La Parola di Dio è un sangue versato che parla.
Un’intervista di Gianni Valente al biblista e cardinale Albert Vanhoye sul Sinodo dell’ottobre 2008 “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”

Riprendiamo dal sito www.30giorni.it l’intervista di Gianni Valente al cardinal Albert Vanhoye, apparsa sul numero di giugno/luglio 2008 della rivista. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (4/9/2008)


Si avvicina il Sinodo sulla Parola di Dio. Cosa si attende un grande biblista come lei?

ALBERT VANHOYE: Quindici anni fa, quando ero presidente della Pontificia Commissione Biblica, studiammo l’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. Passammo in rassegna tutti i metodi e gli approcci adoperati per accostarsi al testo biblico. Ma quello fu un lavoro tutto fatto dal punto di vista della scienza esegetica.
Nel Sinodo c’è una prospettiva diversa. Ci sarà modo per tante riflessioni sul come la vita e la missione della Chiesa trovano appoggio e nutrimento nella Parola di Dio.

Secondo lei, cosa può suggerire un Sinodo del genere a tutta la Chiesa?

VANHOYE: L’instrumentum laboris lo dice molto bene: non si deve identificare la Parola di Dio con la Bibbia. Al tempo di san Paolo non c’era niente di scritto del Nuovo Testamento. Ma san Paolo era consapevole di predicare la Parola di Dio, e si congratulava con i Tessalonicesi perché avevano ricevuto il messaggio proclamato da lui non come discorso umano, ma come Parola di Dio che opera in chi crede.

La Parola di Dio è una cosa viva, la Bibbia è un testo scritto. Ha un’importanza speciale perché è un testo ispirato. Ma la nostra fede non è una religione del Libro, non è la religione biblica. La nostra fede è una religione della Parola di Dio viva, accolta, che ci mette in relazione personale con Gesù Cristo, e, per mezzo di Cristo, con Dio Padre.

«Parola di Dio, ultima e definitiva, è Gesù Cristo», sta scritto nella parte prima dell’instrumentum laboris del Sinodo. Vengono in mente alcune pagine del suo confratello Henri de Lubac...

VANHOYE: De Lubac ha scritto che in Gesù Cristo Dio ha reso breve la sua Parola, l’ha abbreviata. Il Verbo si è abbreviato. La Bibbia non è una collezione di trattati filosofico-teologici, non è un percorso didascalico-simbolico per acquisire un set di verità religiose eterne. La Bibbia racconta l’iniziativa di Dio per entrare in contatto con gli uomini, nella nostra storia. Per questo l’incarnazione di Cristo è il “riassunto” di tutta la Parola di Dio. Che non rende inutili le altre parole ispirate, ma definisce il loro senso preciso.

La Parola dell’Antico Testamento prende il suo senso preciso grazie alla sua relazione con Gesù Cristo. Ormai noi leggiamo l’Antico Testamento illuminati dalla venuta e da ciò che opera Cristo. Come dice Gesù stesso, nel Vangelo di Giovanni, «voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza». Questo si vede nell’apparizione ai discepoli di Emmaus: Gesù spiega tutto ciò che nell’Antico Testamento riguarda la sua persona e il suo mistero.

È stimolante anche l’espressione della Lettera agli Ebrei dove si dice: ormai è un sangue che parla, «con voce più eloquente di quella di Abele». La Parola di Dio si è fatta sangue versato. E parla di un’offerta di amore che vince tutti gli ostacoli all’amore. Se uno dice: Parola di Dio, la formula può trasmettere un’idea intellettuale. Ma se si dice che è un sangue che parla, si capisce che non si tratta di un discorso, di un ragionamento.

Dice sant’Agostino: «Dal Signore viene la Scrittura. Ma non ha alcun interesse umano, se non vi si riconosce Cristo». Invece sembra che la lettura della Scrittura sia di per sé la sorgente dell’inizio della fede. Si diventa cristiani perché si legge la Bibbia?

