Paolo apostolo e le donne nella Chiesa.
Febe (Rm 16,1-2) e Lidia (At 16,11-15.40)
di Pino Pulcinelli

Mettiamo a disposizione on-line sul nostro sito l’articolo scritto da Pino Pulcinelli per il sito www.bibbiaonline.it I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (18/11/2008)


Indice


Introduzione

Bisogna dire subito che il tema di questa breve ricerca non verte in generale sulla concezione della donna in Paolo apostolo – argomento che torna puntualmente alla ribalta quando si affronta quello più ampio del ruolo della donna nella vita e nel ministero della Chiesa – ma si concentra sull’aspetto specifico del ruolo di collaborazione nell’evangelizzazione che alcune donne hanno avuto nella chiesa nascente di matrice paolina. Quindi non “Paolo e la donna”, ma “Paolo e le donne in quanto collaboratrici nel suo ministero apostolico”.

E tuttavia i due aspetti, quello specifico e quello più generale, sono naturalmente interdipendenti, tanto che risulta indispensabile, prima di focalizzare il discorso sulle due figure che compaiono nel titolo, fornire almeno qualche elemento – necessariamente sommario - che aiuti a ricostruire il quadro storico; negli ultimi decenni questo campo della ricerca ha visto un grande approfondimento, anche grazie all’impulso dell’istanza femminista nella teologia e specificamente nell’esegesi biblica[1].

A questo riguardo Paolo può essere letto e interpretato – come di fatto è successo – in modi opposti, sia come uno dei principali detrattori del ruolo e del ministero della donna nella famiglia e nella chiesa (e pertanto, una delle cause della sua discriminazione nella società di matrice cristiana), oppure come il primo chiaro propugnatore del principio di uguaglianza tra l’uomo e la donna.
E bisogna dire che gli sforzi esegetici non sono riusciti a risolvere del tutto questa palese tensione emergente dai suoi scritti, anzi alcune volte gli studiosi si sono dovuti arrendere di fronte ad affermazioni che prese dal contesto appaiono evidentemente contraddittorie, come vedremo.

Se ci si accinge a studiare i testi che trattano del ruolo della donna nelle prime comunità cristiane, è doveroso fare subito delle precisazioni riguardo alle fonti.
Innanzitutto – con la Schüssler-Fiorenza - si deve ragionevolmente ammettere che “l’effettivo contributo delle donne al movimento missionario cristiano delle origini rimane in larga parte perduto a causa della scarsità delle nostre fonti e del loro carattere androcentrico[2].

Inoltre, se in particolare parliamo di “Paolo e le donne”, va osservato come i testi in questione, che ad una cultura moderna di uguaglianza risultano più “antipatici” nei riguardi delle donne, si trovano soprattutto nelle cosiddette lettere deuteropaoline e pastorali (Col ed Ef, 1-2 Tm e Tt)[3]. Specialmente per queste ultime andrebbe fatto un discorso a parte, in quanto evidentemente riflettono un'epoca diversa, posteriore, con gli autori che manifestano una viva preoccupazione di fronte a delle crisi di carattere dottrinale e autoritativo (cfr. le raccomandazioni a rigettare errori e a "custodire il deposito"; a rispettare le autorità familiari ed ecclesiali, ecc.). Anche la considerazione della donna risente di questo clima di apprensione, così che per favorire la pacificazione e l'ordine ecclesiale, forse in un eccesso di prudenza, si pensa di "restringere il suo campo di azione". Il dramma è che quelle frasi hanno senz'altro influito nell'interpretazione discriminante del ruolo della donna nella chiesa.

Limitando per il momento il campo ai testi paolini ormai comunemente considerati autentici (1Ts, 1-2 Cor, Fil, Fm, Gal, Rm), troviamo delle affermazioni sulle donne soltanto nella 1Cor ai capp. 7, 11 e 14 e in Gal 3,28, e comunque l’argomento non viene mai esplicitamente messo al centro della trattazione; se egli ne parla è per rispondere a domande sul matrimonio (1Cor 7), o per risolvere problemi contingenti, di carattere “disciplinare”, riguardanti cioè il comportamento delle donne nelle assemblee (1Cor 11 e 14); oppure – e qui abbiamo un brano che si staglia su tutti gli altri (Gal 3,28) - per esprimere le sovvertitrici conseguenze del battesimo che realizza l’unità in Cristo conferendo una stessa dignità alle persone, al di là delle differenze etniche (giudei e greci), sociali (schiavi e liberi) e sessuali (uomini e donne).
In altre due lettere, Fil e Rm, nelle sezioni finali, al momento delle raccomandazioni e dei saluti, Paolo nomina alcune donne per nome, attribuendo loro interessanti qualifiche, su cui sarà utile soffermarsi in vista del nostro tema specifico, a proposito cioè del loro ministero di collaboratrici nell’evangelizzazione.

Già da queste premesse si può comprendere come risulti difficile, se non impossibile, partendo da questi brani arrivare a delineare con sufficiente precisione ciò che Paolo stesso non aveva intenzione di fare in tali scritti, e cioè la presentazione del suo “pensiero sulle donne”. Ciò non significa però che non valga la pena vagliare e valorizzare tutti gli elementi presenti; anzi, proprio dal loro studio, soprattutto se inquadrato nella ricostruzione dell’ambiente storico-culturale delle origini cristiane, emerge la ricchezza e la novità di alcune intuizioni dell’apostolo.

Sempre riguardo alle fonti, un discorso a parte dovrà essere fatto per la particolare opera storiografica costituita dagli Atti degli Apostoli, dove troveremo il racconto dell’episodio riguardante Lidia.

Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-35[4]; e in Gal 3,28

Negli scritti sicuramente autentici di Paolo i brani che fanno più problema, specialmente se accostati tra loro, si trovano nella stessa lettera, la 1Cor. Il primo è quello in cui egli tratta dell’acconciatura delle donne nelle riunioni di preghiera (11,2-16), il secondo è quello in cui ordina alle donne di tacere nell’assemblea (14,33b-35)[5].

Per il brano di 1Cor 11,2-16, conosciuto soprattutto con il titolo tradizionale “il velo delle donne”[6], la difficoltà maggiore è data soprattutto dal v. 10, una vera crux interpretum: δια τουτο οφειλει η γυνη εξουσιαν εχει επι της κεφαλης δια τους αγγελους; letteralmente: “per questo la donna è tenuta ad avere un’exousia (potere, autorità) sul capo a causa degli angeli”[7].

Tra le numerose ipotesi interpretative, che non ci mettiamo ora ad elencare e valutare[8], una delle più convincenti è quella in cui “εξουσιαν εχειν” viene tradotto con “avere sotto controllo”, e il resto va inteso in questo senso: “per questo (quando la donna profetizza – cf. v. 5) deve avere sotto controllo la sua acconciatura”; cioè le donne quando fanno interventi pubblici nella comunità (profetizzano o pregano in assemblea) devono tenere un abbigliamento e un’acconciatura decorosa, in particolare devono coprirsi la testa[9]. Questa indicazione di Paolo non avrebbe soltanto l’intenzione di regolare il modo di comportarsi (e di abbigliarsi) delle donne, ma soprattutto di contrastare un tentativo di annullare quelle differenziazioni sessuali – di cui la capigliatura è manifestazione tra le più immediate - insite nella natura stessa; in un ambiente di facili costumi come quello della città di Corinto (in cui era diffusa anche l’omosessualità), quest’uso poteva favorire una certa indistinzione e promiscuità, con gravi e prevedibili conseguenze, sia sul versante morale che su quello della testimonianza.

È per questo, molto probabilmente, che Paolo richiede che la donna che profetizza non deve perdere ciò che per la cultura del tempo rappresenta un contrassegno forte di femminilità. Ma richiedendo questo, allo stesso tempo egli ammette chiaramente che la donna possa parlare pubblicamente nell'assemblea (cf. v. 4); ciò è da tenere presente, quando si va ad interpretare nel capitolo 14 la celebre frase: αι γυναικες εν ταις εκκλησιαις σιγατωσαν; “le donne nelle assemblee tacciano” (14,34; rafforzato subito appresso con: ου γαρ επιτρεπεται αυταις λαλειν; “infatti non è permesso loro di parlare”; e al v. 35: ισχρον γαρ εστιν γυναικι λαλειν εν εκκλησια; “è infatti vergognoso per una donna parlare nell’assemblea”). Come risolvere il problema?

Il fatto che alcuni codici antichi pongono i vv. 34-35 dopo il v. 40 (nessuno però li omette) è segno che hanno creato delle difficoltà nei lettori (e nei copisti). Non è però sufficiente questo indizio per dedurre un’interpolazione post paolina. Accettando questa ipotesi, essa naturalmente risolverebbe il problema alla radice e scagionerebbe di fatto l’apostolo da due grandi accuse: da una parte dall’incoerenza con se stesso (per quanto scritto poco prima al cap. 11) e dall’altra da una disdicevole coerenza con la mentalità corrente sia nel mondo giudaico che in quello ellenistico-romano, decisamente discriminante nei confronti delle donne[10].

