Riprendiamo dal sito www.oratoriosanfilippo.org la traduzione della relazione che l’allora cardinal Joseph
Ratzinger tenne nel centenario della morte di Newman (1990) nel corso del simposio organizzato dal Centro
degli Amici di Newman il 28 aprile 1990. Il testo è stato pubblicato in Euntes Docete, Commentaria
Urbaniana, Roma, XLIII/1990/3, p. 431 - 436. L’originale in tedesco Newman gehört zu den
großen Lehrern der Kirche, in John Henry Newman Lover of Truth, a cura del Centro degli Amici di
Newman, Urbaniana University Press, Roma 1991, pp. 141-146. Il Copyright è del Centro internazionale degli
Amici di Newman.
In appendice alcuni brani di J. Ratzinger su Newman raccolti sempre dal sito sopra menzionato.I neretti sono
nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line
Il Centro culturale Gli scritti (24/1/2009)
Io non mi sento competente per parlare della figura o dell'opera di John Henry Newman, ma forse può essere
interessante che mi soffermi un po' sul mio personale approccio a Newman, nel quale si riflette anche
qualcosa dell'attualità di questo grande teologo inglese nelle controversie spirituali del nostro
tempo.
Quando nel gennaio 1946 potei iniziare il mio studio della teologia nel seminario della Diocesi di Frisinga,
finalmente riaperto dopo gli sconvolgimenti della guerra, fu stabilito che al nostro gruppo fosse assegnato come
prefetto uno studente più anziano, il quale già prima che iniziasse la guerra aveva cominciato a
lavorare ad una dissertazione sulla teologia della coscienza di Newman. Durante tutti gli anni del suo impegno in
guerra egli non aveva lasciato cadere dai suoi occhi questo tema, che ora riprendeva con nuovo entusiasmo e nuova
energia.
Fin dall'inizio ci legò un'amicizia personale, che si concentrava tutta attorno ai grandi problemi della
filosofia e della teologia. Va da sé che Newman fosse sempre presente in questo scambio. Alfred
Läpple, era lui infatti il prefetto summenzionato, pubblicò poi nel 1952 la sua dissertazione, col
titolo Il singolo nella Chiesa. La dottrina di Newman sulla coscienza divenne allora per noi il
fondamento di quel personalismo teologico, che ci attrasse tutti col suo fascino. La nostra immagine dell'uomo,
così come la nostra concezione della Chiesa, furono segnate da questo punto di partenza. Avevamo
sperimentato la pretesa di un partito totalitario, che si concepiva come la pienezza della storia e che negava la
coscienza del singolo. Hermann Goering aveva detto del suo capo: «Io non ho nessuna coscienza! La mia
coscienza è Adolf Hitler»[1]. L'immensa rovina dell'uomo che ne derivò, ci stava davanti agli occhi.
Perciò era un fatto per noi liberante ed essenziale da sapere, che il "noi" della Chiesa non si fondava
sull'eliminazione della coscienza, ma poteva svilupparsi solo a partire dalla coscienza. Tuttavia proprio
perché Newman spiegava l'esistenza dell'uomo a partire dalla coscienza, ossia nella relazione tra Dio e
l'anima, era anche chiaro che questo personalismo non rappresentava nessun cedimento all'individualismo, e che il
legame alla coscienza non significava nessuna concessione all'arbitrarietà - anzi che si trattava proprio
del contrario.
Da Newman abbiamo imparato a comprendere il primato del Papa: la libertà di coscienza - così
ci insegnava Newman con la Lettera al Duca di Norfolk - non si identifica affatto col diritto di
«dispensarsi dalla coscienza, di ignorare il Legislatore e il Giudice, e di essere indipendenti da
doveri invisibili». In tal modo la coscienza, nel suo significato autentico, è il vero fondamento
dell'autorità del Papa. Infatti la sua forza viene dalla Rivelazione, che completa la coscienza naturale
illuminata in modo solo incompleto, e «la sua raison d'être è quella di essere il campione
della legge morale e della coscienza»[2].