VANHOYE: Può succedere che la lettura della Bibbia diventi l’occasione in cui viene suscitata la fede. Penso alla Chiesa in Corea, dove la fede cristiana è arrivata a partire da alcuni intellettuali che si erano interessati alla Bibbia, e hanno poi avuto il dono della fede, senza che ci fosse l’intervento di missionari. Questi hanno incontrato la fede cristiana in occasione di un contatto con la Sacra Scrittura, e dopo sono andati a cercare missionari per tirare su la Chiesa. Ma è chiaro che all’inizio della vita di fede non c’è né la lettura della Bibbia né l’opera dei missionari. C’è l’azione dello Spirito, che si può servire di tutto: dei missionari, della lettura della Parola di Dio, ma anche di strumenti e occasioni apparentemente più lontani e casuali. Di solito è la testimonianza della vita che può attirare alla fede. Poi c’è bisogno anche della Parola viva per spiegare chi è Colui che attira a sé tramite la testimonianza.

Chi insiste sull’importanza della Parola di Dio spesso sembra puntare tutto sulla competenza nei confronti della Sacra Scrittura. Come se il massimo fosse che i fedeli diventino tutti esegeti, biblisti.

VANHOYE: Lo scopo della Chiesa non è certo quello di fare di ogni singolo cristiano uno scienziato della Parola. È necessario che alcuni si mettano in questa prospettiva, perché occorre che la Bibbia sia studiata in un modo che sia al livello della cultura del momento. Quello che invece anche il prossimo Sinodo può favorire – e mi auguro lo faccia – è il contatto personale coi testi biblici, un contatto che sia il più possibile oggettivo, non lasciato alla fantasia di ognuno.

Lei si è formato negli anni in cui anche in ambito cattolico il ressourcement, il ritorno alle fonti biblico-patristiche, inaugurava il cammino di un rinnovamento che avrebbe portato al Concilio Vaticano II. Cosa ricorda di quel periodo?

VANHOYE: Per me personalmente, il contatto diretto con la Bibbia è stato facilitato dal fatto che come giovane religioso sono stato professore di greco classico ad alto livello. Questo mi ha permesso il contatto diretto con il Nuovo Testamento. E mi sono appassionato subito al Vangelo di Giovanni, che rivela la persona di Gesù. Questa è stata la mia esperienza “forte”, più che il contatto con altri esegeti o altri autori. A quel tempo c’era ancora una certa lontananza dal testo biblico, per diversi motivi. In particolare, si sconsigliava la lettura dell’Antico Testamento perché vi si trovano racconti molto realistici, che sono di per sé scandalosi. Adesso il contatto con la Bibbia è molto più facile. Ci sono edizioni fatte per lettori che non hanno competenza speciale. Strumenti che aiutano a entrare nel testo. E poi ci sono gruppi biblici, qualcuno impara l’ebraico per avere un contatto diretto con il testo originale… Insomma, è tutta un’altra situazione.

In precedenza lei ha ricordato di essere stato presidente della Commissione Biblica negli anni in cui è stato predisposto l’importante documento sull’interpretazione della Bibbia nella Chiesa. In esso, tra l’altro, vi era apertura verso il metodo storico-critico.

VANHOYE: Se il Vangelo non è una favola mitica e c’entra con la storia, gli strumenti dell’indagine storica possono esservi legittimamente applicati. Debbono essere applicati. La Bibbia si presenta come un documento antico, che va studiato con gli strumenti scientifici moderni, e questo non è solo legittimo, è doveroso. Altrimenti il contatto con la Bibbia non si pone a livello delle conoscenze e delle capacità odierne. Però è vero che nell’uso del metodo storico-critico ci sono talvolta tendenze che nei confronti del testo hanno una sorta di effetto “sterilizzante”.

Per esempio?