Una soluzione da non scartare a priori è quella che sottolinea la diversità di soggetti o di tipo di discorso tra i due brani[11]. In 1Cor 11 si tratterebbe di un parlare orante e profetico (προσευχομενη η προφητευουσα) delle donne, in 1Cor 14 Paolo rimprovererebbe un parlare (λαλειν) disordinato e confusionario che reca disturbo all’assemblea e non la edifica. D’altra parte la stessa ingiunzione a tacere Paolo la usa nei confronti del glossologo se nell’assemblea non c’è chi possa interpretare il suo parlare in lingue con il Signore (14,28).

Un’altra ipotesi che va prendendo piede negli ultimi vent’anni è quella che in questi versetti problematici vede la citazione di uno o più slogan diffusi da chi nella comunità era ostile alla partecipazione attiva delle donne (gruppo che Paolo dunque non appoggerebbe)[12]. Senza escludere questa che è ritenuta da numerosi studiosi la migliore ipotesi, bisogna dire però che non c’è traccia, né nella grammatica e nemmeno nella sintassi, dell’inizio di un discorso diretto.

Alla fine del suo lungo e approfondito studio su questo brano, così conclude Biguzzi: “Tutto quello che nei secoli si è tentato di dire riguardo a 1Cor 14,33b-35 sembra insoddisfacente” (p. 153).

Qui più che mai vale allora il principio generale che occorre far attenzione a non isolare un testo, tanto più bisogna guardarsi dall’assolutizzarlo e poi identificare il pensiero di chi l’ha scritto con quel testo lì. Quindi è sicuramente sbagliato – oltre che improprio dal punto di vista metodologico e contenutistico – prendere questo testo (mulieres in ecclesiis taceant) per riassumere il pensiero di Paolo sulle donne.

Se si volesse per forza sceglierne uno che esprima i principi ispiratori, al di là di questioni disciplinari contingenti, allora non c’è dubbio che occorra riferirsi a Gal 3,28 [in un contesto in cui si parla dell’essere “figli di Dio” proprio dei battezzati, rivestiti di Cristo e appartenenti a lui, cf. 3,26-29][13]:

ουκ ενι Ιουδαιος ουδε Ελλην
Non c'è giudeo né greco;

ουκ ενι δουλος ουδε ελευθερος
non c'è schiavo né libero

ουκ ενι αρσεν και θηλυ
non c'è maschio e femmina

παντες γαρ υμεις εις εστε εν Χριστω Ιησου
tutti voi infatti uno siete in Cristo Gesù.

In questo che è probabilmente un testo o inno battesimale diffuso presso le prime comunità cristiane[14], ci sono tre binomi formati da opposti che trovano in Cristo il proprio superamento: c’è la dicotomia che è insieme etnica, culturale e religiosa: giudeo / greco; quella sociale-classista: schiavo / libero; e infine la dicotomia sessuale maschio / femmina; da notare che la scelta di usare i due neutri αρσεν και θηλυ, cioè maschio e femmina, invece che uomo / donna sembrerebbe addirittura voler annullare la differenza che è insita nella natura stessa[15]. In realtà dal contesto si evince che questo binomio vuolesoprattutto sottolineare come l’essere in Cristo (attraverso la fede e il battesimo) è ora il criterio nuovo che informa i rapporti interpersonali e conferisce uguale dignità alle persone, indipendentemente da tutti i condizionamenti, anche quelli sessuali.

Queste categorie, assieme a quelle espresse dai primi due binomi, non possono più avere un influsso discriminante sulla persona[16]. L’affermazione di Gal 3,28 è dunque molto forte, e il principio del superamento delle discriminazioni che viene propugnato costituisce indubbiamente uno dei fondamenti essenziali del cristianesimo: da questo punto non si può più tornare indietro[17].

È interessante infine confrontare l’affermazione di Gal 3,28 con il testo di 1Cor 7: infatti lì – mentre si sta trattando dello status in cui si viene chiamati - si ritrovano chiari elementi dello stesso triplice binomio: il “circonciso/incirconciso” del v. 18 (περιτετμηνος τις εκληθη μη επισπασθω εν ακροβυστια κεκληται τις μη περιτεμνεσθω) corrisponde a giudeo/greco; l’altra esatta corrispondenza l’abbiamo nei termini schiavo/libero dei vv. 21-22; l’ultimo binomio, “non c’è più né uomo né donna”, non compare tale e quale, ma a ben vedere è presente a più riprese in tutto il capitolo, quando Paolo – in modo sorprendente e innovativo rispetto alla cultura circostante – non fa altro che applicare a casi concreti proprio quel principio di uguaglianza e di reciprocità tra l’uomo e la donna (più specificamente, moglie/marito)[18] espresso a chiare lettere in Gal 3,28[19]. In questo senso si può affermare che Paolo con Gal 3,28 non rimane a livello di teoria, ma viene da lui stesso messo in pratica nel disciplinare la vita della comunità.

Un'altra osservazione – che malgrado la sua ovvietà conviene ribadire – è quella che in casi come questi va considerato il condizionamento storico e culturale di tali pronunciamenti in campo disciplinare: essi sono stati scritti in occasione di vicende contingenti e circoscritte a quel particolare periodo storico della chiesa e non vanno perciò indiscriminatamente considerati normativi per la chiesa di oggi (e quando purtroppo lo si è fatto non è stato certamente un bene per la chiesa); non siamo infatti di fronte a principi dottrinali generali, la cui validità si estenderebbe a tutte le epoche, ma a indicazioni fortemente influenzate dalle situazioni e problemi concreti di determinate comunità paoline.

Da questa base di partenza è praticamente impossibile affermare che Paolo in via di principio chieda che le donne tacciano nell’assemblea; ogni seria ricostruzione della condizione della donna nelle prime comunità cristiane di matrice paolina non può non tenerne conto.

Infine, un argomento molto importante, difficilmente conciliabile con il mulieres in ecclesiis taceant è la prassi stessa di Paolo che emerge sia dalle lettere che dagli Atti degli Apostoli, e qui arriviamo al nostro tema specifico.

Le collaboratrici nell’apostolato

Le lettere autentiche di Paolo contengono – specialmente nella loro parte finale – numerosi accenni a persone menzionate con il loro nome, spesso accompagnati da brevi titoli e osservazioni, che studiati singolarmente e nel loro contesto, si sono rivelati preziosi per ricostruire il quadro della situazione storica delle prime comunità cristiane, e in particolare il ruolo delle donne nel ministero apostolico.

Ad esempio, nella lettera ai Filippesi Paolo nomina due donne, Evodia e Sintiche, esortandole ad essere concordi nel Signore (4,2: παρακαλω το αυτο φρονειν εν κυριω), e prega un suo fedele compagno di aiutarle (a riconciliarsi), poiché esse hanno combattuto per il vangelo insieme con lui (αιτινες εν τω ευαγγελιω συνηθλησαν μοι), al pari di altri collaboratori (συνεργων) tra cui Clemente: “i loro nomi sono scritti nel libro della vita” (4,3).

Per queste donne l’aver lottato insieme all’apostolo per la diffusione del vangelo comporta in qualche modo l’aver esercitato almeno in parte lo stesso ministero dell’apostolo; inoltre le espressioni di ammirazione e il fatto che praticamente sono le uniche persone ad esser nominate – oltre a Clemente che è probabilmente un componente di quella chiesa – portano a dedurre che esse devono aver avuto un ruolo di primo piano nella conduzione di quella comunità[20]. Qualcosa di simile si può supporre anche di Cloe (1Cor 1,11) e soprattutto della "sorella Apfia" (Απφια τη αδελφη), unico caso di una donna esplicitamente citata da Paolo tra i destinatari di una sua lettera, subito dopo la menzione di Filemone e prima di Archippo (Fm 2)[21].

Ma è soprattutto nel capitolo conclusivo della lettera ai Romani che abbondano i riferimenti a donne collaboratrici nell’apostolato, a cui Paolo rivolge saluti e apprezzamenti[22].
Vediamoli in sintesi:

In Rm 16,1-16 Paolo nomina ventinove persone, riportando il nome di ventisette di loro, tra cui otto donne (più due senza nome, la madre di Rufo e la sorella di Nereo; vv. 13.15)[23].
La prima menzionata è Febe, detta “nostra sorella, che è diacono della chiesa di Cencre… patrona (προστατις) di molti e anche di me stesso” (vv. 1-2). La vedremo a parte.
Al v. 3 dice di salutare Prisca ed Aquila (suo marito). Prisca (o Priscilla), è identificata come collaboratrice (συνεργος)[24];
al v. 6 saluta Maria “che si è data molto da fare per voi” (πολλα εκοπιασεν εις υμας);
al v. 7 chiede di salutare “Andronico e Giunia… eccellenti tra gli apostoli” (εισιν επισημοι εν τοις αποστολοις). Giunia non è un uomo come molti commentatori – specialmente nel passato – hanno sostenuto, bensì una donna[25], di loro Paolo afferma che sono suoi parenti, e diventati discepoli di Cristo prima di lui (προ εμου γεγοναν εν Χριστω).
Al v. 12 dice di salutare Trifena e Trifosa, due donne che “si danno da fare per il Signore” (τας κοπιωσας εν κυριω); e “la carissima Perside”, anch’essa “si dà molto da fare per il Signore” (πολλα εκοπιασεν εν κυριω).
Al v. 13 saluta la madre di Rufo che è stata anche per Paolo una madre.
Al v. 15 si nomina infine Giulia e la sorella di Nereo.

