Presentiamo on-line la trascrizione di una relazione di don Andrea Lonardo, che conserva ovviamente lo stile
di un’esposizione pronunciata a voce. L’intervento era stato preparato per il secondo dei due
incontri di prefettura proposti dalla diocesi di Roma agli operatori di pastorale per l’anno 2007/2008. I
testi a cui si accenna nel corso della relazione sono stati distribuiti in fotocopia e sono allegati on-line al
punto 4.
La trascrizione della prima relazione sul tema Gesù
è il Signore è già disponibile on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (20/6/2008)
Per approfondire il tema della Chiesa cerchiamo di capire, innanzitutto, quali sono le domande, le
obiezioni che ci vengono fatte, perché da un lato dobbiamo aver chiaro cos’è la fede
della chiesa, dall’altro dobbiamo anche farla risplendere dinanzi alle possibili critiche.
Anzi, quando prepariamo una catechesi, un incontro, dovremmo sempre conoscere la teologia, la Scrittura, ma anche
chiederci quali sono le domande che porta con sé la persona che si interroga su Dio. Cercare di capire
qual è la visione che le persone hanno è espressione del nostro amore per loro ed aiuta a non
parlare in astratto, ma a mostrare la relazione del messaggio che viene dal Signore con la realtà concreta
che abbiamo di fronte. Proprio il magistero di Benedetto XVI ci chiede espressamente questo e ce ne offre
continuamente l’esempio.
Iniziamo allora prendendo in considerazione quattro fra le moltissime questioni che comunemente emergono quando
si parla della Chiesa. Le trovate sui fogli che vi sono stati distribuiti.
La prima forte critica che spesso incontriamo -a volte l’abbiamo magari fatta anche noi da ragazzi!-
è che si può credere in Gesù, ma è meglio lasciare da parte la Chiesa. Questo
sottintende una visione delle cose per la quale si è consapevoli che di Gesù non si può dire
male, ma si presuppone che si possa separarsi dalla Chiesa senza intaccare il rapporto con il Signore.
In questa maniera Gesù sta da una parte, la Chiesa dall’altra, ed in mezzo si crea un fossato, una
spaccatura. Credo che la peculiarità di questo tempo, rispetto agli anni precedenti -perché questa
critica è antichissima- è che la messa in questione della Chiesa non riguardi solamente noi,
cioè questa generazione, questo papa, questi cardinali, questi vescovi, questi preti, questi laici, ma
la critica viene riportata fino alle origini.
Nel primo incontro sulla figura del Cristo vi ho parlato del fenomeno del Codice da Vinci di Dan Brown e
del fascino esercitato oggi dagli apocrifi antichi, certamente più interessanti del romanzetto americano,
ma che pure su di un punto concordano con esso: il discredito che si cerca di gettare sulla predicazione
apostolica primitiva.
Ciò che si cerca di insinuare è che i primi nemici di Gesù siano gli stessi apostoli, Pietro
in primis. Perché se Pietro e gli altri avessero nascosto la verità -che Gesù
era innamorato della Maddalena, che si era sposato e aveva avuto dei bambini, secondo Dan Brown, che il messaggio
di Gesù era gnostico, dualista e contrario alla materia, secondo gli apocrifi gnostici- essi lo avrebbero
allora tradito nelle sue intenzioni ben prima della Chiesa odierna. Se la Chiesa primitiva avesse davvero
nascosto gli apocrifi -abbiamo visto la volta scorsa che invece il termine apocrifo, che vuol dire
nascosto, è inventato dagli autori stessi dei testi apocrifi per dare autorità a dei testi
che altrimenti non ne avrebbero avuta alcuna- per occultare il vero volto di Gesù allora una rottura
sarebbe avvenuta all’inizio del cristianesimo.