Questa dottrina sulla coscienza è diventata per me sempre più importante nello sviluppo successivo
della Chiesa e del mondo. Mi accorgo sempre di più che essa si dischiude in modo completo solo in
riferimento alla biografia del Cardinale, la quale suppone tutto il dramma spirituale del suo secolo.
Newman, in quanto uomo della coscienza, era divenuto un convertito; fu la sua coscienza che lo condusse dagli
antichi legami e dalle antiche certezze dentro il mondo per lui difficile e inconsueto del cattolicesimo.
Tuttavia, proprio questa via della coscienza è tutt'altro che una via della soggettività che
afferma se stessa: è invece una via dell'obbedienza alla verità oggettiva.
Il secondo passo del cammino di conversione che dura tutta la vita di Newman fu infatti il superamento della
posizione del soggettivismo evangelico, in favore d'una concezione del Cristianesimo fondata
sull'oggettività del dogma[3]. A questo proposito trovo sempre grandemente significativa, ma particolarmente
oggi, una formulazione tratta da una delle sue prediche dell'epoca anglicana. Il vero Cristianesimo si dimostra
nell'obbedienza, e non in uno stato di coscienza. «Così tutto il compito e il lavoro di un cristiano
si organizza attorno a questi due elementi: la fede e l'obbedienza; "egli guarda a Gesù" (Eb 2, 9)... e
agisce secondo la sua volontà. Mi sembra che oggi corriamo il pericolo di non dare il peso che dovremmo a
nessuno dei due. Consideriamo qualsiasi vera e accurata riflessione sul contenuto della fede come sterile
ortodossia, come astruseria tecnica. Di conseguenza facciamo consistere il criterio della nostra pietà nel
possesso di una cosiddetta disposizione d'animo spirituale»[4].
A questo riguardo sono diventate per me importanti alcune frasi prese dal libro Gli Ariani del IV secolo,
che invece a prima vista mi erano sembrate piuttosto sorprendenti: il principio posto dalla Scrittura a
fondamento della pace è «riconoscere che la verità in quanto tale deve guidare tanto la
condotta politica che quella privata... e che lo zelo, nella scala delle grazie cristiane, aveva la
priorità sulla benevolenza»[5]. È per me sempre di nuovo affascinante accorgermi e riflettere come proprio
così e solo così, attraverso il legame alla verità, a Dio, la coscienza riceve valore,
dignità e forza.
In questo contesto vorrei aggiungere solo un'altra espressione tratta dall'Apologia pro vita sua, che
dimostra viceversa il realismo di questa concezione della persona e della Chiesa: «I movimenti vivi non
nascono da comitati»[6].
Vorrei ancora una volta ritornare brevemente al filo autobiografico. Quando nel 1947 proseguii a Monaco i miei
studi, trovai nel professore di teologia fondamentale, Gottlieb Söhngen, il mio vero maestro in teologia, un
colto e appassionato seguace di Newman. Egli ci dischiuse la Grammatica dell'Assenso e con essa la
modalità specifica e la forma di certezza propria della conoscenza religiosa.
Ancora più profondamente agì su me il contributo che Heinrich Fries pubblicò in occasione
del Giubileo di Calcedonia: qui trovai l'accesso alla dottrina di Newman sullo sviluppo del dogma, che ritengo
essere, accanto alla dottrina sulla coscienza, il suo contributo decisivo per il rinnovamento della
teologia[7]. Con
ciò egli mise nelle nostre mani la chiave per inserire nella teologia un pensiero storico, o piuttosto:
egli ci insegnò a pensare storicamente la teologia, e proprio in tal modo a riconoscere l'identità
della fede in tutti i mutamenti. Sono costretto ad astenermi dall'approfondire, in questo contesto, tale
idea.
