come si ispeziona una
valigia alla dogana»: bisogna andare a loro come genitori che visitano
i figli, e fratelli che visitano i fratelli. È un lavoro stressante che
esige coraggio a ritmo continuo (di coraggio «se ne consuma in un'ora
quanto in altri tempi ne bastava per un anno») e che dura ininterrottamente
fino alla Liberazione, che per altro non impedisce l'ultima atrocità:
il bombardamento di Ivry accade dopo che le truppe tedesche sono già
partite. Quando i comunisti tornano al potere, Madeleine spiega loro che è
disposta a lavorare ancora, ma che il suo programma non cambierà, anche
perché esso è assolutamente semplice e completo: «Quel che
mi propongo è la diminuzione delle sofferenze e un accrescimento di felicità».
Dopo due anni, lascia tuttavia il servizio sociale in municipio, sorprendendo
tutti. Si è accorta che la sua piccola comunità risente della
sua eccessiva attività. Ella conosce bene le urgenze sociali che premono
da ogni lato e sente salire, da ogni parte, l'invocazione dei poveri... Ma la
comunità - quella comunità ormai composta di una decina di donne
che guardano a lei come a una guida e a una madre - è per lei
«un sacramento della Presenza di Gesù». Il mondo non deve
guardare a lei e alla sua personale bravura, ma alla piccola comunità
di Cristo. Riconsegnandosi alla sua comunità, Madeleine vuole garantirsi
di obbedire al Signore Gesù e non ai propri successi. La comunità
vive in rue Raspail ed è «un enigma scientifico», come dice
un'amica di passaggio. L'unica regola e l'unico ideale è la carità
fraterna, come segno dell'amore di ciascuna a Cristo: ognuna poi lavora nel
quartiere accanto ai più poveri, e la casa è un porto di mare
perché la porta è sempre aperta ad ogni incontro, ad ogni dialogo,
disponibile per ogni sostegno. E c'è perfino chi si aggiusta per riuscire
a vivere nei dintorni di quella casa straordinaria: nel giardino, ad esempio,
o nell'appartamentino vicino, o in una mansarda. Così la comunità
si allarga a una congrega variopinta di «amici» e di «fratelli»
che chiedono e danno solidarietà nei campi più disparati. Madeleine
considera quella casa come una persona viva. La chiama «il signor Raspail»
(dal nome della via) e la descrive così: «Il signor Raspail è
un personaggio assai difficile da presentare... è un uomo di mezza età,
né bene né male, piuttosto simpatico, piuttosto malvestito, dall'aria
soddisfatta della sua sorte. Le persone lo giudicano rivoluzionario, i pettegoli
pensano che sia un ex seminarista, i maldicenti suppongono che abbia costumi
equivoci... Tanta gente va da lui e cerca la sua compagnia...». In tale
strana compagnia, il compito proprio di Madeleine sembra quello di far sentire
a ciascuno/a d'essere preferito/a: ella, infatti, sembra possedere una inesauribile
tenerezza per tutti. «Madeleine è il solo essere al mondo che mi
abbia amato in speranza», spiegava un ragazzo disadattato dopo averla
incontrata, e illustrava così la sua splendida formula: «Lei ha
indovinato il mio vero io, sfigurato per tutti, sconosciuto perfino a me stesso,
un io che io stesso odiavo perché mi sentivo incatenato... Grazie a lei
io sono esistito, prima di esistere nella mia coscienza, quando ancora tutti
gli altri mi ignoravano...». Non c'è nulla che Madeleine trascuri:
può inventare un regalo, o una canzone o una scenetta comica, se ciò
serve agli amici. Può immergersi nella preghiera, scrivere un articolo
o una poesia, o dare una conferenza, o battersi per i diritti di qualche perseguitato
politico: il tutto con la stessa foga e la stessa lucida intelligenza; il tutto
con l'evidente «gioia di credere». Intanto la Francia ha un doloroso
sussulto: scopre di essere diventata «una terra di missione» e il
cardinale di Parigi pensa di affrontare il problema della scristianizzazione
delle masse operaie come lo si affronta nei paesi di missione. Così a
Lisieux viene aperto un seminario particolare - posto sotto la protezione di
santa Teresa - che dovrà preparare un nuovo tipo di prete, capace di
andare là dove la fede sembra non solo scomparsa, ma divenuta impossibile:
nelle periferie più abbandonate, nei quartieri operai, nelle fabbriche.
Madeleine esulta perché sembra che la sua originaria intuizione stia
quasi per diventare un progetto che la Chiesa assume in proprio. La nuova esperienza
si dilata, cresce vertiginosamente e dà origine al fenomeno dei preti
che tentano di portare il Vangelo nelle fabbriche, facendosi essi stessi operai,
condividendo le pene, le fatiche, le lotte dei lavoratori. Ma non è facile
farlo senza schierarsi, senza condividere le lotte sociali e politiche, senza
aderire al partito che rappresenta i lavoratori, senza cedere prima o poi all'ideologia
marxista che impera, senza accettare la logica dello scontro e della violenza...