Se si va a fare il conto di tutte le persone menzionate in 16,1-16, le donne sono circa un terzo degli uomini, e tuttavia le cose che si dicono di loro sono talmente rilevanti da far intravedere un loro ruolo di primo piano nelle prime comunità cristiane (e non solo in quelle di matrice paolina, in quanto sappiamo che Paolo scrive ad una comunità non fondata da lui), in quanto collaboratrici nel ministero apostolico di Paolo, o in generale in quanto “si sono date da fare per il Signore”[26].

Rm 16 dunque, come ha affermato un commentatore, può davvero essere intesa come “la più gloriosa attestazione di onore per l’apostolato della donna nella chiesa primitiva”[27].

Febe (Rm 16,1-2)[28]: sorella nella fede, diacono e patrona

Per quanto riguarda Febe, ci fermiamo ad analizzare il testo più da vicino:

1Vi raccomando (συνιστημι) Febe nostra sorella (αδελφην),
che è anche diacono (διακονον) della chiesa che è a Cencre,
2affinché la accogliate nel Signore in maniera degna dei santi
e l’assistiate nelle cose di cui può aver bisogno.
Poiché anche lei è stata patrona (προστατις) di molti e anche di me stesso.

Paolo inizia la sezione finale della lettera ai Romani raccomandando Febe[29] a quella comunità. Si tratta di una donna di Cencre - una delle due località portuali presso Corinto, situata nella parte orientale dell’istmo[30] (sul lato occidentale c’era l’altro porto, quello di Lecheo) – e il fatto che viene nominata per prima fa ritenere che fosse lei l’incaricata di recapitare la lettera stessa[31]. In realtà non conosciamo il motivo del suo viaggio a Roma; alcuni commentatori suppongono che abbia avuto da sistemare alcuni affari legati al suo lavoro[32].

Il verbo tipicamente paolino συνιστημι (raccomandare, dimostrare, consistere, esistere) è usato anche altrove per presentare e raccomandare un amico ad un altro[33].

Le credenziali di questa donna presentata da Paolo contengono tre titoli:
αδελφη/διακονος/προστατις.
Per quanto riguarda il primo, mentre il maschile “fratello” (αδελφος), quale appellativo di membri della stesso gruppo religioso, non è una caratteristica specifica cristiana, sembra invece che lo sia l’uso di sorella (αδελφη)[34]. Inoltre, il pronome possessivo “nostra” (ημων) è un’attestazione del fatto che era già comune il concetto di comunione e quindi di universalismo tra membri di chiese sparse nelle varie parti del mondo.

Febe è un diacono della chiesa di Cencre. Questo secondo titolo (διακονος) è stato oggetto di molte discussioni[35]. Innanzitutto si tratta di un sostantivo che serve invariato sia al maschile che al femminile (perciò non è pienamente corretto tradurlo con “diaconessa”, come fanno alcune Bibbie); inoltre occorre evitare l’anacronismo di attribuire a questo termine il significato che “diaconessa” assumerà nei secoli successivi[36].

Nel nostro caso non è nemmeno sufficiente pensare ad un generico “servizio” (si sarebbe probabilmente usato il verbo “διακονεω”, come in Rm 15,25; o le si sarebbe attribuita una generica “διακονια”, come in 1Cor 16,15), invece bisogna tener presente che con questo termine Paolo solitamente designa se stesso o i suoi collaboratori nell’esercizio del ministero apostolico (cf. ad es.: 1Cor 3,5; 2Cor 3,1-11; Fil 1,1; cf. Rm 15,8: Cristo diacono dei circoncisi)[37]; e come per quelle ricorrenze si traduce nella maggior parte dei casi con “ministro”- a cui è legato un ruolo di responsabilità e autorità nella chiesa - anche qui coerentemente andrebbe tradotto e compreso allo stesso modo[38].

Naturalmente occorre tener presente che a quel tempo il ruolo e i compiti di tipo ministeriale-gerarchico abbinati ai singoli titoli sono in piena evoluzione e non hanno ancora raggiunto una sufficiente comune comprensione (una prima istituzionalizzazione la si fa normalmente risalire al tempo delle lettere pastorali; cf. 1Tm 3,1s; Tt 1,5s)[39]; quindi anche la portata di quel ministero designato attraverso la connotazione di diacono, in ogni caso dipendeva dai contesti locali e dalle necessità delle singole chiese[40].
Comunque sia, Febe rimane la prima donna diacono di cui si viene a conoscenza nella storia del cristianesimo.

L’ultimo titolo è un hapax del NT: προστατις è un deverbale da προιστημι, che al transitivo significa “porre come patrono, capo”; all’intransitivo, “porsi davanti (come difensore)”; nelle due ricorrenze paoline il verbo al participio (προισταμενος) indica senz’altro il ruolo di guida e presidenza (cf. Rm 12,8; 1Ts 5,12). Ma vediamo più in particolare:
l’equivalente maschile è προστατης, ben attestato nella letteratura ellenistica[41], per il ruolo di persona benestante e influente, protettore legale, patrono e leader di gruppi religiosi. Per il femminile, le meno numerose attestazioni in papiri e iscrizioni (del secondo e terzo secolo), lasciano intendere lo stesso significato del maschile[42]. Nel nostro caso bisogna intendere dunque il senso di “donna posta sopra altri”, e normalmente andrebbe tradotto con “protettrice, patrona” o, in traduzione più moderna, “presidente”[43].
Occorre inoltre tener presente che, al contrario di quando si riteneva nel passato, il ritrovamento e lo studio recente di papiri e iscrizioni, fa registrare una discreta presenza di donne che detenevano ruoli da leader anche in gruppi religiosi[44].

Ora il fatto che Paolo affermi che Febe è stata patrona di molti e anche di lui stesso, lascia supporre che ella fosse benestante e altolocata socialmente. Probabilmente la sua casa era adatta ad ospitare la comunità cristiana di Cencre, della quale in quanto diacono era anche una leader. Inoltre nella sua generosità non mancava di offrire ospitalità e protezione ai missionari itineranti, come Paolo e collaboratori. Ciò che Paolo chiede dunque ai romani in termini di accoglienza e assistenza nei riguardi di Febe (16,2: ινα αυτην προσδεξησθε εν κυριω αξιως των αγιων και παραστητε αυτη εν ω αν υμων χρηζη πραγματι: “che l’accogliate nel Signore in maniera degna dei santi e l’assistiate nelle cose di cui può aver bisogno”) in qualche modo deve riflettere ciò che anche lei ha fatto (και γαρ αυτη προστατις πολλων εγενθη) nei confronti di fratelli e sorelle in Cristo, sia quelli appartenenti a quella comunità locale, che quelli di fuori che si trovavano a passare nella sua casa.

Insomma, i romani, nel ricevere e leggere la lettera di Paolo a loro destinata, si trovavano in presenza di una donna (probabilmente latrice dello scritto) di grande prestigio umano e cristiano, sorella nella fede, ministro della sua comunità di Cencre, benefattrice generosa e patrona per chiunque dei fratelli si fosse trovato a passare nella sua casa.

Lidia (At 16, 11-15.40)[45]: il Signore le apre il cuore e lei apre la sua casa alla comunità

Lidia può ben essere un altro esempio di protettrice/patrona, anche se forse non così influente come Febe. Anche lei, ha accolto Paolo e i suoi collaboratori nella sua casa.
Ma prima di esaminare più da vicino il testo, è necessario spendere qualche parola sulla natura del libro che contiene l’episodio del suo incontro con Paolo, gli Atti degli Apostoli.

Sappiamo che l’autore – tradizionalmente identificato con il Luca collaboratore di Paolo (cf. Col 4,14; 2Tm 4,11; Fm 1,24) – ha concepito la sua opera in due parti: Vangelo e Atti; con il libro degli Atti ha l’intento di mostrare la continuità della storia della salvezza che, iniziata con il popolo d’Israele, ha avuto culmine in Gesù, centro del tempo (il Vangelo), e che ora continua nella chiesa per opera dello Spirito santo (Atti). Egli, come premette nel prologo al vangelo, è deciso a offrire un’opera fondata su ricerche accurate (Lc 1,3: παρηκολουθηκοτι ανωθεν πασιν ακριβως καθεζης “avendo indagato con acribia ogni cosa con ordine”), quindi su fatti reali di cui è venuto a conoscenza.