VANHOYE: Il cardinale Ratzinger nel 1988 fece a New York una conferenza per criticare i presupposti teorici di Bultmann e Dibelius, e in genere il metodo storico-critico nella misura in cui esso vuol rinchiudere il testo in una gabbia angusta, appiattendolo e facendone un puro prodotto delle condizioni e delle circostanze del tempo. Questo intendo per “sterilizzazione”. Così come può diventare sterilizzante lo studio delle fonti o più esattamente dei cosiddetti “strati”. Sembra che per alcuni studiosi l’esegesi consista nel distinguere diversi strati successivi: prendere due versetti e attribuirli a una fonte, prenderne altri due e attribuirli a un’altra fonte, e via dicendo. Per alcuni testi può essere utile. Ma il più delle volte, invece di dare il contatto vivo col testo se ne fa una specie di dissezione, come quelle che si fanno sui cadaveri. E si fa perdere il contatto con la corrente di vita che si manifesta nel testo. Insomma, il metodo storico-critico è necessario, ma occorre non concepirlo in maniera troppo ristretta. Se abbiamo davanti a noi un testo, dobbiamo prenderlo e interpretarlo per quello che è.

Il metodo storico-critico, proprio per questa sua latente “aridità”, non ha finito per “perdere punti” anche tra gli studiosi?

VANHOYE: I tedeschi hanno questa tendenza a considerare tutto dal punto di vista storico... A dire il vero, il metodo storico-critico si è avviato negli anni recenti in una direzione che in un certo senso è contraria al suo indirizzo principale. L’ultima tappa è la Wirkungschichte, che significa la “storia degli effetti” di un testo. Non ci si limita più al testo considerato nel momento della sua produzione, ma lo si considera anche nella connessione con gli effetti che quel testo ha prodotto. Per esempio, il rapporto che c’è tra alcuni testi di san Paolo – con l’insistenza sulla giustificazione che viene dalla fede – e il sorgere della Riforma. Altri testi, come ad esempio il Cantico dei Cantici, hanno avuto effetti sulla vita mistica e spirituale. Ciò dimostra che un testo ha capacità di suscitare il pensiero, le emozioni, gli affetti. E alla luce di questi effetti viene compreso meglio anche il testo.

Gli avversari del metodo storico-critico spesso insistono sul senso spirituale delle Scritture. Nell’attuale contesto culturale, non si rischia di “andare oltre” il dato e di fare della Bibbia il grande simbolo del percorso religioso dell’umanità?

VANHOYE: Anche l’instrumentum laboris ha registrato «l’insorgenza di forme gnostiche ed esoteriche nell’interpretazione della Sacra Scrittura, e di gruppi religiosi a sé stanti all’interno della Chiesa cattolica»… C’è il pericolo di prendere il testo come un pretesto di idee, riflessioni, emozioni, pensieri, senza alcuna docilità al dato della Scrittura. Il cardinale Martini, quando iniziava la sua lectio divina, spiegava bene che prima di tutto viene una lectio attenta, precisa: leggo il testo e mi attengo al testo, non vado oltre. Questa docilità davanti al testo è l’unica base per tutte le meditazioni, le contemplazioni, le applicazioni pratiche successive. La Parola di Dio vuol essere accolta come parola autorevole, che ci porta qualche cosa, non è semplicemente un pretesto per divagazioni di ogni genere.

Sull’onda anche del successo commerciale dei vari Dan Brown, alcune opere divulgative sono tornate a trattare il rapporto tra il “Gesù storico” e il “Gesù della fede”. Ha senso, secondo lei, cercare di “ricostruire” il Gesù storico prescindendo da come Gesù si presenta nei Vangeli?

VANHOYE: Proprio pochi giorni fa ho visto un altro libro su Gesù in cui l’autore spagnolo dichiara di attenersi in modo stretto a dati e conclusioni scientifiche, evitando tutto ciò che ha a che fare con la dimensione sovrannaturale. È sempre possibile fare questa distinzione: se uno pretende di studiare il fenomeno Gesù dal solo punto di vista storico-scientifico può farlo. Dal punto di vista scientifico è sempre possibile prendere una prospettiva molto limitata, ma occorre sapere già in anticipo che anche le conclusioni saranno unilaterali e limitate, perché il fenomeno, il dato, non verrà conosciuto per quello che è. Un simile approccio non dovrà mai avere la pretesa di stabilire se Gesù è o non è il Figlio di Dio.

