Riprendiamo dal sito di Roberto Vecchioni www.vecchioni.it l’intervista pubblicata da CLASS dell’ottobre 2007. Ne è autore Marco Gregoretti ed il testo reca il titolo originario di Onore al rigore e al merito. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (13/12/2007)
Ha due figlie femmine laureate e due figli maschi che ancora studiano. Per 37 anni ha insegnato
latino, greco e storia al liceo classico a Milano, Rho e Desenzano. Dal 2000 è in pensione, ma non ha
interrotto il suo contatto con gli studenti: gira per le scuole d’Italia a parlare di poesia e musica. Roberto
Vecchioni, 64 anni compiuti a giugno, contento di essere dello stesso segno zodiacale di Marcel Proust e di Antonio
Gramsci (Cancro), ha vissuto “dall’altra parte della barricata”, quella dei professori, tre decenni
di scuola, di contestazioni, di riflusso, di rapporti con il potere, di problematiche insegnanti-genitori, di riforme
fatte e annunciate.
Se c’è uno, dunque, che può parlare con cognizione di causa di come era, come è e come
dovrebbe essere l’istruzione elementare, media inferiore e media superiore in Italia, è il popolare
cantante autore di Luci a San Siro e di Samarcanda. A ottobre, il mese in cui una volta iniziava la
scuola, escono un suo libro di poesie per l’editore Frassinelli e, martedì 23, l’ultima fatica
musicale: 13 brani per un’ora di durata. “C’è tutto in questo disco”, dice Vecchioni,
“pop, rock, rabbia, delusioni, gioie immense. Potrebbe essere l’ultimo”. Quasi un annuncio che
l’ex professore lascia nell’aria, mentre seduto su una seggiola di paglia nel giardino della sua casa di
Barcuzzi, riflette sui temi dello studio e della scuola, godendosi una vista mozzafiato sul Lago di Garda.
“Forse sono diventato un parruccone e pretendo sempre di più. Ma penso che sia giunto il momento di
mettere un freno al permissivismo dilagante e tornare al rigore del metodo, al sacrificio
dell’apprendimento”.
Professor Vecchioni, che cosa pensa della scuola di oggi? Funziona bene secondo lei?
Il funzionamento è un dettaglio, per paradosso. I nodi sono molti, e sistemici. A cominciare da
un’interpretazione sbagliata dell’istruzione da parte dello Stato italiano. Manca la voglia di essere
primi nel mondo, di eccellere nelle arti come nelle scienze e nella tecnologia. L’Italia dovrebbe dare
l’esempio perché ha più cultura di tutti, più storia di tutti. Non sono un teorico,
naturalmente, parlo di stomaco. Ma qualcosa bisogna fare.
Cosa le suggerisce il suo stomaco?
Di ritornare indietro. Come dire? Un ritorno avanti. Oppure: avanti con ricordo. In concreto: ripartire dal
linguaggio, dalla logica, dalla sua applicazione… il linguaggio, la meticolosità dell’uso
della parola significano attenzione; la logica permette di andare oltre la superficie, di capire cosa si sta facendo;
l’applicazione costringe al rigore. Ripeto, con l’età pretendo sempre di più. Ma come si fa
ad essere competitivi se non c’è una base? Per esempio: oggi abbiamo scoperto la tecnologia. Ma siamo i
padroni o i suoi servi? Secondo me, i giovani sono servi del computer. Come sono schiavi di tutto ciò che
facilità la vita. Eppure penso che i ragazzi di oggi siano bravi…
Allora qual è il problema?
È che si fermano al come. Non affrontano il perché, fondamento che è diretto a ogni cosa.
Questo deve dare la scuola: il senso, il significato. Non solo Umanismo, ovvero essere usati o semplicemente
aiutati dalla scienza, ma anche Umanesimo, cioè capire il senso, avere il fine.
Quindi lei vede degli studenti di liceo superficiali, svogliati, pigri…
No, no. Penso che si limitino a chiedersi come fare un progetto, come perorare una causa, come studiare…
non fanno il salto successivo: perché realizzo questo progetto, perché è giusto perorare una
causa, perché studio…
Però gli studenti elaborano quello che trovano a scuola…
Attenzione: non è colpa degli insegnanti. Loro si battono. È il vertice, diciamo così, politico
che non è sensibile, che presta poca attenzione alla struttura e al sistema scolastico di un paese,
l’Italia, che dovrebbe essere un esempio in questo campo. In realtà, non si è fatto proprio
nulla. Bisogna ricominciare da capo e fare scuola, farla pesantemente, con gli esami a settembre, la meritocrazia.
Credo che questa sia democrazia, non il demagogico permissivismo. Uno Stato deve aiutare chi è capace, chi
ha meriti. Anche il mondo dell’economia dovrebbe farsi sotto: quattro anni fa ho fatto un giro per le
industrie con un gruppo di ragazzi napoletani. Industriali, perché non andate nelle scuole e prendete i
più bravi?
