Mettiamo a disposizione sul nostro sito la relazione di mons.Ermenegildo Manicardi pubblicata sul Notiziario dell’Ufficio catechistico Nazionale, 3, settembre 2007, XXXVI, pp.63-75, tenuta in occasione del XLI Convegno Nazionale dei direttori UCD, durante il convegno di Vasto Marina (Ch). La relazione è già pubblicata on-line nella sezione Notiziario del sito dell’Ufficio Catechistico Nazionale della CEI. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (14/12/2007)
La Parola di Dio ha sempre, per noi, due valenze complementari. Da una parte essa è una
straordinaria risposta alle nostre domande di senso; dall’altra appare spesso come un’inattesa
apertura d’orizzonte che porta ciascuno ben oltre le proprie ricerche.
Ciò accade in tutti e tre i livelli fondamentali in cui la «Parola di Dio» si articola. La
«Parola di Dio», intesa come rivelazione di Dio e totalità
dell’autocomunicazione divina, è l’indicazione perfetta del significato finale della vita
dell’uomo; al tempo stesso, è un’apertura di orizzonti che, nella loro infinitezza ed
eternità, trascendono quanto l’uomo potrebbe legittimamente aspettare. La «Parola di Dio»,
che è la persona eterna del Figlio diletto, a partire dai giorni dell’incarnazione, fa apparire
nella storia il punto più alto cui l’essere umano può aspirare. Al tempo stesso, la Parola/Figlio
è il totale compimento della possibile perfezione dell’uomo. Infine, la «Parola di Dio»,
contenuta nel dono della Sacra Scrittura fatto alla Chiesa, non è soltanto la testimonianza
perenne della comunicazione di Dio all’uomo, ma anche uno dei principali strumenti divini, offerti agli uomini
perché imparino a scrivere il progetto divino dentro la propria storia personale e nella cultura nella quale
si muovono.
In queste sue tre forme, la Parola di Dio si pone sempre di fronte alle ricerche condotte dall’uomo. Essa non
offre soltanto – in maniera per così dire statica – il «senso» inteso come significato
concettuale della realtà, ma, piuttosto, indica dinamicamente il «senso di marcia» entro cui
l’uomo si trova e che può scegliere di intensificare. Lo scopo della Parola di Dio non è
semplicemente di confermare quanto è in qualche modo già presente nel soggetto che cerca, ma indica,
con decisione, la necessità di andare oltre quanto preventivato – o anche solo presentito –,
orientando l’uomo ad uscire fuori di sé e ad incamminarsi, in maniera decisa, verso ciò che
è altro e trascendente.
In quest’ultimo senso si può e si deve affermare che il Vangelo è sempre
«sorpresa» per l’uomo che lo riceve. Concettualmente si possono distinguere tre piani.
Anzitutto, il Vangelo è «sorpresa» perché rivela il Dio nascosto, che cerchiamo
«andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi» (At 17,27). Inoltre, esso
racconta come, nell’incarnazione del Figlio, Dio ha cercato e accolto in sé la totalità della
realtà umana e le singole persone che condividono «la carne» di Gesù. Infine, nel Vangelo
abbiamo la «sorpresa» di incontrare, in Gesù di Nazaret crocefisso e risorto, l’uomo che
svela veramente chi siamo (cfr. Lumen Gentium 22).
Quali sono gli atteggiamenti fondamentali che l’uomo può e deve assumere di fronte a questo Vangelo,
con la sua inesauribile ricchezza di senso donato e d’orizzonte inatteso? Certamente c’è da
valorizzare «la ricerca» nativa nell’esperienza dell’uomo stesso. Contemporaneamente,
però, poiché il Vangelo è debordante rispetto ai «pensieri umani»[1], c’è l’esigenza seria che, oltre al
ricercare della persona, ci sia anche l’attivazione dell’ascolto, attento e diretto degli elementi
che il soggetto ricercatore non attendeva. Più in profondità ancora, l’ascolto rimanda alla
necessità di un sobrio e paziente atteggiamento contemplativo: tutt’altro che raramente, infatti,
l’uomo è chiamato a confrontarsi con un silenzio in cui la parola èdel tutto sparita. In questo
terzo stadio il ricercatore/ascoltatore, per non bloccarsi e procedere nel cammino, deve diventare un serio
contemplativo.
Proviamo a riflettere sui tre passaggi «ricerca» / «ascolto» /
«contemplazione», lasciandoci illuminare dalla Parola di Dio custodita nelle Scritture e utilizzando
soprattutto testi che incontriamo nei vangeli. Forse, anche in questo caso particolare, scopriremo che la Parola di
Dio risponde soltanto portandoci oltre i livelli delle nostre spontanee attese.