Arrivare a dire però, date queste premesse, che siamo di fronte ad un libro “storico” nel senso che diamo noi oggi correntemente a questo termine, sarebbe fuori della concezione che a quel tempo avevano della storia. L’autore degli Atti – pur basandosi nel complesso su fatti realmente accaduti e tramandati sia per iscritto che oralmente – rilegge questi avvenimenti in una prospettiva teologica: essendo il libro rivolto principalmente a chi è già credente, per rafforzare la sua fede, descrive l’opera dello Spirito santo nel tempo della chiesa, nella sua diffusione “fino agli estremi confini della terra” (cf. 1,8).

Per quando riguarda il nostro caso, nel racconto della prassi missionaria di Paolo, in fin dei conti è soprattutto il punto di vista lucano ad emergere e non tanto quello paolino[46].
E qui va accennato al recente cambiamento di opinione di alcuni studiosi su Luca come l’“evangelista dalla parte delle donne”, opinione altrimenti comune per essere tra gli scrittori sacri colui che dà più spazio alle figure femminili nella chiesa nascente, anche in contrasto con la mentalità dell’epoca; in realtà egli – pur attribuendo loro un ruolo fondamentale nella storia della salvezza (basta pensare ai brani mariani) – tenderebbe ad escluderle da ruoli di responsabilità e di direzione della comunità cristiana[47].

Di queste prospettive – oltre che dalla distanza temporale (almeno una generazione) che separa la stesura degli Atti dalle lettere paoline - occorre tenere conto nell’utilizzare gli Atti come fonte “storica” per la conoscenza di Paolo e della sua attività missionaria, anche in rapporto alle donne.

Scorrendo il cap. 16 – dove troviamo l’episodio di Lidia – abbiamo un saggio di come Luca
rilegge gli avvenimenti in una prospettiva teologica.
Ci troviamo nel cosiddetto “secondo viaggio missionario di Paolo” (in realtà è il primo che compie come “capo missione”), con lui si trova Sila (15,40); insieme hanno l’intento di andare a trovare i fratelli nelle città dove era già stata predicata la Parola (cf. 15,36); così da Antiochia attraversano la Siria e la Cilicia; a Listra prendono con sé Timoteo e attraversano la Frigia e la Galazia; di qui vogliono dirigersi verso la Bitinia, ma “lo Spirito non lo permise loro” (16,7); trovandosi nel porto di Troade, “durante la notte apparve a Paolo una visione” (16,9): un uomo macedone (ανηρ Μακεδων) che lo supplicava di andare da loro in Macedonia ad aiutarli. Il narratore conclude: “Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore”; per lui il macedone era Dio, o meglio, Dio si era servito di questa visione per manifestare la sua chiamata. Al di là di come sono andate concretamente le cose, si vuole dire che Paolo andò in Macedonia sulla base di una chiamata di Dio, spinto dallo Spirito missionario.

A parte questo, va notato che proprio in questo brano la redazione passa bruscamente alla prima persona plurale: “subito cercammo” (16,10). È la prima delle tre cosiddette “sezioni noi” degli Atti (la seconda, in 20,5-15 + 21,1-18; la terza da 27,1 fino a 28,16) nelle quali il lettore non è messo in grado di identificare colui che ora si esprime includendosi nella narrazione.
Senza entrare nella complessa questione[48], possiamo limitarci a dire che, a differenza dall’autore del resto del libro, che si serve di questa sorta di “diari di viaggio”, probabilmente l’autore di queste sezioni è un testimone oculare accompagnatore di Paolo. Accettando invece l’ipotesi tradizionale – per la quale è lo stesso Luca a scrivere anche queste sezioni, magari utilizzando appunti scritti a quel tempo – bisognerebbe ammettere che a quel punto del viaggio, salpando da Troade verso la Macedonia (si passa dunque dall’Asia all’Europa), ai tre (Paolo, Sila e Timoteo) si era aggiunto anche Luca.

Ecco allora gli antefatti dell’incontro con Lidia. Passando per la Samotracia e Neapoli, il gruppo missionario giunge a Filippi, colonia romana[49]. Dopo alcuni giorni – dice il narratore (16,13a) – “di sabato uscimmo fuori della porta [della città], lungo il fiume, dove ritenevamo fosse la preghiera” (τη τε ημερα των σαββατων εξηλθομεν εξω της πυλης παρα ποταμον ου ενομιζομεν προσευχην ειναι).

Già questi elementi indicano che nella città romana c’erano dei giudei o dei seguaci della religione giudaica (simpatizzanti, proseliti e timorati di Dio)[50]; e il fatto che cercassero un luogo un po’ in disparte dove fare la preghiera di sabato (vicino al fiume – il piccolo Gangite, a un paio di Km a ovest della città - probabilmente l’acqua serviva per il rituale delle abluzioni), lascia intendere che non c’era una sinagoga nella città[51]. Per metonimia, προσευχη (preghiera) può indicare anche il luogo dove si svolgeva l’incontro di preghiera (cf. 16,16). Flavio Giuseppe annota che un decreto di Alicarnasso autorizzava i giudei a “fare le loro preghiere (προσευχας) sulla riva del mare, secondo l’uso dei loro padri” (Ant. XIV 10,23)[52].

V. 13b: “Ci mettemmo a sedere e parlammo alle donne che vi erano radunate” (και καθισαντες ελαλουμεν ταις συνελθουσαις γυναιξιν). L’uso del verbo συνερχομαι (“convenire”, radunarsi) mette in evidenza che non si tratta di un incontro casuale, ma un convenire deliberato e comunitario (cf. Lc 5,15; At 2,6.11; 10,45; 1Cor 11,17-34; ecc.): queste donne si sono raccolte in assemblea per fare la preghiera, probabilmente hanno preso da sole l’iniziativa, senza il concorso di uomini (fatto unico in tutto il NT).
Ciò che è casuale è l’incontro con Paolo e i suoi compagni.

Le azioni del sedersi e iniziare a parlare (καθιζω e λαλεω), sono tipiche giudaiche del modo di comunicare un insegnamento, sia nelle sinagoghe che all’aperto (cf. Lc 4,20-21; 5,3; At 13,14-15; Mt 5,1-2; ecc.); l’essere radunati in un luogo con un intento religioso, seduti e parlare indica dunque un contesto di insegnamento, di interpretazione e di predicazione della Scrittura[53]. L’imperfetto segnala un’azione continuativa e ripetuta, il plurale “parlavamo” indica che non è Paolo soltanto a prendere la parola, ma anche i suoi compagni; e c’è da immaginarsi che le donne non siano rimaste sempre in silenzio (come avrebbero potuto Paolo e compagni infatti rendersi conto che esse comprendevano la loro lingua e che erano interessate a quell’insegnamento?).

Il v. 14a ci presenta la figura principale della scena: “E una donna di nome Lidia, commerciante di porpora della città di Tiatira, timorata di Dio, stava ad ascoltare” (και τις γυνη ονοματι Λυδια πορφυροπωλις πολεως Θυατειρων σεβομενη τον θεον ηκουεν).
Il nome Lidia originariamente designava un abitante della regione omonima (colonia della Macedonia), ma almeno a partire da Orazio (Odi I, 8, 1) era già un nome proprio di persona. La donna era di Tiatira, città rinomata per la produzione della tinta di porpora. Il fatto che fosse venditrice (e forse anche fabbricante) “fuori piazza” di questo prezioso prodotto (che amavano sfoggiare nelle corti e tra le famiglie benestanti, cf. Lc 16,19), induce a pensare che Lidia sia stata una donna indipendente economicamente, con delle persone alle sue dipendenze e capace di gestire bene l’impresa commerciale.

Essa era una “timorata [o adoratrice] di Dio” (σεβομενη τον θεον). Di per sé l’espressione indica chi è devoto di Dio in senso generico; ma negli Atti indica sempre chi tra i pagani – uomo o donna – è seguace della religione dei giudei e orbita intorno alla sinagoga (i “proseliti” erano invece coloro che, provenendo dal paganesimo, erano divenuti pienamente giudei accettando la circoncisione). Secondo la narrazione degli Atti, è tra questi “timorati di Dio” che la predicazione di Paolo riscosse il maggior successo (At 13,43; 16;14; 17,4.17; 18,7; unica ricorrenza in cui si rivelano ostili a Paolo: At 13,50). A Tiatira c’era probabilmente un insediamento di giudei; è possibile che Lidia abbia conosciuto lì la religione giudaica e vi abbia aderito, divenendo così “adoratrice di Dio [dell’unico]”. Rimane ugualmente a livello di congettura se le donne che erano con lei al fiume per la preghiera fossero giudee o simpatizzanti come lei (e forse anche sue dipendenti nell’impresa commerciale?).