Quando lei dice che è necessario tornare indietro, intende alla scuola degli anni Cinquanta e
Sessanta?
Dal punto di vista del metodo sì. La linearità della scuola di 40 anni fa non andava cambiata,
bastava abolire l’eccessivo nozionismo. Ma per il rigore e la serietà non ho dubbi: i ragazzi devono
faticare. Basta accarezzarli, fategli il culo fin da piccoli. Sono loro che vogliono così: chiedono che gli
si dica dei no. Hanno voglia di impegni più gravosi. Fare sacrifici è un’ottima parola
chiave. Per i ragazzi, dico, non per gli insegnanti che ne fanno già abbastanza. Mi sembra che
l’Italia non riesca ad avere una cultura dell’educazione rigorosa. Invece è un valore aggiunto che
dovrebbe avere ogni tipo di studio, dai licei agli istituti professionali: non esistono più scuole di serie A
e di serie B.
Un esempio di sacrificio scolastico?
Dare il tempo al sacrificio della letteratura. Tolstoj, Dante… Io sono cattolico, però da
ragazzo andare a messa, secondo me, era una perdita di tempo. Poi ho capito che quello era il luogo.
Chissà se i genitori sono d’accordo con lei. In fin dei conti partecipano all’epoca del
permissivismo…
Guardi, io ho visto per 37 anni che cosa succede nella triangolazione insegnanti-figli-genitori…
Che cosa succede?
Che gli insegnanti conoscono il ragazzo in un modo, i genitori in un altro modo. Quante volte parlando con le madri
mi dicevo: questo di cui stiamo parlando non è il ragazzo che conosco io, è un’altra
persona. Soprattutto nelle grandi città in provincia è un po’ meglio. A Milano il genitore
vuole spiegarti com’è suo figlio. A Desenzano e a Rho, invece, ti chiedono semplicemente
com’è a scuola.
E allora come dovrebbero articolarsi i rapporti tra le famiglie e la scuola?
Secondo me, la relazione insegnanti-genitori va interpretata come il militare: qual è la mamma che va a
parlare con il tenente? Preciso: sono pacifista e contro la guerra. Ma la prima regola è avere fiducia nei
professori. E se vostro figlio torna a casa e dice di essere stravolto, non credetegli, non esistono insegnanti che
li stravolgono. I giovani studenti devono sapere che il futuro loro e degli altri dipende dalla formazione di
base. E, quindi, devono sbattersi. Se vogliono battere le macchine, devono avere una cultura. Ecco perché
non è più accettabile alcun permissivismo. Certo, l’esempio deve arrivare dalla
società.
E invece?
Invece, con quello che abbiamo sotto gli occhi i giovani non possono che arrabattarsi.
E la scuola che cosa dovrebbe fare?
Dare a tutti, fino a 16 anni, la possibilità di capire cosa, come (e perché) stanno facendo. Negli
ultimi tre anni di insegnamento mi sembrava tutto inutile. Sentivo che da parte dei miei studenti l’ascolto era
molto basso. Non riuscivano a capire come materie che a loro sembravano inutili, tipo la storia, il greco e il
latino, in realtà siano una straordinaria carezza dell’anima. Ecco, alla scuola chiederei innanzi tutto
di insegnare che cosa è bello, di divulgare l’armonia, di spiegare il senso dei valori. Lo studente
risponda scoprendo la pazienza, non abbia mai paura che tutto finisca. Mi rendo conto che è difficile oggi,
viso che il massimo dei valori è inviare 100 sms al giorno o mangiare i gelati sulla spiaggia. In effetti,
secondo me, bisogna che il ministero intervenga drasticamente per abolire ogni facilitazione.
Lei, allora, come immagina che possa riprendere slancio l’istruzione italiana?
Penso che a scuola vada introdotta una tirannide attenta e meditata: è un bruttissimo momento perché
non c’è preparazione di base, nello stesso tempo causa e conseguenza del fatto che i ragazzi non
riescono a innamorarsi di quello che stanno facendo. Voglio dire che, certo, è importante studiare
l’inglese. Ma forse è ancor più importante conoscere l’origine delle nostre parole,
l’analisi logica, la logica matematica… se succedesse, beh, ci si potrebbe innamorare anche della
tecnologia, del computer.
Secondo lei, dunque, a scuola si va tanto per andarci, al limite per imparare qualche cosa di utile per il
lavoro?
Esatto. Come dicevo prima: non basta il come, serve il perché, il senso di quello che si sta
studiando…
E allora vediamo che cosa risponde a questa domanda. Se lo studio non deve servire ad apprendere qualcosa di
utile, perché si va a scuola?
Per diventare una persona.