Il «cercare» esprime una delle migliori potenzialità dell’umanità nel suo insieme – o, se si preferisce, della natura umana –, ma anche della persona concreta che è capace di mettersi in ricerca. Basti pensare agli esempi eminenti del cammino della scienza, della filosofia, dell’ascetica, dell’arte. Giustamente l’umanità vede in tanti qualificati scienziati, filosofi, asceti e artisti che si sono spesi in una ricerca interrotta, il meglio della propria realizzazione.
Il «cercare» esprime sempre un’apertura della persona che lo esercita e,
quindi, contiene sempre anche una religiosità almeno iniziale. Ciononostante, il «cercare» non
realizza il punto più alto dell’atteggiamento dell’apertura e, in particolare da un punto di
vista religioso, non è difficile osservare che esso porta in sé anche un innegabile restringimento. La
«ricerca» propone il trascendimento del limite della persona, che appunto cerca fuori di sé, ma,
al tempo stesso, pone come centro dinamico l’uomo che s’interroga. In questo senso la
possibilità di risposta rimane condizionata dal soggetto stesso, dal suo sentire e, in qualche modo, dalle sue
dimensioni. Si potrebbe dire che il «cercare» propone al ricercatore un’uscita da sé, ma
contemporaneamente rafforza il punto essenziale della ricerca del soggetto. In questo modo – per quanto
ciò possa apparire paradossale – la ricerca finisce per relativizzare, almeno in parte, la stessa uscita
da sé che propone.
In particolare da un punto di vista religioso, intenzionato espressamente ad aprirsi alla trascendenza, appare
evidente che l’atteggiamento dell’«ascolto» è più compiuto di quello della
ricerca. Si può dire che l’«ascolto» è una «ricerca» che si affida
incondizionatamente all’esterno e attende qualcosa che viene completamente dal «di
fuori». Nell’orizzonte della rivelazione, l’uomo è attivo nella ricerca soprattutto in
quanto si apre alla risposta, ossia quando ascolta e, per comprendere, si lascia riempire. Il posto centrale, in
questo caso, è occupato da Dio e da quanto Lui dice ed opera, e non dal soggetto umano in cammino. Forse si
può dire che, «cercando», l’io si concentra su se stesso, diventando una specie di punta, di
cuneo o di freccia che si assottiglia per mirare all’obiettivo, che la persona intende trovare. Al tempo
stesso, in questa tensione, il soggetto continua a portare con sé la propria realtà, pur se alleggerita
e rafforzata. «Ascoltando», invece, l’io più che concentrarsi su di sé, si allarga
verso l’esterno, si dilata e tenta di «comprendere» quello che ha di fuori. È
ascoltando, più ancora che ricercando, che l’anima umana può divenire «in qualche modo
tutte le cose» (quodammodo omnia)[2].
Cominciando l’analisi di passi evangelici, che permettono di approfondire il nostro tema,
merita osservare sinteticamente come il «cercare» Gesù sia una figura ben riconoscibile al
principio e alla fine di tutte le narrazioni evangeliche. In corrispondenza con le valutazioni avanzate sopra,
è facile osservare che il tema riceve in tutti i vangeli[3] un’attenzione precisa (presenza sia all’inizio sia alla
fine di tutte le narrazioni), ma anche un «dimensionamento» consapevole dei limiti in questione
nella ricerca umana.
Nel Vangelo secondo Matteo la ricerca di Gesù appare già nei passi che riguardano
l’infanzia. La luce non è delle migliori perché il primo a cercare Gesù (per ucciderlo)
è il re Erode in persona (cfr. Mt 2,13) coadiuvato dai suoi collaboratori (cfr. Mt 2,20). Di fatto inizia
qui quella «ricerca» che alla fine porterà alla passione e alla morte di Gesù (cfr. Mt
21,46; 26,16.59). Verso la fine della narrazione del primo Vangelo canonico, il tema ritorna per caratterizzare
l’atteggiamento delle donne venute a visitare la tomba di Gesù (Mt 28,5). Matteo riprende qui il
racconto marciano parallelo (cfr. Mc 16,6). La sua redazione probabilmente intende differenziare
l’atteggiamento delle donne da quello dei soldati di guardia al sepolcro e/o dei loro mandanti: «Non
abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso» (Mt 28,5)[4]. Ad ogni buon conto, la ricerca delle donne al sepolcro
raggiunge l’obiettivo soltanto passando per la tappa dell’ascolto: «Non è qui. È
risorto, come aveva detto ... Presto andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti» (Mt
28,6-7). Matteo è consapevole che la ricerca di Gesù, pur indicando un elemento che può essere
positivo, tuttavia ha bisogno di passare per la tappa essenziale dell’ascolto. Le donne, infatti, possono
incontrare il Signore soltanto quando, mosse dal messaggio dell’angelo, obbediscono e si mettono in cammino
(cfr. Mt 28,9-10).