Chi sarebbero allora i grandi nemici di Gesù? Pietro, Giacomo, Giovanni, Paolo! La prima chiesa
avrebbe corrotto il vero messaggio di Gesù. Penso anche al libro di Augias e Pesce[1], dal quale emerge la figura di
Gesù quale quella di un bravo rabbino e dei suoi seguaci come di coloro che gli hanno attribuito cose che
lui non avrebbe mai pensato, inventori di cose che sono il contrario di quello che lui pensava di essere. Qui
l’obiezione non è rivolta alla Chiesa di oggi, ma non è meno grave, anzi è molto
più tagliente: è un’obiezione alla Chiesa in quanto tale. Gesù è una cosa, ma
tutto ciò che è affermato nel Nuovo Testamento, e la Chiesa in particolare, non c’entra gran
che con lui.
Vi accorgete subito di quello che non va in questo discorso, di quello che è il paradosso di questo modo
di procedere. È importante soffermarci su questo perché se cominciamo a capire le obiezioni
possiamo anche provocare a nostra volta i sostenitori di questa tesi. Se tutto questo fosse vero (ma a
livello storiografico e teologico è un’evidente menzogna) vorrebbe dire anche che Giovanni
sarebbe molto più interessante di Gesù; e così Pietro, Paolo, Giacomo e gli altri sarebbero
stati molto migliori di lui.
Il papa dice nel suo libro Gesù di Nazaret che è evidente, per chi si avvicina al
cristianesimo ed alle sue fonti neotestamentarie, che si è dinanzi ad un evento straordinario,
meraviglioso. In questi giorni è apparsa sui media un’intervista a Roberto Benigni nella
quale l’attore afferma semplicemente che Gesù è straordinario, che non c’è mai
stato uno come lui. Ma se invece Gesù fosse stato uno come tutti gli altri rabbini, allora le persone
straordinarie sarebbero Giovanni, o Paolo, o Pietro. Noi saremmo paolinisti o giovannisti, non
cristiani! La meraviglia del vangelo verrebbe da loro e non da Gesù stesso.
Una seconda obiezione che viene fatta meno esplicitamente, ma che per certi versi è più pericolosa
della precedente perché più sottile ed insinuante, è quella per cui viene mantenuta la
rottura tra la Chiesa e Cristo, ma vista da una prospettiva contraria.
Alcuni ritengono così che si possa tranquillamente sostenere una posizione del tipo: “Accetto la
Chiesa, la trovo utile e importante, ma non voglio una Chiesa che parli di Dio”. Pensate a
quell’atteggiamento che apprezza una Chiesa che aiuta le persone, fa crescere i bambini in oratorio, si
occupa delle adozioni a distanza, aiuta le missioni, lotta per la giustizia. Quando, per esempio, in un quartiere
si tarda ad avere l’edificio-chiesa, tutti si lamentano, si fanno riunioni per sollecitarne la costruzione
perché le persone sentono che c’è bisogno di un luogo dove incontrarsi, dove i bambini e gli
anziani possano stare ed essere accolti, dove si possano svolgere i riti che accompagnano la nascita e la
morte.
Però poi, talvolta, le stesse persone che desiderano queste cose sembrano scandalizzarsi se i cristiani
parlano di Dio. Infatti, desiderano la crescita delle attività caritative, le attività
educative per i bambini ed i giovani, ma non si accorgono che tutto questo nasce proprio a partire dalla fede
stessa.
Questo vuol dire, da un lato, che le persone si accorgono che i cristiani, i catechisti, i preti, le parrocchie,
il papa, sono veramente preziosi. Se si eliminasse la vita della Chiesa con le sue strutture dai quartieri,
Roma non sarebbe la stessa, e così le altre città. Ma, d’altro canto, noi sappiamo che
quella forza di stare vicino all’uomo, ha all’origine proprio la fede. Se non ci fosse la nostra e la
vostra fede, questo non sarebbe possibile.
Pensate alle missioni, alla presenza cristiana in tanti luoghi di povertà, in tanti paesi in
difficoltà: alcuni pensano che sia importante solo il lato economico, raccogliere quanti più
soldi sia possibile o, in maniera più culturalmente riflessa, che sia importante sostenere gli studi di
coloro che sono più poveri, dar loro una maggior consapevolezza delle ingiustizie, ecc. ecc. Ma non si
può dimenticare che, se tutto questo è necessario, c’è un bisogno ancora più
radicale e grande: in un quartiere, povero o ricco che sia, un prete o una suora, cambiano tutto perché
destano i cuori alla fede, perché formano le coscienze alla luce del vangelo, perché danno speranza
anche in presenza della malattia, della morte, perché danno la forza di perdonare in presenza
dell’ingiustizia.