Madeleine vede molti preti - ministri di quel Cristo che ella ama con tutta
se stessa - cedere alla tentazione che ella ben conosce per averla già
subita: quella di mettere a rischio la loro stessa vocazione, lasciandosi trascinare
dagli «ingranaggi accecanti» della lotta di classe. Roma interviene
e, con pronunciamenti successivi, sconfessa l'esperienza dei preti-operai, così
come veniva allora condotta. Madeleine soffre fino in fondo all'anima: da un
lato vorrebbe che quello sforzo generoso di preti generosi - che ella conosce
personalmente ed ammira - venisse compreso e valorizzato, e non accetta i giudizi
superficiali dei troppi benpensanti; dall'altro comprende ancor più le
preoccupazioni della Chiesa che vede ideologizzato e reso di parte il suo ministero
sacerdotale, e teme ormai per la fede dei suoi preti. Per conto suo ella ha
maturato una convinzione: a quella esperienza straordinaria è mancato
il sostegno della preghiera di tutti i cristiani. L'errore è stato di
esporre così i preti, nella trincea più avanzata, senza che tutti
i cristiani si stringessero assieme in una preghiera corale e intensissima per
sostenerli. E un altro problema ancora ella vede: troppo scarso è l'amore
alla Chiesa. Troppo poco gli uomini capiscono che «la Chiesa li ama»
- anche la Chiesa considerata nei suoi aspetti istituzionali e gerarchici -
e troppo poco questa Chiesa si preoccupa di far capire il suo amore per gli
uomini. Nel 1952, sorprendendo tutti, Madeleine decide un viaggio lampo a Roma
che per lei è «una specie di sacramento di Cristo-Chiesa».
E' un vero pellegrinaggio, volutamente faticoso, che ella intraprende perché
«certe grazie non si chiedono né si ottengono, per la Chiesa, se
non a Roma». Due giorni e due notti in treno, tra andata e ritorno, per
fermarsi nella città eterna dodici ore soltanto: le passa quasi tutte
a san Pietro, pregando «a perdita di cuore». Racconterà poi:
«Mi è apparso fino a che punto occorrerebbe che la Chiesa gerarchica
fosse riconosciuta da tutti gli uomini come colei che li ama. Pietro: una pietra
alla quale è chiesto di amare. Ho compreso quanto amore bisognerebbe
far passare nei segni della Chiesa». Quando torna a Ivry viene a sapere
che un amico prete, residente a Roma, venuto a conoscenza del suo viaggio, le
aveva addirittura ottenuto una udienza dal papa, ma poi non era riuscito a contattarla
e il papa aveva atteso invano. L'attaccamento di Madeleine alla Chiesa è
indistruttibile. Ella ne parla sempre come del «Cristo-di-ora».
Nel corpo della Chiesa si deve essere soltanto «cellule viventi e amanti».
«Quando si hanno ragioni per non capire», scrive, «bisogna
pregare due volte, riflettere due volte, scusare due volte quel che non si capisce.
Dove la nostra carità è messa in tentazione, bisogna volere due
volte la carità». L'anno successivo, la tempesta si aggrava ancora;
ella torna a Roma e questa volta può parlare al papa per qualche minuto.
Nella breve risposta, il papa le ripete per tre volte la parola: «Apostolato».
e Madeleine se ne torna via molto colpita da quella strana parola. In
Francia la parola d'ordine è «missione», nessuno usa più
il termine «apostolato», e Madeleine intuisce che c'è qualcosa
di profetico nell'insistenza del pontefice. Si accorge che nel progetto di «missione»,
a cui anch'ella si è appassionata, c'è in primo piano l'annuncio
della Buona Novella e la preoccupazione della salvezza degli uomini, ma che
ne è della preoccupazione «per la gloria di Dio»? Che ne
è della preoccupazione perché Dio sia adorato e amato,
perché Dio «cessi di essere morto» per i marxisti?
Capisce così che una vera missione, condotta alla maniera degli
apostoli, dovrà muoversi su due direttive: risvegliare in sé
e nei credenti il senso dell'adorazione di Dio che vuole essere conosciuto e
amato come una persona viva, e poi testimoniare questo attaccamento a
Lui, occupandosi della salvezza del prossimo. In fondo si tratta ancora
dell'essenziale unità dei due più grandi comandamenti e delle
necessarie priorità nell'amore. Per Madeleine è come scoprire
in sé lo stesso amore di prima ai fratelli più poveri e a quelli
che lottano - e agli stessi marxisti - ma rigenerato da una nuova maternità
ecclesiale. In un suo celebre testo intitolato: «Città marxista,
terra di missione», arriva a scrivere: «Se ti amo, comunista, non
è malgrado la Chiesa, è grazie a lei e in lei!». Intanto
il suo gruppo, la sua piccola comunità, è alla ricerca di una
identità: tutti cominciano a chiedersi quale sia il «posto»
che essa occupa nella Chiesa. C'è chi vorrebbe che Madeleine aggregasse
la sua comunità a qualche ordine religioso già esistente o a qualche
organizzazione ecclesiale. Come si può lasciare una comunità di
vergini, protese all'amore di Cristo e al servizio ecclesiale, senza
nessuna regola e nessuna salvaguardia giuridica? Per fortuna, a Roma, un monsignore
francese che ha una qualche influenza protegge la comunità con la sua
amicizia e la sua guida. Si chiama mons. Veuillot. In seguito diventerà
Cardinale Segretario di Stato di Paolo VI. Nel 1956 costui pone a Madeleine
la domanda decisiva: che cosa pensa «lei stessa, per lei stessa?».