Nel vangelo secondo Luca la prima ricerca di Gesù è quella che i genitori fanno del
dodicenne (Lc 2,48-49). Più avanti ci soffermeremo sull’inadeguatezza – imbarazzante e
rivelatrice – dell’atteggiamento di Maria e di Giuseppe in questa situazione. L’ultima menzione
nella narrazione evangelica lucana è, di nuovo, un parallelo al racconto marciano delle donne al sepolcro.
In Luca le donne sono rimproverate per il livello inadeguato del loro atteggiamento verso Gesù, nonostante
l’affetto che le ha portate alla tomba: «perché cercate il Vivente [ come fosse ] insieme ai
morti?!» (Lc 24,5). Nell’insieme, in Luca, i sospetti sui limiti della «ricerca» appaiono
ancora più netti di quanto si sia rilevato in Matteo. All’inizio della narrazione la
«ricerca» è descritta con toni negativi, pur essendo attribuita ai genitori terreni di Gesù
che sono personaggi certamente positivi. Nel finale la ricerca delle donne – anch’esse personaggi in
sé assolutamente positivi – appare affettuosa, ma teologicamente inadeguata alla novità della
risurrezione.
Nel Vangelo secondo Giovanni il tema emerge, sia all’inizio che alla fine, non nel tessuto del
narratore ma nelle parole di Gesù. All’inizio Gesù domanda ai due discepoli di Giovanni, che
lo stanno seguendo: «Che cosa cercate?» (Gv 1,38). Davanti al sepolcro vuoto, il Risorto rivolge una
domanda simile a Maria Maddalena che sta soffrendo per Gesù: «Donna, perché piangi? Chi
cerchi?» (Gv 20,39). Le parole di Gesù non contengono toni di rimprovero o rilievi espliciti
d’insufficienze. È vero però che, in entrambi i casi, la ricerca trova il suo obiettivo soltanto
quando sarà completata da un’iniziativa che parte da colui, che è cercato. Si tratta,
rispettivamente, di «Venite e vedrete» (Gv 1,39) o del fatto che Egli chiami la donna per nome (Gv
20,16).
La superiorità dell’«ascoltare» sul semplice «cercare» sembra
percepita, con una specie di sistematica chiarezza, nella narrazione marciana. Marco fa un grande uso del verbo
«cercare», ma ciò non gli impedisce di esprimerne anche le insufficienze e i limiti. Non a
caso un esegeta ha scelto di intitolare la conclusione di uno studio dedicato specificamente al tema:
«Miseria e grandezza del cercare Gesù»[5].
Tralasciando le ricerche ambigue e quelle ostili[6], esaminiamo i tre passi principali in cui il narratore presenta una ricerca di
Gesù che, almeno in partenza, può essere ritenuta abbastanza sana. Proprio in questi casi si vede che,
se non c’è un superamento realizzato nell’ascolto, la sola ricerca non conduce a conclusione
piena.
«Tutti ti cercano» (Mc 1,35-39). In Marco la prima ricorrenza del tema del «cercare»
Gesù (verbo utilizzato zêtéo) si trova alla fine della giornata inaugurale di Gesù
a Cafarnao. I portavoce del grido «tutti ti cercano» sono i suoi primi discepoli. Più in
particolare, si tratta di Simone (cfr. Mc 1,36), chiamato al discepolato insieme al fratello Andrea (cfr. Mc
1,16-18). Simone aveva già ospitato Gesù nella sua casa di Cafarnao e aveva vissuto la guarigione della
suocera (cfr. Mc 1,29-31). Oltre ad Andrea, gli altri – definiti «quelli con lui» (Mc 1,36) –
sono probabilmente Giacomo e Giovanni, i due figli di Zebedeo, chiamati alla sequela subito dopo Simone e il fratello
(Mc 1,19-20). La dichiarazione «tutti ti cercano» è la proposta di tornare nel villaggio.
Gesù, però, invita i suoi a seguirlo «altrove» (Mc 1,38). Il cammino della sequela
diventa concreto proprio in forza di questa peregrinazione che li condurrà per tutta quanta la Galilea (Mc
1,39). I discepoli diventano veramente tali quando vanno dove Gesù intende andare, e loro non
vorrebbero. In quel momento essi si muovono dietro a Gesù ed entrano in una più profonda relazione
con lui. Di fatto, lo fanno superando i limiti della propria ricerca[7]. Ancora una volta non è la ricerca o il farsi portatori di una ricerca altrui
che crea il rapporto con Gesù, ma l’accoglienza di una sua parola che ci trascina fuori di noi.
La ricerca dei familiari (Mc 3,31-35). Il racconto visualizza, in maniera straordinariamente chiara e
drammatica, il contrasto tra «il cercare», realizzato da parte dei parenti di Gesù, e il
più profondo «ascoltare» che caratterizza l’atteggiamento dei discepoli.