Se si dimentica questo –e cioè che è la fede che cambia la mente ed i cuori- si rischia di
ragionare, senza nemmeno accorgersene, come ragionerebbero gli ultimi cripto-marxisti. Si rischia di credere
che quello che cambia il mondo è l’economia, che nei paesi poveri è sufficiente cambiare
l’economia e tutto andrà bene. Ma questo non è vero!
Cristo e la Chiesa sono intimamente legati perché la Chiesa, senza il Signore, non avrebbe ragione di
essere ed il suo annuncio sarebbe vano e vuoto. La Chiesa sa che è la scoperta della grazia di Dio che
cambia il cuore, che così diventa capace di donarsi, di divenire un cuore che crede, che ama, che spera.
Non basta che io ti dia i mezzi per fare le cose, ma è necessario che il tuo cuore diventi diverso. Eppure
ci misuriamo quotidianamente con un atteggiamento che dice: “Io ho stima di te, ma non mi parlare di
Dio”!
La terza obiezione che voglio evidenziare è quella riguardante la storia della chiesa. Vi invito a
riflettere su questo aspetto, perché dobbiamo parlarne ogni tanto, con intelligenza, anche sapendo
chiedere perdono, ma anche sapendo mostrare la bellezza di questa storia. Se un bambino o un ragazzo si sentono
sempre dire a scuola, da professori che stimano, che la chiesa ha sempre commesso nefandezze, perché
dovrebbero essere cristiani? Un catechista deve ogni tanto -è importante questo suo compito- saper
rileggere i secoli straordinariamente belli ed anche quelli difficili della chiesa, mostrandone la grandezza,
insieme ai peccati. Benedetto XVI a questo proposito ripete spesso un concetto che troviamo espresso già
nel suo libro Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani (San Paolo, Cinisello Balsamo
2004). Egli afferma:
C’è un odio di sé dell’Occidente che è strano...
Il papa dice che noi non ci amiamo, parliamo continuamente male di noi stessi, quasi ci odiamo!
...e che si può considerare solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in
maniera lodevole ad aprirsi pieno di comprensione a valori esterni...
Pensate, solo per fare un esempio, a come siamo soliti apprezzare le grandi civiltà antiche, senza
sottolinearne i punti negativi. Se, in un programma televisivo, si affronta la storia dei Maya o degli
Aztechi si accenna certo al fatto che sulle loro famose piramidi sono state uccise migliaia di esseri umani, ma
subito si passa a parlare della meraviglia di quelle architetture, delle loro conoscenza astronomiche e
così via. Questo è bellissimo, noi non ci fermiamo al male che c’è e che pure vediamo,
ma cerchiamo sempre di vedere gli aspetti positivi, a volte con delle esagerazioni.
...l’Occidente tenta sì in maniera lodevole ad aprirsi pieno di comprensione a valori esterni, ma
non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto ciò che è deprecabile e
distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro.
Il papa si chiede come questa capacità di vedere oltre al male anche il bene, possa applicarsi anche
alla storia che è stata fecondata dal cristianesimo ed, in particolare, alla storia stessa della
chiesa.
Mi ricordo che una volta ho avuto una discussione accesa con un monaco che sosteneva che la chiesa ha una
storia che è bella fino a Costantino e poi dal Concilio Vaticano II in poi. Quindi da Costantino fino
al 1962, secondo lui, tutto era praticamente, con rare eccezioni, da buttare. Ma allora perché essere
cristiani? Se fosse vera questa lettura, perché continuare ad amare il cristianesimo?