Mi sembra che il contributo di Newman non sia stato ancora del tutto utilizzato nelle teologie moderne. Esso
contiene in sé ancora possibilità fruttuose, che attendono di essere sviluppate. In questa sede
vorrei solo rimandare ancora una volta allo sfondo biografico di questa concezione. È noto come la
concezione di Newman sull'idea dello sviluppo ha segnato il suo cammino verso il cattolicesimo. Tuttavia non si
tratta qui solo d'uno svolgimento coerente di idee. Nel concetto di sviluppo è in gioco la stessa vita
personale di Newman. Ciò mi sembra che diventi evidente nella sua nota affermazione, contenuta nel famoso
saggio su Lo sviluppo della dottrina cristiana: «qui sulla terra vivere è cambiare, e la
perfezione è il risultato di molte trasformazioni»[8]. Newman è stato lungo tutta la sua vita uno che si
è convertito, uno che si è trasformato, e in tal modo è sempre rimasto lo stesso, ed
è sempre di più diventato se stesso.
Mi viene in mente qui la figura di sant'Agostino, così affine alla figura di Newman. Quando si
convertì nel giardino presso Cassiciaco, Agostino aveva compreso la conversione ancora secondo lo schema
del venerato maestro Plotino e dei filosofi neoplatonici. Pensava che la vita passata di peccato era adesso
definitivamente superata; il convertito sarebbe stato d'ora in poi una persona completamente nuova e diversa, e
il suo cammino successivo sarebbe consistito in una continua salita verso le altezze sempre più pure della
vicinanza di Dio, qualcosa come ciò che ha descritto Gregorio di Nissa in De vita Moysis:
«Proprio come i corpi, non appena hanno ricevuto il primo impulso verso il basso, anche senza ulteriori
spinte, da se stessi sprofondano..., così ma in senso contrario, l'anima che si è liberata dalle
passioni terrene, si eleva costantemente al di sopra di sé con un veloce movimento ascensionale... in un
volo che punta sempre verso l'alto»[9].
Ma la reale esperienza di Agostino era un'altra: egli dovette imparare che essere cristiani significa piuttosto
percorrere un cammino sempre più faticoso con tutti i suoi alti e bassi. L'immagine dell'ascensione
venne sostituita con quella di un iter, un cammino, dalle cui faticose asperità ci
consolano e sostengono i momenti di luce, che noi di tanto in tanto possiamo ricevere. La conversione
è un cammino, una strada che dura tutta una vita. Per questo la fede è sempre sviluppo, e proprio
così maturazione dell'anima verso la Verità, che «ci è più intima di quanta noi
lo siamo a noi stessi».
Newman ha esposto nell'idea dello sviluppo la propria esperienza personale d'una conversione mai conclusa, e
così ci ha offerto l'interpretazione non solo del cammino della dottrina cristiana, ma anche della vita
cristiana. Il segno caratteristico del grande dottore nella Chiesa mi sembra essere quello che egli non
insegna solo con il suo pensiero e i suoi discorsi, ma anche con la sua vita, poiché in lui pensiero e
vita si compenetrano e si determinano reciprocamente. Se ciò è vero, allora davvero Newman
appartiene ai grandi dottori della Chiesa, perché egli nello stesso tempo tocca il nostro cuore e illumina
il nostro pensiero.
© CENTRO INTERNAZIONALE DEGLI AMICI DI NEWMAN
Non esito a dire che la verità sta al centro della sua ricerca spirituale: la coscienza è centrale
per lui perché lo è la verità. In altre parole: la centralità del concetto di
coscienza in Newman deriva dalla centralità del concetto di verità, e solo in base ad essa si
può comprendere. La dominanza dell’idea di coscienza non significa che Newman rappresenti una sorta
di filosofia o teologia soggettivistica del XIX secolo, opposta alla neoscolastica “oggettivistica”.
Certo, il soggetto trova in lui un’attenzione che nella teologia cattolica non aveva più
conosciuto forse dal tempo di Agostino; ma è un attenzione nella linea di Agostino, non in quella della
filosofia soggettivistica moderna. Quando fu eletto cardinale Newman confessò che la sua intera vita
era stata una battaglia contro il liberalismo. Potremmo aggiungere: anche contro il soggettivismo cristiano che
trovò nel movimento evangelico del suo tempo, benché questo gli avesse donato il primo stadio del
suo continuo cammino di conversione (Cielo e terra. Riflessioni su politica e fede, p. 32).