Al continuativo lalèin di Paolo e compagni, fa riscontro il continuativo akouein di Lidia (imperfetto, “stava ad ascoltare”), segno della sua predisposizione ad accogliere l’annuncio cristiano.
V. 14b: “Il Signore le aprì il cuore per accogliere le cose dette da Paolo” (ης ο κυριος διηνοιξεν την καρδιαν προσεχειν τοις λαλουμενοις υπο του Ραυλου). Ecco di nuovo la prospettiva teologica: è il Signore ad aprire il suo cuore alla predicazione di Paolo; solo il Signore è in grado di farlo; è significativo questo verbo tipicamente lucano, διανοιγω (Lc 2,23; 24,31s. 45; At 7,56; 17,3; unica altra ricorrenza: Mc 7,34), da leggere con lo stesso senso che si ritrova nell’episodio dei discepoli di Emmaus: “si aprirono (διηνοιχθησαν) i loro occhi” (Lc 24,31); “Non ardeva forse il nostro cuore quando egli, lungo la via, ci parlava e ci spiegava (διηνοιγεν) le Scritture?” (24,32); “Allora aprì loro la mente all' intelligenza delle Scritture” (Lc 24,45). Specialmente quest’ultima frase sta in parallelo con la nostra:
At 16,14: ης ο κυριος διηνοιξεν την καρδιαν προσεχειν τοις λαλουμενοις υπο του Ραυλου
Lc 24,45: αυτων διηνοιχθην τον νουν του συνιεναι τας γραφας
In entrambi i casi è il Signore ad agire, egli apre il cuore o la mente[54], per accogliere le parole di Paolo o per comprendere le Scritture.

v. 15 “Dopo essere stata battezzata (lei) e la sua casa, ci invitò dicendo: «Se mi avete giudicato fedele al Signore, entrate a casa mia e restate(ci)». E ci costrinse.”
Il narratore, che risulta essere presente alla scena, a questo punto sintetizza e non aggiunge molti particolari; restano dunque aperte alcune domande: Lidia è stata battezzata subito, quel sabato lì al fiume, o ci sono state altre catechesi prima del battesimo?
Se facciamo riferimento a episodi simili (cf. il battesimo di Cornelio, cap. 10 o a quello dell’etiope eunuco, cap. 8,26-39) bisogna optare per un battesimo immediato; se così è stato, resta la difficoltà data dal fatto che insieme a lei viene battezzata “la sua casa” (di cui si deve quindi presupporre la presenza presso il fiume): con questo termine ovviamente è intesa tutta la cerchia di familiari, ma anche la servitù (se c’era) che apparteneva alla casa. Allo stesso tempo si deve dedurre che Lidia fungeva da capofamiglia (era vedova?).
Ma il narratore non ritiene importante fornire questi dettagli, a lui sta a cuore soprattutto mostrare come il Signore agisce attraverso la predicazione dei missionari per la diffusione della sua Parola “fino agli estremi confini”.

A questo punto l’adesione di fede di questa donna, riconosciuta da Paolo e collaboratori e confermata nel battesimo, trova anche una visibilità nel vissuto attraverso il gesto dell’ospitalità da lei generosamente offerta – anzi, quasi imposta ai missionari; e qui Paolo mostra di fare un'eccezione al suo principio di rinunciare al diritto di farsi mantenere dalle comunità[55].
Il verbo qui usato (παραβιαζομαι) letteralmente significa “costringere con la forza, imporre”: l’unica altra ricorrenza è significativo ritrovarla nell’episodio dei discepoli di Emmaus: “essi lo costrinsero (παρεβιασαντο), dicendo: «Resta con noi, perché si fa sera ed il sole ormai tramonta». Ed egli entrò per rimanere con loro» (Lc 24,29).
Come emerge chiaramente, ci sono diversi paralleli tra i due racconti, che permettono di rintracciare la visione teologica che pervade il progetto Vangelo-Atti: l’azione di Cristo risorto continua nell’azione dei testimoni del risorto.
Ad essi – in questo caso Paolo e collaboratori - Lidia apre le porte della sua casa, così come il Signore aveva aperto il suo cuore alle parole di Paolo.

L’uomo macedone (ανηρ Μακεδων) della visione si è rivelato in realtà… una donna! Anzi, un gruppo di donne… una casa che, grazie all’adesione di fede di Lidia, va a costituire il nucleo iniziale di una comunità gloriosa, quella dei filippesi, una comunità che più delle altre darà a Paolo gioia e collaborazione[56]. Inoltre Lidia resta la prima persona in Europa di cui veniamo a sapere che, ascoltando la predicazione dell'Apostolo, accoglie il vangelo e si fa battezzare.

Il battesimo di una donna – non in quanto moglie di qualcun’altro che si fa battezzare “con la sua casa” - è a sua volta la dimostrazione che si sono infrante le divisioni e discriminazioni che impedivano alle donne di entrare in una condizione di uguaglianza con gli uomini; il superamento della circoncisione – dagli ebrei ritenuta indispensabile per entrare a far parte del popolo dei salvati – attraverso il battesimo di tutti i credenti in Cristo, annullava non soltanto il “muro di divisione” tra giudei e non (cf. Ef 2,14), tra schiavi e liberi, ma anche quello della discriminazione in base al sesso. Difficilmente oggi possiamo immaginare l’impatto che questa “buona notizia-novità” deve aver avuto nella vita sociale e religiosa delle persone che a quel tempo abbracciarono la fede cristiana.

È valsa dunque la pena di seguire l’ispirazione divina di venire a Filippi: l’adesione alla fede di questa donna – che nell'ottica lucana ha significative analogie con i discepoli di Emmaus - la rende punto di riferimento per la nascente comunità, e la sua casa diviene chiesa domestica (16,40). La sua storia – di cui siamo venuti a conoscenza tramite il racconto degli Atti – negli intenti del narratore vuole essere anche un paradigma per tutte quelle donne che con il loro coraggio, la loro generosità e impegno missionario hanno reso possibile quella diffusione della Parola di Dio che ha fatto la chiesa.

Conclusione

Da questa breve indagine si può trarre un quadro per il quale è praticamente impossibile tacciare Paolo di misoginia o di discriminazione nei confronti della donna. I dati che riguardano la presenza e il ruolo delle donne nella chiesa delle origini, pur non essendo molto abbondanti, costituiscono una chiara attestazione dell’applicazione del principio fondamentale di uguaglianza nella dignità e nella responsabilità missionaria; questo lo si deduce non soltanto dalle affermazioni sulle donne che si trovano sparse in alcuni suoi scritti, ma soprattutto dalla sua prassi, così come emerge sia dalle lettere che dagli Atti degli Apostoli.

Rispetto all’ambiente e alle varie culture a lui contemporanee (greco-romana e giudaica) su questo punto Paolo non va annoverato tra i conservatori, ma tra gli innovatori coraggiosi: senza rischio di esagerare si può considerare Paolo il più grande araldo della nuova legge di libertà costituita dal Vangelo di Gesù Cristo, in cui è iscritto anche il paragrafo importante del pieno riconoscimento dei diritti alla donna, nella società e nella chiesa.

Un’interpretazione fondata sul pregiudizio di una mentalità maschilista e incapace di cogliere la portata liberatrice della Parola di Dio - e reiterata nel corso dei secoli - ha spinto tanti cristiani autorevoli a discriminare la donna nella famiglia e nella chiesa, causando direttamente la sua marginalizzazione nella società di matrice cristiana.

Grazie a Dio, anche il magistero ufficiale ultimamente ha iniziato a riconoscere questa responsabilità, facendone ammenda, ed invitando tutta la chiesa a cambiare mentalità:

«Non sarebbe certamente facile additare precise responsabilità, considerando la forza delle sedimentazioni culturali che, lungo i secoli, hanno plasmato mentalità e istituzioni. Ma se in questo non sono mancate, specie in determinati contesti storici, responsabilità oggettive anche in non pochi figli della Chiesa, me ne dispiaccio sinceramente. Tale rammarico si traduca per tutta la Chiesa in un impegno di rinnovata fedeltà all'ispirazione evangelica, che proprio sul tema della liberazione delle donne da ogni forma di sopruso e di dominio, ha un messaggio di perenne attualità, sgorgante dall'atteggiamento stesso di Cristo» (Giovanni Paolo II, Lettera alle donne, 29 giugno 1995)[57].