Un primo esempio che mi viene alla mente, per farvi comprendere come siamo veramente schiavi di una lettura
ideologica e non documentata è quello della storia dello Stato della Chiesa. Provate a chiedere non solo
ad uno studente di un liceo classico, ma addirittura a dei professori, la data in cui è nato il potere
temporale della Chiesa, cioè lo Stato della Chiesa, ed i motivi della sua origine. Mi sono divertito
ogni tanto a porre queste domande anche a persone di una certa cultura e tutti dicevano di non saperlo. Non era
mai stato spiegato loro nella formazione delle superiori niente di una questione così importante. Si fanno
così una idea negativa di queste cose, senza sapere se quello Stato è nato per una volontà
di potere o come una necessità storica che ha aiutato la stessa città di Roma a sopravvivere! E noi
romani dovremmo saperle ancora meglio queste cose, perché è la storia della nostra
città.
Che una sottolineatura negativa della storia della Chiesa possa essere frutto non solo di veri errori, ma anche
di una interpretazione ideologica della storia appare anche se solo ci soffermiamo a vedere come vengono
trattate quelle che sono indubitabilmente grandi figure che emergono da un humus
cattolico. È sufficiente leggere le guide o i cataloghi che descrivono musei o chiese o monumenti
per rendersi conto di una visione sottesa alla loro presentazione della quale spesso non ci rendiamo nemmeno
conto.
Ogni volta che si parla di un grande artista del passato, si cerca di dimostrare che questi era anticattolico.
Dario Fo ha scritto un libro sul Duomo di Modena per cercare di dimostrare che la presenza di giullari, di
musici, e della rappresentazione della gioia di vivere nelle sculture romaniche, dipenderebbero dall’essere
stato quel duomo iniziato in un lasso di tempo brevissimo nel quale non c’era né un vescovo,
né un imperatore. Similmente San Francesco sarebbe un meteorite piovuto dal cielo e non un tipico
rappresentante del medioevo. Dante, avendo messo dei papi all’inferno, sarebbe un personaggio non
pienamente assimilabile al cattolicesimo del tempo. Michelangelo, essendo stato amico di una donna
filo-protestante, Vittoria Colonna, sarebbe quindi un antipapista e la tomba di Giulio II con il famoso
Mosè un monumento anticattolico. La grandezza di Caravaggio proverrebbe, allo stesso modo, da una
spiritualità cripticamente contraria al cattolicesimo.
Si dimentica che ciò che si vede nel duomo di Modena si trova in tutte le cattedrali romaniche e che esse
sono state costruite nel lasso di secoli. Che San Francesco era un fedele servitore dei pontefici e che predicava
l’obbedienza a loro. Che Dante scriveva quei versi proprio dall’interno della Chiesa che amava. Che
Michelangelo, che era stato grande ammiratore di Giulio II, continuava a servire i pontefici dipingendo la
Sistina e la Cappella Paolina e costruendo la cupola di San Pietro e che Caravaggio veniva graziato dal papa,
perché tornasse a dipingere in Roma. Insomma quella Chiesa che si denigra era molto più vivace e
libera di quanto la si descrive, se dentro di essa emergevano tali figure che si esprimevano in essa.
La stessa tensione fra cristianesimo ed illuminismo va letta nella giusta prospettiva, perché
quella che appare come una antitesi netta è in realtà il rovescio della medaglia di una stessa
storia. Proprio la compresenza nel cristianesimo della dignità della fede e della ragione ha permesso la
piena maturazione della consapevolezza della libertà e dei diritti umani che intravediamo nelle
costituzioni settecentesche degli Stati uniti d’America e poi della Francia.
Ma per comprendere la grandezza della storia della chiesa basterebbe chiedersi quale altra cultura ha saputo
chiedere perdono del proprio passato, ha saputo vedere e riconoscere il male che ha avuto in sé.
Quarta ed ultima domanda che vi propongo è quella che ci riguarda più direttamente come sacerdoti e
catechisti, quella che riguarda la proposta concreta della vita nella Chiesa. Come possiamo noi accompagnare
le persone a vivere in quella comunione che è la Chiesa? Come possono i nostri ragazzi comprendere,
quasi vedere –direi- quella carità, quell’amore con il quale Cristo ha amato la Chiesa al
punto da esserne affascinati?