L’atteggiamento di quelli che, stando fuori, cercano Gesù (Mc 3,31) non è, soltanto o
soprattutto, d’ostilità. Probabilmente, anche se il loro giudizio sulla situazione di Gesù non
è positivo – pensano di lui: «è fuori di sé» (Mc 3,22) –, tuttavia
c’è una vera preoccupazione per lui. Si muovono a cercarlo perché si sentono quelli della sua
parte (hoi par’autoû). Il racconto offre anche un’opposizione visiva: chi cerca Gesù
sta fuori, e chi lo ascolta è seduto in casa, in cerchio attorno a lui. La tensione, che realizza un vero
rapporto con Gesù, non è il cercarlo, anche se con serietà e preoccupazione, ma
l’ascoltarlo. Chi cerca parte dalle proprie idee, maturate su una base oggettiva (Gesù non mangia
sempre), ma segnate da interpretazioni discutibili («È fuori di sé»). Chi ascolta si apre
totalmente verso l’esterno ed attende di capire qualcosa che non è posto dalle sue misure. Il discepolo
in senso pieno non è chi cerca dopo avere dato una propria valutazione di partenza, ma uno che, stando seduto
con altri intorno a Gesù, accetta di far parte di una cerchia e si allarga ad accogliere qualcosa di reale che
si trova all’esterno e si allena a fare la volontà di Dio.
La ricerca delle donne al sepolcro (Mc 16,1-8). Marco esprime la dialettica ricerca/ascolto soprattutto
nell’epilogo. Le donne, secondo le parole del giovane seduto nel sepolcro vuoto, sono venute a
cercare «Gesù, il nazareno, il crocefisso» (Mc 16,6). Per quanto queste parole indichino
volutamente una ricerca completa, che ben individua l’intero cammino di Gesù, così come
l’Evangelista l’ha descritto – ossia da Nazaret alla croce –, tuttavia occorre che le donne
passino attraverso l’ascolto del kerygma «è risorto» (Mc 16,6). La profondità
della loro sequela, anche se già più prolungata di quella dei discepoli, deve misurarsi, per
diventare piena, sull’ascolto e sull’accettazione di una parola inaspettata. Le donne cercano
Gesù con gli oli per imbalsamarlo. Il grido «è risorto» apre la breccia nella ristrettezza
di una ricerca che da un semplice punto di vista umano, potrebbe apparire anche molto generosa. Il nostro racconto
non parla solo delle donne, ma presenta una sorte simile anche per i discepoli. Per poter riprendere la sequela
interrotta nella passione, anche loro devono parimenti ascoltare sia il kerygma sia quanto le donne sono
mandate a dire: «Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo
vedrete, come vi ha detto» (Mc 16,7).
L’esame dei testi marciani, in cui emerge il tema del ricercare Gesù, ci ha già portato verso l’essenzialità della dimensione dell’ascolto. Raggiungiamo la vera risposta alle nostre ricerche, soprattutto quando dalla Parola siamo spinti all’ascolto. Gesù offre all’uomo la possibilità di cogliere il senso delle sue attese, offrendogli qualcosa che supera le sue domande. Il Vangelo secondo Luca presenta non pochi racconti che narrano come le attese e le ricerche dei diversi interlocutori siano allargate con l’ascolto. Prendiamo alcuni esempi.
Il racconto dell’annunciazione presenta come l’itinerario e l’esperienza
fondamentale di Maria siano stati generati a partire dall’ascolto.
La dinamica dell’episodio parte dall’appellativo con cui l’angelo Gabriele si rivolge a Maria,
suscitando la sua sorpresa feconda. Il nome kecharitôménê – un termine veramente
ricco e difficile – dice molto di più della semplice traduzione «piena di grazia».
L’espressione «pieno di grazia» (plêres cháritos) non ha molto di singolare:
essa è utilizzata da Luca senza particolare enfasi per caratterizzare la figura di Stefano (At 6,8). Il
participio perfetto kecharitôménê (derivato dal verbo charitóô) indica,
come tutti i verbi greci denominali che terminano in –óô, un trasformare l’oggetto
secondo le qualità del nome da cui il verbo è ricavato. Così leukóô (da
leukós = «bianco») significa far diventare bianco. Il participio perfetto passivo
kecharitôménê indica, di conseguenza, un’idea del tipo «tu che sei stata fatta
diventare grazia»[8] oppure «tu che ormai
hai uno speciale rapporto con la grazia».
Per dare concretezza reale all’espressione occorre, però, cercare di individuare in che senso Luca posa
comprendere il termine «grazia» (cháris) da cui il denominale charitóô
è derivato. Un aiuto importante riteniamo ci venga da un caso linguistico provvidenziale per il lavoro
esegetico. Luca, in un testo degli Atti degli Apostoli, riporta un passo del discorso di Stefano in cui si dice:
«Questi (ossia il re Davide) trovò grazia innanzi a Dio e domandò di poter trovare
una dimora per il Dio di Giacobbe» (At 7,46)[9].