© Pino Pulcinelli - Roma 2004


Note

[1] Alcune opere di riferimento in italiano:
E. Schüssler Fiorenza, In memoria di lei: Una ricostruzione femminista delle origini cristiane, Claudiana, Torino 1990 (orig. ingl. 1983); C.S. Keener, “Uomo e donna”, Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di G.F. Hawthorne; R.P. Martin; D.G. Reid; ed. ital. a cura di R. Penna, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999; pp. 1576-1592; B. Byrne, Paolo e la donna cristiana, ed. Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1991 (orig. ingl. 1989). Per il quadro storico-sociale: E.W. Stegemann e W. Stegemann, Storia sociale del cristianesimo primitivo: Gli inizi nel giudaismo e le comunità cristiane nel mondo mediterraneo , EDB, Bologna 1998 (orig. ted. 1995); pp. 605-687.
Altri studi per approfondire:
G. Dautzenberg, “Zur Stellung der Frauen in den paulinischen Gemeinden”, in: Die Frau im Urchristentum, QD 95; ed. G. Dautzenberg et al.; Herder, Freiburg 1983, 182-224; S. Heine, Frauen der frühen Christenheit: zur historischen Kritik einer feministischen Theologie, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1986 (trad. ingl. 1987); C.S. Keener, Paul, Women and Wives: Marriage and Women's Ministry in the letters of Paul, Hendrickson, Peabody (MA) 1992; N. Baumert, Frau und Mann bei Paulus: Überwindung eines Missverständnisses, Echter, Würzburg 1992 (trad. Ingl. 1996); F.M. Gillman, Women who knew Paul, The Liturgical Press, Collegeville, MINN 1992; K.A. Gerberding, "Women Who Toil in Ministry", Cur TM 18 (1991) 285-291; P. Trebilco, "Women as Co-workers and Leaders in Paul's Letters", JCBRF 122 (1990) 27-36; J.-Y. Thériault, "La femme chrétienne dans les textes pauliniens", ScEs 37 (1985) 297-317; B. Witherington, Women in the Earliest Churches, University Press, Cambridge 1988.
Riguardo all’approccio femminista nell’esegesi biblica, cf. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1993, pp. 59-62; “Numerosi sono i contributi positivi provenienti dall’esegesi femminista. Le donne hanno preso così una parte più attiva nella ricerca esegetica; sono riuscite a percepire, spesso meglio degli uomini, la presenza, il significato e il ruolo della donna nella Bibbia, nella storia delle origini cristiane e nella Chiesa. ... La sensibilità femminile porta a svelare e a correggere alcune interpretazioni correnti, che erano tendenziose e miravano a giustificare il dominio dell’uomo sulla donna” (p. 61).
Per una opinione ragionata sul contributo dell’esegesi femminista, cf. M. Perroni, “Lettura femminile ed ermeneutica femminista del NT; uno status quaestionis”, RivBiblIt 41 (1993) 315-339; Id., “Una valutazione dell’esegesi femminista: verso un senso critico integrale”, StPatav 43 (1996) 67-92 (dove si prende in esame soprattutto il testo di Lc 10,38-42).

[2] E. Schüssler Fiorenza, In memoria di lei, cit., p. 191-192. Sarebbero tanti gli esempi che si potrebbero portare per mostrare il punto di vista maschile-patriarcale che emerge da tante pagine della Scrittura, sia dell’AT che nel NT; basti pensare a Sir 25,12ss dove si descrive a tinte piuttosto forti la donna malvagia; o alla nota del narratore alla moltiplicazione dei pani (Gv 6,10): “Si sedettero dunque ed erano circa cinquemila uomini (ανδρες)”; oppure all’episodio dell’adultera (Gv 8,3s): perché nessuno si chiede che fine ha fatto l’adultero? E ancora, al modo di tradurre servilmente i testi sempre con il pronome maschile – singolare o plurale – quando chiaramente il senso è inclusivo (“padri”; “figli”; “fratelli”... e le madri? le figlie? le sorelle?); non dimentichiamo che gli autori umani della Bibbia sono esclusivamente di sesso maschile! E gli interpreti della Scrittura – almeno fino a qualche decennio fa - idem!

[3] Che naturalmente restano a far parte del canone neotestamentario e per molti cristiani continueranno ad essere considerate "paoline". Occorre però distinguere da questo materiale "post-paolino" i testi che hanno sicuramente Paolo come autore. In Ef e Col si trovano i testi che parlano della sottomissione della moglie al marito (Ef 5,22; Col 3,18); in 1Tm 2,11-15 si trova il testo più forte nella “limitazione di spazio” alle donne: si mette insieme silenzio e sottomissione; in vari altri brani delle Pastorali, ad esempio in 2Tm 3,6-7 si usano parole offensive per stigmatizzare certe donne con comportamento riprovevole; in Tt 2,3-5 si tratta di avvertimenti e limitazioni nel loro campo d’azione; ecc.

[4] Su questi due testi e per uno status quaestionis su vari aspetti del tema “Paolo e la donna”, vedi il recente e approfondito studio di G. Biguzzi, Velo e silenzio: Paolo e la donna in 1Cor 11,2-16 e 14,33b-36, EDB, Bologna 2001 (bibliografia: pp. 159-171). Si vedano inoltre i commentari alla 1Cor di C.K. Barrett, La prima lettera ai Corinzi, EDB, Bologna 1979 (orig. ingl. ’68); G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinti, EDB, Bologna 1995; W. Schrage, Der erste Brief an die Korinther, 3 volls., (EKK VII, 1-3) Neukirchener Verlag, Zürich-Neukirchen-Vluyn 1991-1995-1999 (su 1Cor 11,2-16 il II vol. [1Kor 6,12-11,16] pp. 487-541).

[5] Per questo secondo brano trova sempre più sostenitori l’ipotesi che si tratti di una interpolazione (l’indizio che più viene segnalato è quello di una diversa collocazione di questi versetti in vari manoscritti antichi); Schrage ne è talmente sicuro che addirittura mette in appendice il commento dei vv. 33-34, cf. Schrage, Korinther, cit., III vol. (1Kor 11,17-14,40) pp. 479-501; Cf. anche Barbaglio, La prima lettera ai Corinti, cit., p. 732; 764-768.
Per il primo brano invece i pochi fautori dell’ipotesi non si possono avvalere di argomenti di critica testuale.

[6] Almeno nella metà dei casi, nei titoli nelle Bibbie e nei commentari si usa il termine “velo”: in realtà nel brano non ricorre mai il termine specifico (cf. invece καλυμμα, che ricorre le uniche quattro volte in tutto il NT in 2Cor 3,13-16; c’è un sinonimo in 1Cor 11,15: περιβολαιον); si tratta quindi già di un’interpretazione suggerita dall’aggettivo ακατακαλυπτος di 1Cor 11,5 (ακατακαλυπτω τη κεφαλη = “a capo scoperto / svelato”; e soprattutto dalla variante testuale presente in alcune versioni e testimoni patristici, “καλυμμα” al posto di “εξουσια”).

[7] Cf. le varie traduzioni italiane: “Per questo la donna deve portare un segno di dipendenza sul capo, a motivo degli angeli” (Paoline 1985); La traduzione della CEI 1974 impiega addirittura cinque parole per tradurre εξουσιαν “un segno della sua dipendenza” (la Versione CEI 1997: “un segno dell’autorità”); forse per le traduzione moderne sarebbe stato meglio dare più peso alla traduzione letterale della Volgata: “ideo debet mulier potestatem habere supra caput propter angelos”. Tralasciamo la questione degli angeli, dato che non interessa direttamente per il nostro scopo.

[8] Rimandiamo allo studio di Biguzzi, cit., pp. 42-48.

[9] Così ad esempio G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinti, cit., p. 530; e lo stesso Biguzzi, cit., p. 46.

[10] Sulla posizione della donna nel mondo antico, cf. S.E. Kraemer, “Women in the Religions of the Greco-Roman World”, RSR 9 (1983) 127-139; e soprattutto E.W. Stegemann e W. Stegemann, Storia sociale del cristianesimo primitivo, cit., pp. 605-687.
Qualche eccezione è rappresentata da alcuni culti misterici giunti dal vicino Oriente, da alcune scuole filosofiche che almeno in teoria sostenevano l’uguaglianza tra la donna e l’uomo; cf. per questo e sul mito dell’androgino, W.A. Meeks, “Image of the Androgyne” HR 13 (1974) 165-208, citato da Byrne, cit., p. 27.

[11] Per questa ipotesi cf. Biguzzi, cit., pp. 121-127.

[12] Id., pp. 142-152.

[13] Per dei commentari a Gal cf. A. Pitta, Lettera ai Galati, EDB Bologna 1996 (su 3,28 pp. 224-230); A. Vanhoye, Lettera ai Galati, Paoline, Milano 2000 (su 3,28 pp. 99-103); R.N. Longenecker, Galatians, Word Books, Dallas – Texas 1998.

[14] Propende per la provenienza prepaolina di questi binomi Byrne, cit., p. 26 (ivi ulteriore bibliografia); per l'origine paolina invece, Pitta, Galati, cit. p. 226.229.

[15] La costruzione del terzo binomio con και invece di ουδε – che non implica una variazione di significato - avvalora l'ipotesi della citazione implicita di LXX Gen 1,27 (αρσεν και θηλυ εποιησεν αυτους); così anche Pitta, Galati, cit. p. 229; Vanhoye, Galati, cit., p. 101.