Per lui coscienza non significa autodeterminazione del soggetto contro le pretese dell’autorità, in
un mondo senza verità, che vive del compromesso fra le esigenze soggettive e quelle dell’ordine
sociale. Significa piuttosto la presenza percepibile ed imperativa della voce della verità nel soggetto
stesso: la coscienza è l’annullamento della soggettività nel contatto fra
l’intimità dell’uomo e la verità venuta da Dio. È significativo il verso che
scrisse nel 1833, in Sicilia: “Amavo andare per la mia strada, ma ora imploro: guidami!” La sua
conversione al cattolicesimo non fu una questione di gusto personale, di bisogni spirituali soggettivi: ancora
nel 1844, sulla soglia della conversione, diceva: “Nessuno può avere un’opinione peggiore
della mia sullo stato attuale dei cattolici romani…”. Newman riteneva semmai di dover obbedire
più alla verità riconosciuta che al proprio gusto, anche contro i propri sentimenti ed i legami
di amicizia e di lunga collaborazione. Mi sembra significativo che, in una lista delle virtù, egli
sottolinei la preminenza della verità sulla bontà, o per dirlo in modo a noi più
comprensibile: la preminenza della verità sul consenso, sull’accettabilità per il gruppo
(Cielo e terra. Riflessioni su politica e fede, p. 32-33).
[1] Un detto di Hermann Göring, citato in Th. Schieder, Hermann Rauschning «Gespräche mit Hitler» als Geschichtsquelle, Opladen 1972, p. 19, nota 25.
[2] J. H. Newman, Lettera al Duca di Norfolk, Coscienza è libertà, a cura di V. Gambi, Paoline, Milano 1999, p. 226.
[3] Cf. la descrizione accurata di questo cammino in Ch. St. Dessain, John Henry Newman.Anwalt redlichen Glaubens, Freiburg 1980; cf. anche G. Biemer, J. H. Newman 1801-1890.Leben und Werk, Mainz 1989.
[4] J. H. Newman, Parochial and Plain Sermons II, Longmans, Green and Co., London 1966, p. 153s.
[5] J. H. Newman, Gli Ariani del IV secolo, Jaca Book, Morcelliana, Milano-Brescia 1981, p. 188s.
[6] J. H. Newman, Apologia pro vita sua, a cura di F. Morrone, Paoline, Milano 2001, p. 177.
[7] H. Fries, Die Dogmengeschichte des
fünften Jahrhunderts im theologischen Werdegang von J. H. Newman, in A. Grillmeier - H. Bacht (Hrsg.),
Das Konzil von Chalkedon, Bd. III Chalkedon heute,
Würzburg 1954, p. 421-454.
[8] J.H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Jaca Book, Milano 2002, p. 75.
[9] Gregorio di Nissa, De vita Moysis, PG 44, 401 A. Per non fraintendere Gregorio bisogna naturalmente accettare quello che dice poi sull’identità intima di star fermo e movimento, di stare in piedi e salire: «Allora accade nello star fermo un salire. Questo significa quanta più fermamente e imperturbabilmente qualcuno persiste nel bene, tanto più egli compie nel cammino della virtù. Chi … non ha una posizione ferma nel bene, viene buttato giù e aggirato dalle onde (Ef 4,14) …, eg1i non raggiungerà mai il culmine della virtù. Così accade anche a coloro che vogliono salire nella sabbia;… poiché … viene raggiunto un movimento ma non si avanza. Se però … qualcuno … poggia i piedi su un terreno solido, li mette sulla roccia, la roccia è però Cristo (1 Cor10,4) …, egli, per quanto … è divenuto inamovibile (1 Cor 15,59), avanzerà più ve1ocemente nel suo cammino, come se egli usasse la sua perseveranza come ali…» (PG 44, 405 C-D). Per l’interpretazione di questi testi di Gregorio è significativa l’introduzione che H. U. von Balthasar premette alla sua traduzione tedesca del commentario al «Cantico dei Cantici»: Gregor von Nyssa, Der versiegelte Quell, Einsiedeln 1984, p. 7-26.