L’allusione è alla scelta che Dio ha fatto di Davide e al progetto di edificare per lui una casa.
L’angelo, parlando a Maria, indica il ruolo decisivo che Dio, nel suo disegno, ha assegnato a Maria usando
l’appellativo kecharitôménê (Lc 1,28) e, subito dopo, si spiega più
chiaramente utilizzando per la vergine di Nazaret l’espressione «hai trovato grazia presso Dio» (Lc
1,30)[10], la stessa che At 7,46 usa per Davide, che
trovò grazia innanzi a Dio. Questa interpretazione del senso di kecharitôménê
si combina bene con la menzione di Davide, fatta già in 1,27 – ossia prima della presentazione del nome
stesso di Maria! –, e con il ricordo del «trono di Davide» in 1,29. Maria è «diventata
grazia» perché il Signore, nel suo disegno ha scelto lei per collocarla nel centro del compiersi della
promessa di una discendenza per Davide; ossia, proprio di quella promessa che le Scritture chiamano «la
grazia» assicurata a Davide. L’atteggiamento decisivo del cammino di Maria non è una sua
ricerca, ma l’ascolto attento e umile. Maria è sorpassata e sorpresa dalla Parola che le è
rivolta. Non si tratta di una risposta ad un desiderio di senso già custodito nella propria vita, ma di un
orizzonte del tutto inatteso che all’improvviso le si spalanca davanti.
Maria, quando comprende che da lei deve nascere il discendente davidico, presenta la domanda «come
sarà questo?» (Lc 1,34), ossia come deve avvenire ciò di cui mi hai parlato? La
risposta dell’angelo, con l’indicazione inaspettata della verginità, mette Maria, ancora una
volta, non di fronte al compimento di una precedente ricerca, ma apre un orizzonte nuovo. La sorpresa è
tale che l’angelo presenta un segno per aiutare Maria ad immaginare la possibilità dell’annuncio
sconvolgente che ha ricevuto. Elisabetta ha ricevuto un figlio nella sterilità e nella vecchiaia: per Dio
sarà possibile anche dare a Maria un figlio nella verginità.
L’allargamento dell’orizzonte attraverso la parola non si compie soltanto agli inizi.
Dodici anni dopo, Maria – questa volta assieme a Giuseppe – si trova di fronte ad un allargamento
necessario (Lc 2,41-51). In questa circostanza, il testo lucano si serve, come già sopra accennato, del verbo
«cercare». Nel momento del ritrovamento del ragazzo nel tempio, Maria pensa di trovarsi semplicemente di
fronte al figlio suo e di Giuseppe: «Tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). Il
ragazzo la costringe ad allargare la visuale. Il padre del bambino non è semplicemente Giuseppe. Gesù
deve fare i conti anche con il «Padre mio», oltre che con l’incarico ricevuto da lui. I genitori
umani lo «cercano» al loro livello – «tuo padre ed io» –, ma Gesù si
distanzia da loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre
mio?» (Lc 2,49).
In questo caso Luca dice con spregiudicatezza che Maria e Giuseppe «non compresero le sue parole» (Lc
2,50a). Gesù, però, sta sottomesso a loro che non capivano, senza nulla eccepire. La novità
della sua parola questa volta è tale che l’ascolto dei genitori non riesce ad esser immediato. Luca
calca ancora sul tema. Distanzia Maria da Giuseppe e dice che «sua madre serbava tutte queste cose nel suo
cuore» (Lc 2,50b). In questo custodire è implicito tutta la sorpresa e il contenuto eccedente
della parola che Maria ha ricevuto. Ascoltare può esigere un cammino anche lungo ed incerto. Luca
riparlerà di Maria, in un senso compiutamente pacificato, soltanto nella descrizione della Chiesa che attende
la Pentecoste (cfr. At 1,14).
Nelle narrazioni evangeliche abbiamo parecchi casi in cui l’incontro, in qualche modo
ricercato dagli stessi interlocutori, è perfezionato e, in parte, superato attraverso l’ascolto della
parola di Gesù. Gesù, intervenendo, smaschera le precedenti incompletezze e propone qualcosa di
più decisivo. Proponiamo come casi tipici gli esempi di Simone il fariseo, di Marta sorella di Maria e infine
del pubblicano Zaccheo.