Di getto Madeleine scrive un testo in cui le frasi si susseguono tutte ritmate
da un appassionato: «Avrei voluto...». «Avrei voluto unicamente,
appartenere interamente ed esclusivamente a Gesù, Nostro Signore e nostro
Dio; avrei voluto provare a vivere il suo Vangelo, essere completamente disponibile
alla sua volontà, nel più intimo della Chiesa e per la salvezza
dell'uomo... Avrei voluto che ciò bastasse a spiegare tutto». Senza
saperlo, però, Madeleine non sta soltanto offrendo alla Chiesa un fedele
in più che prende sul serio la vocazione alla santità: sta descrivendo
un «nuovo tipo di cristiano» tutto appartenente a Gesù e
tutto innestato nel mondo. Oggi, perfino i Dizionari di Teologia già
citano tale nuova «tipologia» offerta da Madeleine e sintetizzano
il suo insegnamento in questo testo: «Quando teniamo il Vangelo tra le
mani, dobbiamo pensare che lì abiti il Verbo che vuole farsi carne in
noi, impadronirsi di noi, perché con il Suo cuore innestato nel nostro
cuore e con il Suo Spirito comunicante col nostro spirito, noi diamo nuovo inizio
alla Sua vita in un altro luogo, in un altro tempo, in un'altra società».
E fu vivendo in prima persona questo ideale che ella divenne una maestra di
preghiera: di una preghiera che poteva essere fatta dovunque e che poteva accompagnare
il credente in ogni attimo della giornata Hans Urs von Balthasar - uno tra i
più grandi teologi del nostro tempo - diceva che la personalità
e gli scritti della Delbrêl manifestano qualità contrastanti e
paradossali: da un lato una profonda serietà e dall'altro uno humour
sorridente; da un lato un infantile «sapersi di Dio» e dall'altro
uno forte realismo nelle analisi sociali e psicologiche; da un lato l'appartenenza
ecclesiale vissuta fin nel midollo delle ossa e dall'altro un'assoluta libertà
dai consueti clichés ecclesiastici. Ma spiegava che ella riusciva
a tener uniti questi aspetti contrastanti in forza della qualità straordinaria
della sua preghiera. Quando qualcuno domandava un colloquio a Madeleine, l'incontro
cominciava sempre con qualche minuto di silenzio, il tempo che le occorreva
per accendersi accuratamente una sigaretta. Solo i più intimi sapevano
che quello era il tempo che ella si concedeva per pregare per la persona che
aveva di fronte, prima di cominciare il dialogo. E se l'episodio fa sorridere,
esso appartiene - dal vivo - allo stesso mondo che Madeleine ha descritto in
un libretto di massime da lei attribuite ad Alcide, piccolo monaco che
scopre ogni giorno l'incredibile saggezza che si acquista quando si vive in
familiarità con Dio. «Per chi cerca Dio come lo cercava Mosè»,
spiega Alcide, «anche una scala può trasformarsi in Monte Sinai».
E il fatto di poter trovare Dio sempre, anche fumando una sigaretta, dipendeva
dalla certezza che il piccolo monaco esprimeva così: «Se credi
davvero che il Signore vive con te, dovunque hai un posto per vivere, hai un
posto per pregare». L'importante era saper vincere l'errore più
strano che noi commettiamo, quello che lo stesso Alcide indicava con
la invocazione-domanda: «Mio Dio, se tu sei dappertutto, come mai io sono
così spesso altrove?». Madeleine non voleva «essere altrove»,
nemmeno quando fumava una sigaretta. Negli ultimi anni di vita, ella ebbe la
gioia di intravedere i tempi nuovi, anche se la questione dei «preti operai»
- che si concludeva in quegli anni con la definitiva interdizione dell'esperienza
- la faceva nuovamente soffrire. Dapprima la rallegrò l'avvento di papa
Giovanni XXIII, così caritatevole e semplice che la faceva sentire -
disse - «come una analfabeta del Vangelo». Poi la riempì
d'entusiasmo la celebrazione del Concilio Vaticano II, riflettendo sul quale
trova una delle sue espressioni più belle: «Il cristiano è
“in stato di Chiesa” come è “in stato di grazia”».