La Chiesa ha sempre riconosciuto la storicità dei Vangeli e i cattolici hanno valorizzato i vari indizi che la possano confermare. Talvolta anche in modo ingenuo o ideologico...

VANHOYE: In Francia spiegavo ai miei studenti che i Vangeli non ci danno fotografie, ci danno quadri. La fotografia è più esatta. Ma non può esprimere uno spirito d’insieme, come fa il quadro. La Bibbia stessa ci educa a non essere letteralisti: su questioni importantissime ci dà due versioni diverse. Un esempio impressionante è la parola di Gesù sul calice. Secondo Matteo e Marco, Gesù prendendo il calice ha detto: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti». Secondo Luca e san Paolo, invece, ha detto: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi». Sono formule diverse, anche se ci sono elementi comuni. A fortiori, per tante altre cose meno importanti esistono differenze tra i Vangeli, che corrispondono all’orientamento di ciascuno di essi. Per cui è erroneo voler prendere da un Vangelo o dall’altro alcuni elementi per fare un racconto che sarebbe più “fedele” e completo. Ogni Vangelo ha un suo orientamento. Quello di Matteo è un Vangelo ecclesiale, che ci offre grandi discorsi di Gesù. Quello di Marco è il Vangelo dell’evento, dell’urto dell’evento. Quello di Luca è il Vangelo del discepolo che vede le cose nella relazione personale con Gesù… Ciascun Vangelo ha la sua ispirazione, che comporta differenze in molti dettagli. È una ricchezza, ma è chiaro che dal punto di vista materiale ci mette nell’imbarazzo se facciamo battaglie per voler dimostrare oltre ogni dubbio l’incontrovertibilità storica di tutto quello che è narrato nei Vangeli.

Al Concilio, nel dibattito sulle fonti della Rivelazione che ha portato alla costituzione conciliare Dei Verbum, ci si accalorava nella discussione sul rapporto tra Scrittura e Tradizione. Cosa rimane attualmente di quelle disputationes?

VANHOYE: Adesso si insiste di più sull’esegesi patristica. L’École biblique di Geruslemme ha il grande progetto di una Bibbia commentata sia scientificamente che patristicamente… Si vede che la gente sente l’insufficienza dell’approccio puramente scientifico. E pensa che per recepire bene la Bibbia in tutta la sua ricchezza occorra immergersi nella corrente della Tradizione. Che libera soprattutto da unilateralismi e da false dialettiche, come quelle che contrappongono senso letterale e senso spirituale. Leggere la Bibbia secondo la Tradizione fa vedere che alcune cose che possono sembrare contraddittorie sono in realtà complementari. Ad esempio, la Lettera di san Giacomo in apparenza sembra contrapporsi alle Lettere di san Paolo sul tema della giustificazione. Ma se si leggono bene i testi, secondo la Tradizione, vediamo che non c’è contraddizione, anche per san Giacomo le opere che giustificano sono opera della fede. Essere docili alla lettura della Bibbia dentro la Tradizione aiuta questa sobrietà, questa saggezza.

Lei in un’intervista ha detto che è salutare sfuggire alla tentazione di “appoggiare” sul testo biblico assunti a cui la Tradizione è pervenuta in seguito. Può spiegare meglio a cosa si riferiva?

VANHOYE: È sempre utile distinguere. La Parola di Dio è viva, è dentro una corrente di vita. Ma è sempre utile distinguere ciò che c’è nel testo all’inizio e ciò che la Tradizione legittimamente ha aggiunto. Prendiamo il tema del sacerdozio ministeriale. Nel Nuovo Testamento, nessun apostolo viene chiamato sacerdote. Il titolo di sacerdote è dato solo ai sacerdoti leviti o ai sacerdoti pagani. Però la Chiesa, già a partire dal II secolo, ha attribuito il titolo di sacerdos ai vescovi. Questo non è fondato direttamente sulla Bibbia, ma corrisponde a una nuova idea del sacerdozio espressa proprio nelle Lettere di san Paolo. Nella Lettera ai Romani, san Paolo definisce il suo ministero in un modo che corrisponde a un nuovo concetto di sacerdozio. Dice che il suo ministero è l’opera sacra dell’annuncio, di modo che i gentili diventino un’offerta gradita a Dio, santificata nello Spirito Santo. Questa formula definisce il sacerdozio cristiano. Adesso cresce una resistenza all’uso del vocabolario sacerdotale. Non vogliono più parlare di ordinazione sacerdotale, preferiscono ordinazione presbiterale… Questa è una fedeltà materiale al Nuovo Testamento che non è una fedeltà di spirito.