Simone il fariseo invitando Gesù nella sua casa, è certamente uno che lo ricerca e vuole avere
relazione con lui (Lc 19,1-11). L’intervento della peccatrice porta in luce, però, che il cuore di
questo fariseo è ancora sospettoso nei riguardi di Gesù: «Se costui fosse un profeta, saprebbe
chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice» (Lc 7,39). Occorre la parola di
Gesù che smaschera la pochezza del gesto fatto da Simone. La sua generosità è stata veramente
scarsa: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi;
lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio,
lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio
profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi» (Lc 7,44-46). In effetti, questo è vero
perché «quello a cui si perdona poco, ama poco» (Lc 7,47). La ricerca di Gesù da parte
di Simone, se non diventasse ascolto, non darebbe al fariseo la pienezza.
Il personaggio di Marta indaffarata per accogliere Gesù nella sua casa è un altro caso di
ricerca non compiuta di Gesù (Lc 10,38-42). All’inizio colpisce la generosità con cui
s’impegna nel lavoro, ma di fronte all’assenza della sorella Maria reagisce con una certa violenza e si
rivela arrabbiata addirittura con lo stesso Gesù: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata
sola a servire? Dille dunque che mi aiuti» (Lc 10,40). La parola di Gesù svela la dispersione di
Marta, cui il cercare la presenza di Gesù nella sua casa non è bastato a trovare il senso vero del
proprio vivere: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose» (Lc 10,41). A fronte di
questo rischio Gesù conferma l’assoluta primarietà dell’ascolto, che Maria ha saputo
realizzare: «Una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte
migliore, che non le sarà tolta» (Lc 10,42).
Nel caso di Zaccheo, il capo dei pubblicani e ricco di Gerico, la ricerca è espressa
esplicitamente: «cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla,
poiché era piccolo di statura (Lc 19,3). È un altro caso da cui si vede bene che l’impostazione
corretta della vita si ha solo quando chi cerca Gesù si mette ad ascoltarlo, raggiungendo atteggiamenti prima
non preventivati: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno,
restituisco quattro volte tanto» (Lc 19,8).
Il nostro cammino non è ancora finito. Il passaggio più complesso non è quello dal «ricercare» all’«ascoltare», ma sta nella capacità di non interrompere l’ascolto anche quando la parola cede spazio al silenzio. Il momento decisivo si ha quando il «cercatore»/«ascoltatore» non si trova più di fronte ad una parola, ma al silenzio perdurante. È la situazione che Gesù ha vissuto sulla croce, ossia nell’estremo compimento dell’ascolto. A questo livello l’ascolto deve cedere il passo alla nuda contemplazione. Possiamo vedere i due racconti della morte di Gesù secondo Marco e secondo Luca. Diciamo fin dall’inizio che, in realtà, non si tratta di racconti così diversi tra loro come potrebbe apparire a prima vista.
Il racconto della morte di Gesù nel Vangelo di Marco contiene il caso più
clamoroso di ascolto della parola di Dio terminato davanti al silenzio. Gesù, dopo aver vissuto sempre in
ascolto del Padre, adesso, nell’estremo passaggio, attende, ma non riceve parola.
La tenebra, che per tre ore cala sulla terra, è da considerare non un effetto dell’assenza di Dio, ma
un segno della sua presenza, secondo una linea d’immagini bibliche ricapitolata nel buio della stanza del
santo dei santi nel tempio di Gerusalemme (cfr. 1Re 8,12-13)[11]. Dalle nove a mezzogiorno ci sono state tre ore d’insulti a Gesù da
parte di quanti, sul versante degli agenti umani e nel gioco delle situazioni storiche, sono quelli che hanno voluto
la morte di Gesù e ne godono i frutti (cfr. Mc 15,25-32). Da mezzogiorno alle tre c’è uno spazio
temporale della stessa durata, occupato da un segno che dice che Dio – il quale, nel suo disegno salvifico, ha
voluto la morte di Gesù come dono d’amore – è in qualche modo parimenti presente sul
Golgota (Mc 15,33). In due casi precedenti – nel battesimo e nella trasfigurazione – due segni di
presenza del Padre (i cieli squarciati e la nube) erano stati accompagnati anche da una parola illuminante («tu
sei il mio figlio diletto in cui mi compiaccio» e «questi è il mio figlio diletto
ascoltatelo»). Adesso il segno della tenebra non è accompagnato da nessuna parola. Gesù,
allora, si rivolge al Padre, silenziosamente presente nel segno della tenebra, e gli grida il dolore che questa
presenza assente gli provoca: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?» (Mc
15,34).
Il salmo, da cui sono prese queste parole, esprime proprio un lamento perché il Signore, pur presente nel
tempio, non interviene nella situazione dolorosa dell’orante: «“Dio mio, Dio mio, perché mi
hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza”: sono queste le parole del mio lamento. Dio mio, invoco di
giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo. Eppure tu abiti la santa dimora, tu, lode di
Israele. In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati; a te gridarono e furono salvati,
sperando in
te non rimasero delusi» (Sal 22,2-6). Queste parole non mostrano un Gesù in crisi di fede,
ma, anche se durissime, sono piuttosto da considerare come una manifestazione della permanenza del crocefisso in una
contemplazione realistica. Gesù percepisce la presenza di Dio alla sua morte, la crede e la soffre
perchè Dio non prende le sue difese, pur essendo veramente presente.