Aveva solo sessant'anni e già si sentiva stanca, ma continuava a provare
un'estrema ripugnanza al pensiero della morte. Diceva, sentendosi un po' in
colpa: «Probabilmente sono stata battezzata a metà...», ma
si consolava al pensiero che «anche Gesù provava una specie di
indignazione ogni volta che si trovava davanti alla morte». Ma la sua
capacità di immedesimazione amorosa negli altri era intatta. Una foto
del luglio 1964 (tre mesi prima della morte) la mostra accoccolata a terra di
fronte a una bambinetta, e tra loro c'è una trottola che gira. Il 13
ottobre 1964, a Roma - per la prima volta nella storia della Chiesa - un laico
prendeva la parola nell'aula conciliare, per parlare a tutti i Vescovi del mondo
sul tema dell'Apostolato dei laici... In quello stesso pomeriggio, a
Ivry, Madeleine si accasciava sul suo tavolo da lavoro: se ne era andata senza
disturbare nessuno...
Nel suo messale, le compagne trovarono alcune parole risalenti a dieci anni
prima, e da lei scritte per commemorare il trentesimo anniversario della propria
“conversione”.
Per segnare il proprio radicale abbandono a Dio, maturato in quegli anni, aveva
scritto: “IO VOGLIO CIO' CHE TU VUOI/SENZA CHIEDERMI se lo posso/SENZA
CHIEDERMI se lo desidero/SENZA CHIEDERMI se lo voglio”.
Il programma che lasciava alle sue figlie e a innumerevoli amici - per giungere
a tanta assolutezza - poteva essere espresso con una frase soltanto: “Leggere
il vangelo – tenuto dalle mani della Chiesa – come si mangia il
pane”.
Tratto da Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, P.Gribaudi editore, Torino, 1990
La passione, la nostra passione, sì, noi l'attendiamo.
Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo
viverla con una certa grandezza.
Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che
ne scocchi l'ora.
Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover
essere consumati. Come un filo di lana tagliato
dalle forbici, così dobbiamo essere separati. Come un giovane
animale che viene sgozzato, così dobbiamo essere uccisi.
La passione, noi l'attendiamo. Noi l'attendiamo, ed essa non viene.
Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo
scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di
ucciderci senza la nostra gloria.
Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
è l'autobus che passa affollato,
il latte che trabocca, gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gl'invitati che nostro marito porta in casa
e quell'amico che, proprio lui, non viene;
è il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
è la voglia di tacere e il dover parlare,
è la voglia di parlare e la necessità di tacere;
è voler uscire quando si è chiusi
è rimanere in casa quando bisogna uscire;
è il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
è il disgusto della nostra parte quotidiana,
è il desiderio febbrile di quanto non ci appartiene.
Così vengono le nostro pazienze, in ranghi serrati o in
fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per
noi.
E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando –
per dare la nostra vita – un'occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che come ci sono rami
che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che
i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che se ci son fili di lana
tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno
per giorno si consumano sul dorso di quelli che l'indossano.
Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso:
ce ne sono di sgranati da un capo all'altro della vita.
E' la passione delle pazienze.
Tratto da Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, P.Gribaudi editore, Torino, 1990
Inizia un altro giorno.
Gesù vuol viverlo in me. Lui non si è isolato.
Ha camminato in mezzo agli uomini.
Con me cammina tra gli uomini d'oggi.
Incontrerà
ciascuno di quelli che entreranno nella mia casa,
ciascuno di quelli che incrocerò per la strada,
altri ricchi come quelli del suo tempo, altri poveri,
altri eruditi e altri ignoranti,
altri bimbi e altri vegliardi,
altri santi e altri peccatori,
altri sani e altri infermi.
Tutti saranno quelli che egli è venuto a cercare.
Ciascuno, colui che è venuto a salvare.
A coloro che mi parleranno, egli avrà qualche cosa
da dire.
A coloro che verranno meno, egli avrà qualche cosa
da dare.
Ciascuno esisterà per lui come se fosse il solo.
Nel rumore egli avrà il suo silenzio da vivere.
Nel tumulto, la sua pace da portare.
Gesù, in tutto, non ha cessato di essere il Figlio.
Vuole in me rimanere legato al Padre.
Dolcemente legato,
ogni secondo,
sospeso su ciascun secondo,
come un sughero sull'acqua.
Dolce come un agnello
di fronte a ogni volontà del Padre.
Tutto sarà permesso in questo giorno che viene,
tutto sarà permesso ed esigerà che io dica il mio sì.
Il mondo dove Lui mi lascia per esservi con me
non può impedirmi di essere con Dio;
come un bimbo portato sulle braccia della madre
non è meno con lei
per il fatto che lei cammina tra la folla.
Gesù, dappertutto, non ha cessato d'essere inviato.
Noi non possiamo esimerci d'essere,
in ogni istante,
gl'inviati di Dio nel mondo.
Gesù in noi, non cessa di essere inviato,
durante questo giorno che inizia,
a tutta l'umanità, del nostro tempo, di ogni tempo,
della mia città e del mondo.
Attraverso i fratelli più vicini ch'egli ci farà
servire amare salvare,
le onde della sua carità giungeranno
sino in capo al mondo,
andranno sino alla fine dei tempi.
Benedetto questo nuovo giorno che è Natale
per la terra,
poiché in me Gesù vuole viverlo ancora.