Vorrei che foste ancora più coscienti dell’importanza di questo aspetto. Voi vi accorgete che se
anche uno vede la grandezza di Gesù, ma non sceglie poi la sua Chiesa, è come se restasse alla
finestra del cristianesimo. Credo sia proprio la vostra esperienza di catechisti che vi fa dire che qualcuno
si gioca veramente per Cristo quando comincia ad amare la Chiesa. È vero che Gesù è
più importante della Chiesa, ne è il motivo, ma in realtà Gesù viene scelto
attraverso la sua Chiesa.
Vi leggo un brano di Romano Guardini, riportato nell’antologia distribuita, nel quale troviamo una frase
paradossale che ci può aiutare a capire la questione:
Il riconoscimento della Chiesa è stato la convinzione determinante della mia vita. Quando ero ancora
studente di scienze politiche ho capito che la vera e propria scelta cristiana non ha luogo davanti al concetto
di Dio e neppure di fronte alla figura di Cristo, ma davanti alla Chiesa. Ciò mi ha fatto capire che una
vera efficacia è possibile solo nell'unità con essa.
È un’affermazione chiaramente paradossale, perché in realtà la vera scelta avviene
dinanzi a Cristo; ma che cosa vuol dire allora Guardini? Che solo quando qualcuno capisce che la Chiesa merita
di essere amata allora diventa una persona veramente cristiana.
Ci sono nelle nostre parrocchie dei ragazzi intelligenti, pieni di vita, splendidi, simpatici, ma fino a che non
decidono di mettersi a costruire la Chiesa, non si può contare su di loro, sono sempre fondati su delle
sabbie mobili, non poggiano su un terreno solido. Dove non si sceglie la Chiesa la fede è estremamente
fragile, tutto finisce al primo colpo di vento.
Dopo aver visto queste quattro provocazioni, prendiamo ora in considerazione quattro risposte, delle quali tre
prettamente teologiche e una più pastorale, più concreta, che provengono dalla fede cristiana per
capire meglio perché Gesù ha voluto la Chiesa, per poterla meglio presentare e, soprattutto, per
poter introdurre alla vita in essa, attraverso la catechesi. Sono delle questioni enormi ed io, purtroppo, devo
limitarmi a trattarle in poche parole; ma è giusto così, poiché noi abbiamo a disposizione
solo due incontri e cerchiamo in questi di dare un primo sguardo ai problemi più importanti, sapendo che
il resto lo farete voi con i vostri parroci e le vostre parrocchie.
Noi possiamo dire con grande serenità che veramente Gesù ha voluto la Chiesa. Non
c’è alcun dubbio storico, infatti, sul fatto che i Dodici li ha scelti Gesù. Pietro ne
è l’esempio più evidente. Prendete il testo di Mt 16,18: «E io ti dico: Tu sei
Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa»
Nella nota della Bibbia di Gerusalemme a questo versetto si dice:
Né la parola greca petros, e nemmeno, sembra, il suo corrispondente aramaico kefa
(“roccia”) erano usati come nomi di persona prima che Gesù avesse chiamato così il capo
degli apostoli per simboleggiare il suo compito nella fondazione della chiesa.
Quando Gesù ha chiamato Pietro Kefa, questa parola in aramaico voleva dire ‘pietra’,
‘roccia’, ‘sasso’. Non c’era mai stato uno che portasse come nome proprio
Kefa. In nessuna iscrizione è mai stato trovato questo nome attribuito ad una persona:
Simone è il primo. Quando Kefa è stato tradotto in greco, con Petros, è
successa la stessa cosa: neanche Petros era un nome proprio. Pietro è un nome che ha inventato
Gesù.