Proprio questo silenzio di Dio diventa l’apice del dolore del morente, ben più di quello causato dalle
sofferenze fisiche della crocifissione e di quello affettivo generato dall’abbandono dei discepoli scomparsi.
È la profondità di questo dolore che testimonia l’amore di Gesù mentre muore. Permanere
nell’amore, anche in questa situazione estrema di dolore, dice che Gesù è passato
dall’ascolto obbediente alla parola di Dio, percepita come guida di tutta la sua esistenza terrena, alla
contemplazione dell’agire di Dio che adesso tace.
Non raramente capita di ascoltare l’affermazione che Luca, leggendo il racconto marciano
della morte di Gesù, non avrebbe sopportato la durezza del grido drammatico di Gesù morente.
L’Evangelista avrebbe allora messo in bocca a Gesù un testo più tranquillo, ossia le parole un
po’ scontate della preghiera serale del pio Israelita. Le intenzioni di questa ermeneutica sono
indubbiamente buone, ma il risultato di questa proposta, di fatto, banalizza terribilmente Lc 23,44-46.
Non si tratta, però, di una proposta che rispetti davvero il tenore della redazione lucana[12]. Anzitutto va osservato che le ultime parole di
Gesù sono gridate «a gran voce» (cfr. Lc 23,46: phônê megalê) e
già questo mette in forse l’idea che si tratti di una pia preghiera serale. Chi grida, pensa che
l’altro a cui si rivolge sia lontano. Più probabilmente ancora il verbo
phônéô, che troviamo spesso tradotto con «gridare», dovrebbe essere reso meglio
con «chiamare». Lo si vede da vari usi di Luca nel libro degli Atti (At 9,41; 10,7.18; 16,28).
All’avvicinarsi della morte, quando già la terra (cfr. Lc 23,44: l’eclisse) e il tempio (cfr. Lc
23,45: il velo squarciato nel mezzo) avevano cominciato il loro lutto, secondo Luca, Gesù si è rivolto
al Padre, chiamandolo con voce forte, perché lo sentiva lontano, e gli ha dichiarato con forza la sua
volontà. Le parole «nelle tue mani io consegno il mio spirito», non sono una formula di una
preghiera adatta all’invocazione, ma la comunicazione autorevole di una decisione ormai presa. Di nuovo, credo,
possiamo parlare di contemplazione davanti al silenzio. Gesù vede la terra che si veste a lutto e il
tempio d’Israele che dà un segno chiaro della sua fine. Sente che la vita terrena gli sfugge e decide di
consegnare alla responsabilità del Padre – che si fa sentire lontano – quello spirito che la morte
separa dal corpo[13].
Il cammino biblico percorso ha confermato la consapevolezza che il Vangelo ha una dimensione
antropologica fondamentalmente duplice: è risposta a molte delle domande e delle ricerche che nascono dalla
situazione umana, ma è anche un’apertura che spinge l’uomo, oltre i suoi stessi desideri, verso i
territori inattesi della trascendenza. La destinazione alla salvezza dell’uomo esige proprio che il Vangelo
compia questa doppia funzione: sia soluzione alla ricerca della persona che s’interroga, ma sia anche una forza
ineliminabile che spinge affinché i limiti umani siano individuati, oltrepassati e superati. Di fronte a
questo Vangelo, l’uomo percorre un cammino progressivo in cui s’identificano, almeno logicamente, tre
gradini. Pare sia legittimo proporre una specie di scaletta. All’inizio c’è il cercare, più
o meno articolato, approfondito, filosofico o istintivo. Poi, quando avviene un più chiaro incontro con il
Vangelo, si passa all’ascoltare: il soggetto è decentrato da sé, mentre verso di lui arriva un
messaggio che, pur essendo perfettamente idoneo e connaturale alla sua realtà, è al tempo stesso
più grande e chiede che l’uomo concreto faccia qualche passo in avanti e cambi alcune delle convinzioni
e delle situazioni in cui si trova. Il terzo e ultimo passo si compie quando il Vangelo appare non più nelle
parole che si ascoltano, ma nel lungo spazio del silenzio: è allora che l’uomo deve entrare nella
contemplazione di Dio e del suo vero agire. È il passo più difficile, ma l’uomo che ascolta il
silenzio è giunto davvero alle soglie della trascendenza di Dio.