Tratto da Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, P.Gribaudi editore, Torino, 1990
Tu ci hai condotto stanotte in questo bar che ha nome "chiaro
di luna".
Volevi esserci Tu, in noi,
per qualche ora, stanotte. Tu hai voluto incontrare,
attraverso le nostre povere sembianze,
attraverso il nostro miope sguardo,
attraverso i nostri cuori che non sanno amare,
tutte queste persone venute ad ammazzare il tempo.
E poiché i Tuoi occhi si svegliano nei nostri
E il tuo Cuore si apre nel nostro cuore,
noi sentiamo il nostro labile amore aprirsi in noi
come una rosa espansa,
approfondirsi come un rifugio immenso e dolce
per tutte queste persone,
la cui vita palpita intorno a noi.
Allora il bar non è più un luogo profano,
quell'angolo di mondo che sembrava voltarti le spalle.
Sappiamo che, per mezzo di Te, noi siamo diventati
la cerniera di carne,
la cerniera di grazia,
che lo costringe a ruotare su di sé ,
a orientarsi suo malgrado
e in piena notte
verso il Padre di ogni vita.
In noi si realizza il sacramento del Tuo amore.
Ci leghiamo a Te
Con tutta la forza della nostra fede oscura,
ci leghiamo a loro
con la forza di questo cuore che batte per Te,
Ti amiamo,
li amiamo,
perché si faccia di noi tutti una cosa sola.
In noi, attira tutto a Te…
Attira il vecchio pianista,
dimentico del posto in cui si trova,
che suona soltanto per la gioia di suonare;
la violinista che ci disprezza e offre in vendita
ogni colpo d'archetto,
il chitarrista e il filarmonicista
che fan della musica senza saperci amare.
Attira quest'uomo triste, che ci racconta storie cosiddette gaie.
Attira il bevitore che scende barcollando
la scala del primo piano;
attira questi esseri accasciati, isolati dietro un tavolo
e che son qui soltanto per non essere altrove;
attirali in noi perché incontrino Te,
Te cui solo è il diritto di aver pietà.
Dilataci il cuore, perché vi stiano tutti;
incidili in questo cuore,
perché vi rimangano scritti per sempre.
Tu fra poco ci condurrai
Sulla piazza ingombra di baracconi da fiera.
Sarà mezzanotte o più tardi.
Soli resteranno sul marciapiede
Quelli per cui la strada è il focolare,
quelli per cui la strada è la bottega.
Che i sussulti del Tuo cuore affondino i nostri
Più a fondo dei marciapiedi,
perché i loro tristi passi
camminino sul nostro amore
e il nostro amore
gl'impedisca di sprofondare più a fondo
nello spessore del male.
Resteranno, intorno alla piazza,
tutti i mercanti di illusioni,
venditori di false paure, di falsi sports,
di fase acrobazie, di false mostruosità.
Venderanno i loro falsi mezzi di uccidere la noia,
quella vera, che rende simili tutti i volti scuri.
Facci esultare nella Tua verità e sorridere loro
Un sorriso sincero di carità.
Più tardi saliremo sull'ultimo metrò.
Delle persone vi dormiranno.
Porteranno impresso su di sé
Un mistero di pena e di peccato.
Sulle banchine delle stazioni quasi deserte,
anziani operai,
deboli, disfatti, aspetteranno che i treni si fermino
per lavorare e riparare le vie sotterranee.
E i nostri cuori andranno sempre dilatandosi,
sempre più pesanti
del peso di molteplici incontri,
sempre più grevi del Tuo amore,
impastati di Te,
popolati dai nostri fratelli, gli uomini.
Perché il mondo
Non sempre è un ostacolo a pregare per il mondo.
Se certuni lo devono lasciare per trovarlo
E sollevarlo verso il cielo,
altri visi devono immergere
per levarsi
con lui
verso il medesimo cielo.
Nel cavo dei peccati del mondo
Tu fissi loro un appuntamento:
incollati al peccato,
con Te essi vivono
un cielo che li respinge e li attira.
Mentre Tu continui
A visitare in loro la nostra scura terra,
con Te essi scalano il cielo,
votati a un'assunzione pesante,
inguaiati nel fango, bruciati dal Tuo spirito,
legati a tutti,
legati a Te,
incaricati di respirare nella vita eterna,
come alberi con radici che affondano.
Tratto da AAVV, La solitudine, AVE (Roma 1966)
Come colui che lascia Parigi per il deserto sorride da lontano
alla solitudine; come il viaggiatore che attende con cuore ansioso le lunghe
giornate al mare; come il monaco che accarezza con gli occhi i muri della sua
clausura, così, fin dal mattino, apriamo la nostra anima alle piccole
solitudini della giornata.
Perché le nostre piccole solitudini sono grandi, esaltanti, sante al
pari di tutti i deserti del mondo; esse, che sono abitate da Dio stesso, il
Dio che fa santa la solitudine.