Come si applica questa distinzione al tema del primato? Gli ortodossi, anche quelli più coinvolti nel dialogo ecumenico, non accettano di affrontare dal punto di vista esegetico il problema.

VANHOYE: Si vede in tutti i Vangeli e nelle Lettere di san Paolo che Pietro ha ricevuto una missione speciale. È veramente impressionante, ad esempio, rivedere la scena della vocazione di Pietro. Ci sono almeno quattro persone, oltre a Gesù, in quella scena: Andrea e Pietro, Giacomo e Giovanni. Ma Gesù si rivolge solo a Pietro.

Le controversie tra “creazionisti” ed “evoluzionisti” negli Stati Uniti hanno riproposto il tema dell’inerranza delle Sacre Scritture. Cosa ne pensa?

VANHOYE: L’inerranza è stata ben definita nella Dei Verbum, con quella frase, molto sfumata, in cui si dice che essa tocca tutte le cose che Dio per la nostra salvezza ha voluto rivelare. Dio non ha voluto rivelare se la terra è piatta o rotonda e se gira o meno intorno al sole. La Bibbia non fa una teoria della creazione. Afferma che Dio è creatore, e poi presenta la creazione in maniera immaginosa. Non c’è una teoria scientifica sulla creazione, nella Bibbia. Mi ha sempre colpito che la Dei Verbum ha usato quella formula: «La verità che in vista della nostra salvezza Dio ci ha voluto comunicare». Avrebbe potuto parlare semplicemente di verità salvifiche. Ma una tale espressione avrebbe fatto pensare a una serie di formule religiose. Invece le verità che ci vengono comunicate nella Sacra Scrittura in vista della nostra salvezza sono anche dei fatti, come la nascita di Gesù, la crocifissione e le apparizioni di Cristo risorto.

Lei ha raccontato che il cardinale Ratzinger fu molto rispettoso del lavoro della Commissione Biblica, anche quando essa valorizzò, nel documento da lei citato all’inizio, il metodo storico-critico, sul quale il prefetto dell’ex Sant’Uffizio manifestava pubblicamente le sue obiezioni.

VANHOYE: La posizione dei membri della Commissione Biblica era che il metodo storico-critico non dipendesse dai presupposti teorico-filosofici di Bultmann e Dibelius. È inevitabile che ogni scienziato adoperi i propri presupposti. Ma non si devono confondere metodo e presupposti. Gli esegeti cattolici possono prendere il metodo, senza assumere i presupposti naturalistico-storicisti dei fondatori del metodo.

Adesso Ratzinger è diventato Benedetto XVI. E ha scritto la prima parte di un libro su Gesù che interpella da vicino le ricerche di biblisti ed esegeti. Questa situazione particolare che impatto avrà sul Sinodo?

VANHOYE: Si vede bene che il Papa nella sua formazione teologica è stato a disagio con il metodo storico-critico, così come veniva adoperato in Germania. La sua prospettiva è molto più positiva: cercare la corrente profonda della Rivelazione, concentrarsi sulla vita di Gesù e non impelagarsi in discussioni infinite su dettagli secondari o interpretazioni in conflitto. È un approccio molto più “nutriente” per la fede e la vita cristiana. Naturalmente, l’ha detto lui, la sua infallibilità non è implicata nel libro su Gesù. Quella è l’opera di un professore divenuto papa. Il Sinodo non avrà difficoltà da questa situazione. Il Papa è un vescovo che contribuisce alla vita della Chiesa. Con tutte le sue capacità intellettuali e affettive.


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