Rilanciando il cammino della Chiesa al termine della celebrazione del giubileo bimillenario, Papa Giovanni Paolo
II ha detto che gli uomini del nostro tempo rilanciano ai credenti la domanda dei greci che cercavano di vedere il
Signore: «Vogliamo vedere Gesù». Il credente, che è riuscito a permanere nella
relazione con il Vangelo camminando per i tre passi del «cercare» / «ascoltare» /
«contemplare», è figura dell’uomo capace, nella sua persona, di rendere visibile
Gesù.
A conclusione, forse, possiamo porre alcune domande che riguardano le responsabilità ecclesiali che noi tutti,
partecipanti a questo Convegno, viviamo nell’ordinarietà degli incarichi ricevuti. Ci sono nella
pastorale della Chiesa in Italia, per quanto concerne il rapporto con le Sacre Scritture in cui il Vangelo è
donato alla Chiesa ed all’uomo in modo eminente, forme di rapporto che aiutino gli uomini – credenti, in
ricerca o dispersi – ad entrare nel circuito virtuoso del «cercare» / «ascoltare» /
«contemplare»? La proclamazione liturgica è in grado di attivare o, almeno, di stimolare
l’attivazione d’itinerari di questo tipo? Nell’attività catechistica italiana, ossia in una
Chiesa ben sicura che il libro della catechesi è la Bibbia, si intravedono esperienze – soprattutto tra
adulti e giovani – in cui in Vangelo sia proposto in modo che si inizi a sperimentare qualcosa del percorso
«cercare» / «ascoltare» / «contemplare»?
Per altri articoli e studi di Ermenegildo Manicardi presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici
[1] Cfr. per esempio la vicenda di Pietro, come è capita da Gesù, in Mc 8,27-33.
[2] «Aristoteles... dixit, quodammodo animam esse omnia, in quantum est in potentia ad omnia, per sensum quidem ad sensibilia, per intellectum vero ad intelligibilia» (SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I. q. 84, a. 2); cfr. ARISTOTELE, L’anima, Libro III, c. 8.
[3] In questo primo sguardo tralasciamo il Vangelo secondo Marco, perché più sotto sarà oggetto di osservazioni analitiche specifiche.
[4] L’uso enfatico del «voi» sembra sottintendere un «a differenza dei soldati e/o dei loro mandanti».
[5] ROBERTO VIGNOLO, «Cercare Gesù: tema e forma del vangelo di Marco», in LUCIO CILIA, Marco e il suo vangelo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, 77-114.
[6] Come, per esempio, la ricerca dei farisei (cfr. Mc 8,10-13) oppure quella mortale dei nemici a Gerusalemme (Mc 11,28; 12,12) e, ancor più, quelle nel racconto della passione (Mc 14,1.11.55). Ovviamente queste «ricerche» sono meno utili per il nostro tema, che tratta dei limiti del «cercare» inteso in senso positivo.
[7] Il parallelo di Luca è molto diverso a causa di una differente descrizione degli inizi del rapporto tra Gesù e Simone. Simone ha già ricevuto una visita di Gesù nella sua casa (cfr. Lc 4,38-39), ma non è ancora stato chiamato (cfr. Lc 5,1-11). Il soggetto di questa ricerca, che intende riportare Gesù a Cafarnao, è la folla. In questo modo l’inadeguatezza della ricerca diventa ancora più evidente e, insieme, più tollerabile. Il parallelo di Matteo non esiste: la giornata di Cafarnao non è riportata in Matteo che usa soltanto alcuni dei materiali di Mc 1,21-39 ma in altri contesti.
[8] Questa proposta cerca anche di tener conto del fatto che il tempo perfetto indica un’azione avvenuta nel passato, ma i cui effetti perdurano fino al presente.
[9] Le analisi che conducono alla nostra interpretazione si possono trovare in E. MANICARDI, «L’annuncio a Maria. Lc 1,26-38 nel contesto di Lc 1,5-80», in Theotokos 4 (1996/2) 297-231.
[10] L’espressione «hai trovato grazia» / heûres charin (v. 30) riprende il precedente kecharitôménê (v. 28).
[11] E. MANICARDI, «Gesù e la sua morte: Mc. 15, 33-37», in Gesù, la cristologia, le Scritture, EDB 2005, pp. 147-163; cfr. anche «Esperienza e silenzio di Dio nella morte di Gesù secondo Marco», in Parola Spirito e Vita 30 (1994) 105-119.
[12] E. MANICARDI, «L’ultima parola di Gesù secondo Luca e il racconto della morte di Stefano in Atti», in Gesù, la cristologia, le Scritture, EDB 2005, pp. 165-186; cfr. anche «L’atteggiamento di Gesù nell’imminenza della sua morte nel Vangelo secondo Luca», in: Parola Spirito e Vita 32 (1995) 97-119.
[13] Si veda l’istruttiva annotazione, tipica di Luca, nel momento della risurrezione della figlia di Giairo: «Il suo spirito ritornò in lei ed ella si alzò all’istante» (Lc 8,55).