Solitudine del nero asfalto che separa la nostra casa dalla fermata del tram,
solitudine di un banchetto al quale altri esseri portano la loro parte di mondo,
solitudine dei lunghi corridoi in cui scorre il flusso continuo di tutte le
vite in cammino verso una nuovo giornata. Solitudine dei momenti in cui, accovacciati
davanti alla stufa, si attende la fiamma del pezzetto di legna prima di mettere
il carbone; solitudine della cucina davanti alla pentola dei legumi. Solitudine
quando si lucida ginocchioni il pavimento, lungo il sentiero dell'orto in cui
si va a cogliere un mazzo d'insalata. Piccole solitudini della scala che si
scende e si sale cento volte al giorno. Solitudine delle lunghe ore di bucato,
di rammendo, di stiratura.
Solitudini che potremmo temere e che sono lo svuotamento del nostro cuore: persone
care che se ne vanno e che vorremmo con noi; amici che si aspettano e che non
arrivano; cose che si vorrebbero dire e che nessuno ascolta; estraneità
del nostro cuore in mezzo agli uomini.
Il primo passo verso la solitudine è una partenza. Il vero deserto lo
si raggiunge, nel duplice senso del termine, prendendo il treno, la nave o l'aereo.
Noi non sappiamo distinguere le numerose piccole partenze che si susseguono
in una giornata perché non arriviamo mai alle solitudini che sono nostre,
alle solitudini che ci sono state preparate. Per il solo fatto che uno stato
di solitudine non è separato da noi che dallo spessore di una porta o
dal periodo di un quarto d'ora, non gli riconosciamo il suo valore di eternità,
non lo prendiamo sul serio, non lo affrontiamo come un complesso unitario, adatto
alle rivelazioni essenziali.
Poiché il nostro cuore non sa attendere, i pozzi di solitudine di cui
sono disseminate le nostre giornate ci rifiutano l'acqua vitale di cui traboccano.
Noi abbiamo la superstizione del tempo.
Se “il nostro amore richiede tempo”, l'amore di Dio si fa gioco
delle ore, e un'anima disponibile può essere sconvolta da Lui in un istante.
“Ti condurrò nella solitudine e parlerò al tuo cuore”.
Se le nostre solitudini sono per noi dei cattivi conduttori della Parola, è
perché il nostro cuore è assente.
*****
Non c'è solitudine senza silenzio.
Il silenzio è talvolta tacere, ma è sempre ascoltare. Un'assenza
di rumore che fosse vuota della nostra attenzione alla parola di Dio non sarebbe
silenzio. Una giornata piena di rumori, piena di voci, può essere una
giornata di silenzio se il rumore diventa per noi l'eco della presenza di Dio,
se le parole sono per noi messaggi e sollecitazioni di Dio.
Quando parliamo di noi stessi, quando parliamo tra noi, usciamo dal silenzio.
Quando ripetiamo con le nostre labbra gli intimi suggerimenti della Parola di
Dio nel profondo di noi stessi, lasciamo il silenzio intatto.
Il silenzio non ama la confusione delle parole.
Sappiamo parlare o tacere, ma non sappiamo accontentarci delle parole necessarie.
Oscilliamo senza posa tra un mutismo che affossa la carità e una esplosione
di parole che svia la verità.
Il silenzio è carità e verità.
Esso risponde a colui che chiede qualcosa, ma non dà che parole cariche
di vita. Il silenzio, come tutti gli impegni della vita, ci induce al dono di
noi stessi e non ad un'avarizia mascherata. Ma esso ci tiene uniti per mezzo
di questo dono. Non ci si può donare quando ci si è sprecati.
Le vane parole di cui rivestiamo i nostri pensieri sono un continuo sperpero
di noi stessi.
“Vi sarà chiesto conto di ogni parola”.
Di tutte quelle che bisognava dire e che la nostra avarizia ha frenato.
Di tutte quelle che bisognava tacere e che la nostra prodigalità avrò
seminato ai quattro venti della nostra fantasia o dei nostri nervi.
*****
Anche se il gruppo appartiene a Dio, anche se non esiste che per questo, è
ciascuno di noi che appartiene unicamente e totalmente solo a Gesù Cristo,
Dio e Signore.
Ciò comporta che, se non siamo stati chiamati a una certa solitudine,
non saremo al nostro posto qui.
Ci sono molti modi di concepire i consigli evangelici e gli insegnamenti di
Cristo, senza per questo essere in disaccordo con la Chiesa.
Ci sono una povertà, un celibato, un'obbedienza, che non portano con
sé una solitudine. Si può per esempio, scegliere il celibato per
essere più disponibili al prossimo, a un certo prossimo, facendo di questo
celibato un dono a Dio.
Al contrario, una religiosa contemplativa sceglierà il celibato a causa
di Dio ed ella sa che il suo prossimo visibile, tangibile, sarà ridotto.
Per noi, c'è il rischio dell'equivoco.
Se scegliamo il celibato è per appartenere al Signore; per appartenere,
con Lui, per Lui ed in Lui, a coloro che egli ama come noi e che dobbiamo amare
come noi stessi.