[16] Per avere un confronto al negativo, si può citare la preghiera che l’ebreo recitava tre volte al giorno: “Ti ringrazio che non mi hai fatto pagano / che non mi hai fatto donna / che non mi hai fatto ignorante”; Queste tre berakhot sono attribuite a R. Judah ben Elai (circa 150 d.C.) in t. Ber. 7.18 e j. Ber. 13b, oppure a R. Meier (suo contemporaneo) in b. Menahi. 43b. Ma anche nel mondo Greco esistevano analoghe espressioni di “gratitudine”, ad es.: “che sono nato un essere umano e non una bestia, uomo e non donna, greco e non barbaro”, attribuite a Talete e a Socrate in Diogene Laerzio, Vitae Philosophorum 1,33; a Platone nel Marius di Plutarco (46,1); cf. R.N. Longenecker, Galatians, cit., ad loc..

[17] Naturalmente il tema dell’imparzialità e dell’uguaglianza di dignità emerge già dalla predicazione e dalla prassi di Gesù stesso; per un approfondimento di questo argomento cf. J. Moloney, Woman: First Among the Faithful, Collins Dove, Melbourne 1984 (specialmente alle pp. 8-25); ed anche Schüssler-Fiorenza, In Memoria di lei, cit., pp. 125-228.

[18] Ad esempio riconoscendo alla donna uguale diritto a ripudiare il coniuge, v. 13.

[19] Altre ricorrenze di questi binomi: 1Cor 12,12-13; Col 3,11.

[20] Cf. W. Cotter, "Women's Authority Roles in Paul's Churches: Countercultural or Conventional”, NT 36 (1994) 350-372; ritiene che delle 13 donne menzionate da Paolo, almeno 6 devono aver avuto ruoli da leader, cf. nota 2, p. 350.

[21] Cf. R. Penna, Lettera ai Filippesi. Lettera a Filemone, Città Nuova, Roma 2002, p. 171. Forse Apfia era la moglie di Filemone? È probabile comunque che condividesse con gli altri due destinatari un ruolo di guida nella comunità che si radunava nella sua casa.

[22] A favore dell’appartenenza di questo capitolo finale all’originaria lettera scritta da Paolo ai Romani, ultimamente anche R. Penna, “Note sull’ipotesi efesina di Rom 16”, in: Atti del VIII Simposio di Efeso su S. Giovanni Apostolo, a cura di L. Padovese, "Turchia: la Chiesa e la sua storia" XV, Pont. Ateneo Antoniano, Roma 2001, 109-114.

[23] Per il ruolo delle donne nella chiesa delle origini a partire da Rm 16, cf. S. Schreiber, "Arbeit mit der Gemeinde (Rom 16,6.12). Zur versunkenen Möglichkeit der Gemeindeleitung durch Frauen", in NTS 46 (2000) 204-226; Cf. F.M. Gillman, Women Who Knew Paul, Wilmington 1989; E. Schüssler Fiorenza, “Missionaries, Apostles, Coworkers: Romans 16 and the Reconstruction of Women’s Early Christian History”, WW 6 (1986) 420–33; P. Richardson, “From Apostles to Virgins: Romans 16 and the Roles of Women in the Early Church.” TJT 2 (1986) 232–61.
Per ultimo segnalo la recentissima pubblicazione di C. Marcheselli Casale, “Uno spaccato originale nella chiesa delle origini. Rm 16,1-2.3-16”, in: La Lettera ai Romani. Esegesi e Teologia, a cura di V. Scippa, Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, sez. S.Tommaso d’Aquino, Napoli 2003, pp. 111-136 (con ulteriore bibliografia); di questo interessante studio condivido ampiamente sia la metodologia che le tesi di fondo (il rivelante ruolo ecclesiale delle donne nella chiesa delle origini, che emerge in particolare nelle figure di Febe e Giunia); l’ho avuta tra le mani soltanto nella fase di revisione di bozze del presente articolo, e quindi non ho potuto utilizzarla più ampiamente.

[24] Non ci soffermiamo a parlare dell'importante figura di Prisca/Priscilla (in quanto si tratterebbe del campo specifico delle coppie impegnate nell’evangelizzazione): basterebbe il suo esempio di coadiutrice di Paolo e di maestra nella fede addirittura di un apostolo come Apollo (assieme a suo marito Aquila, cf. At 18,26) per fornire un solido argomento contro l’interpretazione restrittiva del mulieres taceant. Tuttavia non va lasciato cadere il fatto "anormale" – e perciò ancor più significativo - che delle sei ricorrenze totali nel NT di "Prisca/Priscilla", ben quattro volte è anteposta a quella di Aquila suo marito (Rm 16,3; At 18,18.26; 2Tm 4,19; è al secondo posto in 1Cor 16,19 e in At 18,2): chiaro segno della preminenza e della celebrità di questa donna nella chiesa delle origini.

[25] Si registra ancora qualche voce contraria, cf. M. H. Buber – D. B. Wallace, “Was Junia really an Apostle? A Re-examination of Rm 16,7”, NTS 47 (2001) 76-91; la maggioranza degli studiosi tuttavia, a ragion veduta, sostiene l’interpretazione femminile; tra gli altri, cf. J.D.G. Dunn, Romans 9-16, Dallas, Texas, Word Books 1998, ad loc.; J.A. Fitzmyer, Romans, Doubleday, New York 1993, p. 737-738 (trad it. Piemme, Casale Monferrato 1999). Anche i copisti, probabilmente presi dal dubbio che Paolo potesse attribuire ad una donna il nome di apostolo, corressero a volte con il maschile “Junianus”. Cf. inoltre B.J. Brooten, “ ‘Junia … Outstanding among the Apostles’ (Romans 16:7)”, In Women Priests, ed. L. and A. Swidler, Paulist, New York 1977, pp. 141-144; R.S. Cervin, “A note regarding the Name «Junia(s)» in Romans 16.7”, NTS 40 (1994) 464-470; J. Thorley, “Junia, a Woman Apostle”, NT 38 (1996) 18-29.

[26] S. Schreiber, sostiene che il verbo κοπιαω (usato in Rm 16 per quattro donne), indichi non soltanto attività apostoliche generiche, ma un ruolo nella guida carismatica della comunità; cf. Id., “Arbeit mit der Gemeinde”, cit., p. 204. 209. 224.

[27] Cf. P. Ketter, “Die Frau im Dienste der kirchlichen Gemeinde zur Zeit der Apostel”, Theologisch-praktische Quartalschrift 88 (1935) 36-52; 262-268; p. 49 (“Die herrlichste Ehrenurkunde für das Apostolat der Frau in der Urkirche”); citato in Biguzzi, cit., p. 134, nota 131. Ancora più deciso J.D.G. Dunn: “Per quanto riguarda il ministero femminile nelle chiese paoline la posizione non potrebbe essere più chiara. Le donne prevalgono nel ministero. Basta prendere il capitolo finale [di Rm], i dati parlano da soli”; Id., La teologia dell'apostolo Paolo, Paideia, Brescia 1999, p. 568-569.

[28] R. Jewett, “Paul, Phoebe and the Spanish Mission”, in The Social World of Formative Christianity and Judaism: Essays in Tribute to Howard Clark Kee, ed. J. Neusner et al., Philadelphia 1988, pp. 142–61; E.J. Goodspeed, “Phoebe’s Letter of Introduction” HTR 44 (1951) 55–57; M. Ernst, “Die Funktion der Phoebe (Röm 16,1f.) in der Gemeinde von Kenkrai”, Protokolle zur Bibel 1 (1992) 135-147. C.F. Whelan, “Amica Pauli: The Role of Phoebe in the Early Church”, JSNT 49 (1993) 67-85.

[29] Il nome Febe è preso dalla mitologia greca; era una Titana figlia di Urano e Gaia; significa “splendente, luminosa”; si deduce che questa donna era quindi di origine pagana.

[30] Notizie in Strabone, 8.335, 369.

[31] Cf. 2Cor 8,16-24; Fil 2,25-30; Fm 8-20; Per quanto riguarda la figura del latore delle lettere paoline, cf. A. Pitta, Il paradosso della Croce. Saggi di teologia paolina, Piemme, Casale Monferrato (AL), 1998, p. 25. Nel suo commento a Romani, Pitta suppone che in quanto latrice della lettera, a lei Paolo affida il compito di spiegarne il complesso contenuto; cf. Id. Lettera ai Romani, Paoline, Milano 2001, p. 514-515.

[32] πραγμα (16,2) è normalmente un termine generale (“compito, affare, faccenda”); ma si trova anche nel senso più specifico di “causa legale, processo”, come testimoniato da alcuni papiri ed anche da 1Cor 6,1.

[33] Delle 16 volte che ricorre nel NT (frequente invece nella LXX, 44 volte), 14 volte si trova nelle lettere paoline (Rm 3,5; 5,8; 16,1; 2Cor 3,1; 4,2; 5,12; 6,4; 7,11; 10,12.18; 12,11; Gal 2,18; Col 1,17; Lc 9,32; 2Pt 3,5); nel senso di “raccomandare qualcuno ad un altro” è attestato nella letteratura antica extrabiblica ed anche in 2Mac 9,25; in 2Cor 3,1 Paolo accenna alla pratica di scrivere lettere di raccomandazione.