Perché Gesù si rivolge a Simone e gli dice: «Tu sei Pietro»? Proprio perché
vuole indicare che Pietro è la roccia di una nuova costruzione: il Signore gli dà un ruolo che non
aveva prima. Era Simone, uno qualunque, ma da quel momento sarà pietra. Mi è capitato di
accompagnare dei ragazzi anglicani a S.Pietro ed ho cercato di spiegare loro perché per noi è
importante Pietro. Cercavo un modo semplice per far capire loro cosa significasse che il ministero papale era la
continuazione di quello di Pietro. Mi è venuta in mente la parola inglese rock e
la traduzione inglese del versetto di Matteo: You are Peter and on this rock... Qui le due
parole sono diverse –Peter e rock- ed il gioco di parole deve essere spiegato. Dicevo a
questi ragazzi, usando il linguaggio musicale che conoscono bene, che fino a che il rock era il rock
and roll degli anni ’50, voleva dire ondeggiare, ma quando diventa l’hard rock
degli anni ’80 si capisce cos’è una pietra!
È importante anche sottolineare come nella visione di Gesù Pietro -così come tutti i papi, i
catechisti, i vescovi- è innanzitutto un testimone. E qui è importante capire bene cosa
significhi testimone. Pietro non è la roccia perché non sbaglia mai. Le
persone pensano a volte: «Ma come! Pietro è una roccia, ma poi pecca, tradisce, rinnega per tre
volte, litiga con Paolo?». E allo stesso modo: «Ma come il Papa è il successore di Pietro, ma
poi quel papa del ‘600 ha compiuto azioni o ha detto cose difficilmente condivisibili?».
In realtà Gesù chiama Simone pietra, roccia, perché ha detto: «Tu sei il
Cristo». Gesù non lo chiama Pietro perché è impeccabile, ma perché
è l’unico che ha il coraggio di dire che la salvezza è Gesù, che il Figlio di
Dio è Gesù. La Chiesa ha questa funzione testimoniale di dire sempre: «Non sono io la
salvezza! La salvezza è Cristo: il vangelo è questo e non si può cambiare». Questa
è la forza della Chiesa. Essa non è egocentrica, ma sempre testimonia del Cristo e rimanda a
Lui.
Quando Benedetto XVI ha preso possesso della sua cattedra a S.Giovanni in Laterano, dopo la sua elezione a
pontefice, ha detto proprio questo (trovate anche questo testo nell’antologia distribuita):
Questa potestà di insegnamento [del vescovo di Roma] spaventa tanti uomini dentro e fuori della Chiesa.
Si chiedono se essa non minacci la libertà di coscienza, se non sia una presunzione contrapposta alla
libertà di pensiero. Non è così. Il potere conferito da Cristo a Pietro e ai suoi successori
è, in senso assoluto, un mandato per servire. La potestà di insegnare, nella Chiesa, comporta un
impegno a servizio dell’obbedienza alla fede. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e
volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e
verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e
la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di
annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo.
Il testimone cerca, certamente, di consegnare tutta la sua vita a colui in cui crede, ma, soprattutto, testimonia
di non essere lui la verità, bensì che la verità è il Signore. La testimonianza
implica che colui di cui si testimonia sia più importante del testimone stesso.
Questo è anche il grande motivo per cui noi dobbiamo incoraggiare anche i peccatori ad essere
testimoni. Anche un genitore separato è e resta testimone di Gesù perché deve continuare
a dire che Gesù è la verità, anche se questa verità non è riuscito a viverla
in pienezza. È un grande equivoco affermare che chi ha sbagliato non deve più parlare della
verità perché non sarebbe credibile.
Una seconda indicazione neotestamentaria, che ci riporta direttamente al Gesù storico, ci fa gettare uno
sguardo sulle intenzioni di Gesù di volere la nascita della Chiesa: è la scelta dei Dodici.
Tutti i testi neotestamentari rimandano a questo numero, dai sinottici, a Giovanni, a Paolo,
all’Apocalisse. È un dato certamente storico. Ma perché Gesù ne ha voluti proprio
dodici e non sette o dieci?
Devono essere dodici, così come Giacobbe ha avuto dodici figli quando perché è nato il
popolo di Dio. Prima di Giacobbe, Abramo ed Isacco erano solo una famiglia, non ancora un popolo. Giacobbe,
avendo generato i suoi dodici figli, riceve il nome di Israele. Con lui il popolo di Dio diviene
realtà.