Qui corriamo il rischio di due errori che un giorno o l'altro ci daranno delle
sorprese se non ci sono state svelate: o, avendo scelto il Signore, non avremo
compreso che egli ci riservasse un prossimo così grande; oppure, avendo
accettato fin dall'inizio il prossimo che egli ci prometteva, saremo stupiti,
ad un certo momento, che la terra ci appaia, per così dire, spopolata.
Ora, nell'una o nell'altra ipotesi, il Signore non ci dà alcuna garanzia.
Dobbiamo dunque essere preparati ad entrambe. E ciò che dico del celibato
potrei dirlo ugualmente di tutte le altre esigenze evangeliche, quando esse
saranno accettate o scelte da Cristo, o perché servano a qualcuno dei
fini cui egli le ha designate.
L'equivoco per noi aumenta, per il fatto che ci aspettiamo una solitudine quando
si tratta di un'altra; per il fatto che non sappiamo fino a qual punto un semplice
avvenimento fa sì che quelli che ci circondano rimangano nostro “prossimo”
pur diventando estranei e talvolta ostili.
La solitudine di cui si tratta non ci sarà mai risparmiata o, se fosse,
sarebbe una grande sventura, perché essa non è scindibile dalla
nostra appartenenza al Signore. Non aver conosciuto questa solitudine nella
nostra vita sarebbe un segno che tra noi e Dio qualcosa si è spezzato.
E', innanzitutto in noi che la ritroveremo. Un celibe normale trascina con sé
per tutta la vita la coppia di cui era la metà; il suo “complemento”
lo segue come un'ombra, anonima per alcuni, con volti via via diversi per altri.
Bisogna prender coscienza della solitudine: essa è utile a condizione
che sia assunta volontariamente e, da questo momento, pienamente individuata,
portata con gioia da un essere libero, contento di scegliere liberamente ciò
che preferisce, anche se fa soffrire. Malgrado ciò, dobbiamo sapere che
in certi giorni essa sarà terribile, crudelmente faticosa: sarà
quando avremo una grande gioia o una grande stanchezza da condividere.
Accettare la solitudine di qualche momento, avendola preferita di propria volontà,
costituirà forse, in punto di morte, la prova d'amore meno falsata che
potessimo offrire a Dio.
Ma la solitudine non verrà soltanto in noi. Più una vita diventa
apostolica, più essa diventa, in qualche modo, solitaria.
L'amore apostolico, infatti, conosce come si conosce ciò che si ama,
e non può non creare legami. I peccatori, o gli indifferenti, gli increduli,
gli atei che noi amiamo in tal modo, sono per noi un prossimo sensibilmente
vicino. Ma ciò che li rende “apostolicamente” più
vicini è ciò in cui essi differiscono da noi e che crea tra noi
e loro delle zone di solitudine.
La solitudine sarà tanto più difficile da sopportare, e sembrerà
più anormale, quanto più si imporrà al livello delle relazioni
più cordiali e delle amicizie più calorose. In quel momento, se
non ci si sarà messi in guardia, essa potrà diventare una tentazione
pericolosa o creare un clima favorevole alle tentazioni.
Dobbiamo guardare sotto un aspetto positivo la solitudine; sia quella di cui
stiamo parlando, sia quella di cui si va in cerca in qualche “deserto”.
Perché se certuni cercano dei deserti, è bene sappiano che la
solitudine imposta, trovata in sé stessi è un bene.
Che la solitudine sia un bene è una verità ce richiede tempo per
essere appresa; che la solitudine sia inevitabile per l'uomo è una verità
che si apprende più alla svelta, e a maggior ragione, da parte del cristiano.
L'uomo tende sempre, anche di fronte a colui che egli ama di più, verso
una solitudine inevitabile che racchiude in sé qualcosa di ciascuno.
Il cristiano, dall'altra estremità di se stesso, quella medesima che
lo separa dagli increduli, va contro ciò che, in Dio, si manifesta alla
sua ragione senza che questa faccia appello alla fede. E' tutto ciò che,
per l'uomo lasciato a sé stesso, gli fa apparire Dio come un estraneo.
E' questo primo incontro con la solitudine che il cristiano deve salutare come
il vero punto d'incontro col Signore. Dovremo fare di questa solitudine iniziale,
accresciuta di ciò che le nostre condizioni di vita vi apporteranno,
un luogo prediletto in cui Dio viene a raggiungerci. Molte tristezze umane sono
solitudini. Se rendiamo a Dio l'onore della nostra gioia, è perché
tutte le nostre solitudini saranno state colmate da lui.
La vita di fraternità con gli altri deve aiutarci a trovare, a conservare,
ad amare la nostra solitudine. Se non diamo importanza ai mezzi che essa ci
offre, rischiamo di non riconoscerli quando ce li troveremo dinanzi.
Accanto all'idea di unità, al desiderio di realizzarla, c'è tutta
una folla di ansie che, una volta espresse, sono per noi i segni della solitudine,
una specie di indicatori della solitudine.
