Riprendiamo on-line sul nostro sito l’articolo pubblicato dall’Osservatore romano del 15 febbraio 2008, con il titolo originale Oremus et pro Iudaeis. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (30/3/2008)
Un giorno Kafka all'amico Gustav Janouch che lo interrogava su Gesù di Nazaret rispose:
"Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi". Il rapporto tra gli
Ebrei e questo loro "fratello maggiore", come l'aveva curiosamente chiamato il filosofo Martin Buber, è
stato sempre intenso e tormentato, riflettendo anche la ben più complessa e travagliata relazione tra ebraismo
e cristianesimo. Forse sia pure nella semplificazione della formula è suggestiva la battuta di Shalom Ben
Chorin nel suo saggio dal titolo emblematico Fratello Gesù (1967): "La fede di Gesù ci unisce ai
cristiani, ma la fede in Gesù ci divide".
Abbiamo voluto ricreare questo fondale, in realtà molto più vasto e variegato, per collocarvi in modo
più coerente il nuovo Oremus et pro Iudaeis per la Liturgia del Venerdì Santo. Non c'è
bisogno di ripetere che si tratta di un intervento su un testo già codificato e di uso specifico,
riguardante la Liturgia del Venerdì Santo secondo il Missale Romanum nella stesura promulgata dal beato
Giovanni XXIII, prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Un testo, quindi, già cristallizzato
nella sua redazione e circoscritto nel suo uso attuale, secondo le ormai note disposizioni contenute nel motu proprio
papale Summorum Pontificum dello scorso luglio.
All'interno, dunque, del nesso che unisce intimamente l'Israele di Dio e la Chiesa cerchiamo di individuare le
caratteristiche teologiche di questa preghiera, in dialogo anche con le reazioni severe che essa ha suscitato in
ambito ebraico. La prima è una considerazione "testuale" in senso stretto: si ricordi, infatti, che il
vocabolo textus rimanda all'idea di un "tessuto" che è elaborato con fili diversi. Ebbene, la
trentina di parole latine sostanziali dell'Oremus è totalmente frutto di una "tessitura"
di espressioni neotestamentarie. Si tratta, quindi, di un linguaggio che appartiene alla Scrittura Sacra, stella
di riferimento della fede e dell'orazione cristiana.
Si invita innanzitutto a pregare perché Dio "illumini i cuori", così che anche gli Ebrei "riconoscano
Gesù Cristo come salvatore di tutti gli uomini". Ora, che Dio Padre e Cristo possano "illuminare gli occhi
e la mente" è un auspicio che san Paolo già destina agli stessi cristiani di Efeso di matrice sia
giudaica sia pagana (1, 18; 5, 14). La grande professione di fede in "Gesù Cristo salvatore di tutti gli
uomini" è incastonata nella Prima lettera a Timoteo (4, 10), ma è anche ribadita in forme
analoghe da altri autori neotestamentari, come, ad esempio, il Luca degli Atti degli Apostoli che mette in
bocca a Pietro questa testimonianza davanti al Sinedrio: "In nessun altro c'è salvezza; non vi è
infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" (4,
12).
A questo punto ecco l'orizzonte che la preghiera vera e propria delinea: si chiede a Dio, "che vuole che tutti gli
uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità", di far sì "che, con l'ingresso della
pienezza delle genti nella Chiesa, anche tutto Israele sia salvo". In alto si leva la solenne epifania di Dio
onnipotente ed eterno il cui amore è come un manto che si allarga sull'intera umanità: egli, infatti si
legge ancora nella Prima lettera a Timoteo (2, 4) "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla
conoscenza della verità". Ai piedi di Dio si muove, invece, come una grandiosa processione planetaria, che
è fatta di ogni nazione e cultura e che vede Israele quasi in una fila privilegiata, con una presenza
necessaria.
È ancora l'apostolo Paolo che conclude la celebre sezione del suo capolavoro teologico, la
Lettera ai Romani, dedicata al popolo ebraico, l'olivo genuino sul quale noi siamo stati
innestati, con questa visione la cui descrizione è "intessuta" su citazioni profetiche e salmiche: l'attesa
della pienezza della salvezza "è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti; allora tutto Israele
sarà salvato come sta scritto: DaSionuscirà il liberatore,egli toglierà le empietà da
Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati"(11,25-27).
Un'orazione, quindi, che risponde al metodo compositivo classico nella cristianità: "tessere" le invocazioni
sulla base della Bibbia così da intrecciare intimamente credere e pregare (è un'interazione tra
le cosiddette lex orandi e lex credendi).
A questo punto possiamo proporre una seconda riflessione di indole più strettamente contenutistica. La
Chiesa prega per aver accanto a sé nell'unica comunità dei credenti in Cristo anche l'Israele
fedele. È ciò che attendeva come grande speranza escatologica, cioè come approdo ultimo
della storia, san Paolo nei capitoli della Lettera ai Romani (capitoli 9-11) a cui sopra accennavamo. È
ciò che lo stesso Concilio Vaticano II proclamava quando, nella costituzione sulla Chiesa, affermava che
"quelli che non hanno ancora accolto il Vangelo in vari modi sono ordinati ad essere il popolo di Dio, e per primo
quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale è nato Cristo secondo la carne, popolo
in virtù dell'elezione carissimo a ragione dei suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono
irrevocabili" (Lumen gentium, n. 16).
Questa intensa speranza è ovviamente propria della Chiesa che ha al centro, come sorgente di salvezza,
Gesù Cristo. Per il cristiano egli è il Figlio di Dio ed è il segno visibile ed efficace
dell'amore divino, perché come aveva detto quella notte Gesù a "un capo dei Giudei", Nicodemo "Dio ha
tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, e non lo ha mandato per giudicare il mondo ma perché il
mondo si salvi per mezzo di lui" (cfr Giovanni, 3, 16-17). È, dunque, da Gesù Cristo, figlio
di Dio e figlio di Israele, che promana l'onda purificatrice e fecondatrice della salvezza, per cui si può
anche dire in ultima analisi, come fa il Cristo di Giovanni, che "la salvezza viene dai Giudei" (4, 22).
L'estuario della storia sperato dalla Chiesa è, quindi, radicato in quella sorgente.
Lo ripetiamo: questa è la visione cristiana ed è la speranza della Chiesa che prega. Non è
una proposta programmatica di adesione teorica né una strategia missionaria di conversione. È
l'atteggiamento caratteristico dell'invocazione orante secondo il quale si auspica anche alle persone che si
considerano vicine, care e significative, una realtà che si ritiene preziosa e salvifica. Scriveva un
importante esponente della cultura francese del Novecento, Julien Green, che "è sempre bello e
legittimo augurare all'altro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono,
non frenare la tua mano". Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto della libertà e dei diversi
percorsi che l'altro adotta. Ma è espressione di affetto auspicare anche al fratello quello che tu consideri
un orizzonte di luce e di vita.
È in questa prospettiva che anche l'Oremus in questione pur nella sua limitatezza d'uso e nella sua
specificità può e deve confermare il nostro legame e il dialogo con "quel popolo con cui Dio si
è degnato di stringere l'Antica Alleanza", nutrendoci "della sua radice di olivo buono su cui sono innestati i
rami dell'olivo selvatico che siamo noi Gentili" (Nostra aetate, n. 4). E come pregherà la Chiesa nel
prossimo Venerdì Santo secondo la liturgia del Messale di Paolo VI, la comune e ultima speranza è
che "il popolo primogenito dell'alleanza con Dio possa giungere alla pienezza della redenzione".
(© L'Osservatore Romano - 15 febbraio 2008)