[34] Cf. J.D.G. Dunn, Romans 9-16, cit. ad loc.; per altre ricorrenze del termine tecnico nel NT, cf. 1Cor 7,15; 9,5; Fm 2; Gc 2,15.

[35] Cf. H. W. Beyer, Diakonos, in GLNT II, 969-984; K. Romaniuk, “Was Phoebe in Romans 16,1 a Deaconess?”, ZNW 81 (1990) 132-134; G. Lohfink, “Weibliche Diakone im Neuen Testament“, Diakonia 11 (1980) 385–400; più in generale sui ministeri nel NT: K. Kertelge, Gemeinde und Amt im Neuen Testament, München, Kösel 1972; C.K. Barrett, Church, Ministry and Sacraments in the New Testament, Exeter, Paternoster Press, 1985; H. Hauser, L'église à l'âge apostolique: Structure et évolution des ministères, (Lectio divina 164) Cerf, Paris 1996; C. Perrot, Ministri e ministeri. Indagine nelle comunità cristiane del Nuovo Testamento, San Paolo, Milano 2002 (orig. fr. Paris 2000), sintesi sul ministero delle donne pp. 254-259.

[36] Ad es. in Costitutiones Apostolicae 3.7; Epifanio nel Panarion (376) precisa che esse non esercitano un ministero presbiterale, ma assistono nel battesimo delle donne. In epoca patristica le diaconesse erano “semplici cooperatrici che si occupavano prevalentemente dell’istruzione delle giovani e delle opere di carità”, cf. Byrne, cit., 106.

[37] Anche il genitivo oggettivo, “della chiesa di Cencre”, parla a favore di una funzione ben determinata e riconosciuta all’interno di quella comunità; non si tratta dunque di un servizio generico.

[38] Così traduce ad es. anche J.A. Fitzmyer, Romans, cit., p. 728.

[39] Cf. C. Marcheselli-Casale, Le Lettere Pastorali. Le due Lettere a Timoteo e la Lettera a Tito, EDB, Bologna 1995, l’excursus: Un ufficio di diaconessa nel NT? (1Tm 3,11), pp. 251-254.

[40] Attestazioni in età apostolica le troviamo in Ignazio d’Antiochia, Efesini 2,1; Magnesi 6.1.

[41] Cf. Filone, Virt. 155; Giuseppe Flavio, Ant. 14.157; ecc.

[42] Per la papirologia cf. O. Montevecchi, “Phoebe prostatis (Rom. 16,2)”, Miscellània papirologiga Ramon Roca-Puig en el seu vuitantè aniversari, ed. S. Janeras (Barcelona: Fund. S. Vives Casajuana, 1987) 205-16; M. Zappella, “A proposito di Febe προστατις (Rm 16,2)”, RivBib 37 (1989) 167-171.

[43] Così propone di tradurre R.R. Schulz, “A Case for ‘President’ Phoebe in Roman 12:2”, LTJ 24 (1990) 124-127.

[44] Per i titoli di αρχισυναγωγος o γυμνασιαρχος, attribuiti ad una donna, cf. B. Brooten, Women Leader in Ancient Synagogues, Chico, CA, Scholars, 1982 (specialmente cap. I).

[45] Oltre ai commentari agli Atti (cf. J.A. Fitzmyer, Gli Atti degli Apostoli, Queriniana, Brescia 2003; G. Rossé, Atti degli Apostoli, Città Nuova, Roma 1998), cf. I. Richter Reimer, “Lydia and Her House”, in: Id., Woman in the Acts of the Apostles. A Feminist Liberation Perspective, Fortress Press, Minneapolis 1995 (orig. ted. 1992), pp. 71-132 ; a livello di buona divulgazione, cf. R. Chiarazzo, “Lidia e la sua casa. E il Signore le aprì il cuore”, Rogate 1 (2002) 21-26.

[46] Un saggio della diversa prospettiva con cui si leggono gli stessi eventi lo si può facilmente avere leggendo At 15,1-29 e Gal 2,1-10, dove si tratta dell’assemblea di Gerusalemme.

[47] Cf. M. Perroni, Il discepolato delle donne nel Vangelo di Luca: Un contributo all'ecclesiologia neotestamentaria, Pontificio Ateneo S.Anselmo, Roma 1995.

[48] Per uno status quaestionis cf. la buona sintesi in G. Rossé, Atti, cit., pp. 50-63.

[49] Il nome viene da Filippo II, padre di Alessandro Magno; non aveva una popolazione numerosissima; la sua importanza le derivava dalla posizione strategica sulla via Egnatia. Divenuta colonia romana dal 42 a.C., godeva dello Jus Italicum (autoamministrazione e immunità da tasse di proprietà), era dunque in tutto una città romana.

[50] Per uno studio aggiornato di queste figure, cf. B. Wander, Timorati di Dio e simpatizzanti: studio sull'ambiente pagano delle sinagoghe della diaspora, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2002.

[51] Forse perché erano pochi i giudei presenti a Filippi, non sufficienti a formare il quorum per una sinagoga? O si radunavano fuori perché erano discriminati dalle autorità?

[52] Per uno studio approfondito della questione se la parola προσευχη indica una sinagoga o un luogo di preghiera all’aperto, cf. I. Richter Reimer, “Lydia...”, cit., p. 79-92.

[53] Così I. Richter Reimer, “Lydia...”, p. 77.

[54] Nella prospettiva dell’antropologia semitica non c’è una grande differenza di senso tra i due termini. Nella LXX νους ("mente") è raro; È usato 6 volte per tradurre l’ebraico leb-lebab ("cuore").

[55] Paolo è sempre stato contrario a ricevere per sé aiuti materiali o compensi dalle comunità che andava evangelizzando: cf. 1Cor 9,4.6-18, 2Cor 7,2; 11,7-10 (qui fa riferimento all'aiuto ricevuto dai "fratelli giunti dalla Macedonia"); in Fil 4,15-16 abbiamo la conferma di questa eccezione ("Proprio voi, Filippesi, sapete che all'inizio dell'evangelizzazione, quando lasciai la Macedonia, nessuna chiesa aprì un conto con me di dare e di ricevere, eccetto voi soli, e che una o due volte, mentre ero a Tessalonica, avete provveduto alle mie necessità"); anche gli Atti degli Apostoli attestano questo principio: cf. At 18,3; 20,34 ("Voi sapete che alle mie necessità e a quelle di coloro che erano con me hanno provveduto queste mie mani").

[56] Resta tuttavia la domanda: perché Paolo scrivendo ai Fil a distanza di alcuni anni da questo episodio non menziona Lidia? Forse aveva già lasciato Filippi? (così Penna, Filippesi, cit., p. 128) O era morta nel frattempo? Comunque è abbastanza probabile che le due donne menzionate nella lettera, Evodia e Sintiche (Fil 4,2-3) facessero parte dell’entourage di Lidia, che frequentassero quella che era stata la sua casa, ormai stabilmente divenuta chiesa domestica.

[57] Già nella Mulieris Dignitatem (1988) il Papa aveva coraggiosamente “corretto” un’interpretazione androcentrica e discriminatoria della Genesi e delle lettere paoline (cf. MD 9. 24).
Sulla missione profetica e di predicazione del vangelo, cui la donne partecipano alla pari con gli uomini, cf. Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti, Giovedì Santo 1995 (25 marzo 1995, punto 6).
L’invito appassionato a cambiare mentalità emerge soprattutto da queste parole del Papa: “Faccio oggi appello all’intera comunità ecclesiale, perché voglia favorire in ogni modo, nella sua vita interna, la partecipazione femminile... le donne partecipino alla vita della Chiesa senza alcuna discriminazione, anche nelle consultazioni e nell’elaborazione delle decisioni. È questa la strada che va percorsa con coraggio. In gran parte si tratta di valorizzare pienamente gli ampi spazi che la legge della Chiesa riconosce alla presenza laicale e femminile: penso ad esempio alla docenza teologica, alle forme consentite di ministerialità liturgica, compreso il servizio all’altare, ai consigli pastorali e amministrativi, ai sinodi diocesani e ai concili particolari, alle varie istituzioni ecclesiali, alle curie e ai tribunali ecclesiastici, a tante attività pastorali fino alle nuove forme di partecipazione nella cura delle parrocchie, in casi di penuria del clero, salvo compiti propriamente sacerdotali. Chi può immaginare quali grandi vantaggi verranno alla pastorale, quale nuova bellezza assumerà il volto della Chiesa, quando il genio femminile sarà pienamente riversato nei vari ambiti della sua vita?” (Saluto domenicale, 3 settembre 1995); sullo stesso argomento, cf. Vita consecrata, 57 (1996); Ecclesia in Europa 43 (28 giugno 2003).
Tutto questo – pur se non è il massimo – è già tanto: sarebbe un grande salto di qualità nella Chiesa se venisse recepito e messo in pratica!


[Approfondimenti]