Non saremmo donne se, ad un certo momento, non soffrissimo amaramente per non
essere comprese da qualche nostra sorella o, il che è lo stesso, da tutte.
Ora, in ognuno, c'è qualcosa che non sarà mai compreso da nessuno.
Questo qualcosa è la causa stessa della nostra solitudine, della solitudine
che ci è connaturale. E' questa solitudine rudimentale che dobbiamo accettare
in primo luogo.
I modi per non accettarla sono diversi. Per alcuni sarà il ripiegamento
su se stessi, il silenzio (ma non quello buono), l'atteggiamento classico dell'”incompreso”.
Per altri sarà, al contrario, l'accanimento a spiegare a se stessi o,
più spesso, a far comprendere l'ultima delle ultime sfumature del proprio
modo di pensare. Nell'uno e nell'altro caso, ciascuno si cristallizzerà,
sia nel silenzio, sia nella parola, il che gli darà l'impressione di
una discordanza; in realtà, è una nota di noi stessi che nessun
orecchio umano potrà mai intendere.
Il giorno in cui comprenderemo che la falla insanabile tra noi e gli altri è
– attraverso tutti gli amori, tutte le influenze, tutte le prove –
il luogo di ciò che ci fa essere quello che siamo; quando avremo compreso
che è in questo stesso luogo che Dio ci parla chiamandoci per nome, avremo
operato il grande capovolgimento che fa della cattiva solitudine una solitudine
benedetta.
*****
In una città comunista, quello che può colpirci più sensibilmente
è spesso la scomparsa di un Dio fin allora manifesto, apparente per noi.
Questa scomparsa ha per emblema una totale “inutilità” di
Dio che esplode nella vita dei comunisti ed in quella della città in
quanto tale.
Come corollario a questo stato di cose si verifica un' “epifania”
dell'uomo, del suo valore, della sua potenza, del suo destino collettivo. Perché
se un ambiente comunista tutto particolare come per esempio quello di Ivry (con
responsabili nazionali, regionali e locali, tutti dottrinalmente formati secondo
il grado delle loro responsabilità) è la dimostrazione, ad un
tempo, di virtù umane indispensabili e di una efficacia umana in pieno
lavorio, sembra che non ci si curi affatto di Dio, ed è come se Dio non
mancasse a nessuno ed a nessuna cosa.
Un tale ambiente può metterci in una tentazione nella quale non
riconosciamo la prova . Tentazione tanto più forte in quanto possiamo
man mano vedere, con gli occhi dei nostri compagni e dei nostri amici, quelli
che altre volte erano per noi segni di Dio.
Questi segni ci appaiono allora illeggibili per colui che non sa in anticipo
ciò che essi vogliono dire.
Nello stesso tempo, nonostante i più grandi affetti, ci accorgiamo di
diventare estranei agli altri proprio per la fede che ce li fa amare sempre
di più. Può accadere, a questo punto, che noi accusiamo apertamente
o sottovoce la fede di essere estranea al nostro mondo. E' una grande sofferenza.
Se non vediamo, sotto le apparenze della tentazione, la prova necessaria, possiamo
soccombere molto facilmente. Ma se, al contrario, crediamo in colui che, avendoci
chiamati, “è fedele”; se ci lasciamo ammaestrare da lui,
egli ci dirà in questo caso ciò che abbiamo dimenticato, ciò
che non abbiamo mai saputo per essere dei convertiti viventi: “La fede
è un dono di Dio”.
La fede, dono di Dio, estranea al mondo, è data al mondo. Credere è
stabilire, tra la fede e il mondo, un'alleanza eterna: se essa fa sorgere dei
fedeli, non si tratta di una fedeltà di sangue, di patria o di persona,
ma d'una fedeltà personale al Dio vivente che chiama ed al quale colui
che è chiamato deve rispondere liberamente e sempre, col suo cuore di
uomo libero.
Alla chiamata, come alla risposta, è necessaria la solitudine; essa non
è più tentazione, ma l'indispensabile punto di contatto con Dio.
La preghiera rinsalda le sue radici. La nostra visione di ogni comunità
nella Chiesa si trasforma. Gli alberi che debbono insieme formare una foresta
vivono ciascuno delle sue radici solitarie. Impariamo che Dio, per proporci
la fede, chiama ciascuno col suo nome, che la fede non è un privilegio
dovuto all'eredità o alla nostra buona condotta, che essa è la
grazia di sapere che Dio fa grazia; la grazia di essere, nel mondo, votati col
Cristo alla sua missione di redenzione.
Messi di nuovo in stato di conversione, impariamo che la fede nel Figlio di
Dio e nel Figlio dell'uomo ci lega indissolubilmente a Dio che la dona e all'uomo,
all'uomo della creazione, all'umanità tutta intera. Perché anche
noi possiamo dire di essere “uno per tutti”. E' per tutti che ciascuno
di noi riceve la fede.
La solitudine in cui Dio ci ha spinti ci rende consapevolmente solidali con
ogni uomo che viene in questo mondo, con tutte le nazioni che Cristo convocherà
nell'ultimo giorno.