Gesù si richiama a Giacobbe. Chiama dodici apostoli perché il popolo di Dio sta rinascendo con lui,
sta entrando nella nuova alleanza. È un chiaro segno indicatore della consapevolezza di Gesù di
essere il nuovo Giacobbe, di essere non un solitario, ma di essere colui attraverso il quale Dio da vita ad un
nuovo popolo. È la Chiesa che nasce dalla chiamata di Cristo[2].
Il secondo punto è ancora più importante del primo. È abbastanza chiaro che Gesù ha
storicamente fondato la Chiesa, ma è importante anche provare a dire perché l’ha fondata: a
cosa serve la Chiesa? Perché Gesù ha tenuto tanto ad essa? Perché non gli è
bastato morire, risorgere e ascendere al cielo?
Non poteva finire così il vangelo, con la sua resurrezione e ascensione? Invece Gesù risorto parla
ai Dodici e li invia:
Gesù disse loro: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura» (Mc
16,15).
L’invio dei Dodici è ciò che sta a cuore al Cristo. Notate innanzitutto, e vale la
pena di soffermarsi su questo, il fatto che per quanto noi dobbiamo amare la Bibbia, dobbiamo consegnarla, farla
conoscere, non dobbiamo mai dimenticare che Gesù non ha mai chiesto espressamente che fosse scritto il
Nuovo Testamento, bensì che sorgesse la Chiesa e che essa predicasse il suo vangelo. Guardate che non
è una cosa da poco! La Bibbia non era la prima cosa che Gesù aveva in mente. Solo alla fine del
Nuovo Testamento, nell’Apocalisse, a Giovanni viene detto:
Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle che sono e quelle che accadranno dopo (Ap 1,19).
Gesù sapeva che la realtà più importante era l’annunzio vivo della Chiesa.
Gesù ha chiamato i Dodici perché la loro parola fosse la sua parola. Li ha mandati, ha detto loro:
«Fate questo in memoria di me», «A chi perdonerete i peccati saranno perdonati»,
cioè «Voi siete questa viva tradizione, quando voi parlate e agite, Cristo parla e agisce tramite le
vostre parole ed i vostri gesti».
Cristo non parla solo nella Bibbia, ma tramite la parola della Chiesa. La parola per eccellenza di Cristo
nella Chiesa è la parola sacramentale. Il sacramento è la realtà, importantissima, nella
quale è Cristo stesso che parla e la sua parola è efficace come al tempo in cui Gesù era con
i suoi apostoli. Quando il sacerdote dice: «Questo è il mio corpo», è Gesù
risorto che lo dice in lui. Il prete non dice: «Questo è il suo corpo», non
perchè è un attore che recita una parte, ma perché quando dice “il mio corpo”
non si riferisce a se stesso. “Il mio corpo” è veramente il corpo di chi sta parlando,
perché è Cristo che sta parlando. La parola del sacerdote in quel momento è la parola di
Cristo: c’è un’identità assoluta della parola umana e di quella del Cristo.
La parola della Chiesa è veramente parola di Cristo anche in senso più ampio, perché la
Tradizione –cioè la vita, la dottrina, il culto, insomma tutto ciò attraverso cui la Chiesa
trasmette tutto ciò che essa è e tutto ciò che essa crede (cfr. Dei Verbum,
8)- è parola di Cristo.
Ma torniamo alla domanda: perché questa parola è necessaria? È necessaria perché
solo attraverso di essa noi possiamo ricevere la fede, di modo che la Chiesa è nostra madre. Per
questo Cristo l’ha voluta, perché tramite di lei sorgesse in noi la fede. Noi abbiamo ricevuto non
solo le cose più belle della fede, ma la fede stessa, lo stesso Cristo, dalla Chiesa. La chiesa è
veramente nostra madre in quanto credenti.
Se io mi soffermo a pensare perché credo, chi mi ha spiegato chi è Gesù perché
credessi, chi me lo ha fatto amare, posso rispondermi in tanti modi, che sono stati mia madre, mio padre, i miei
nonni, i miei catechisti, un mio insegnante, i sacerdoti che mi hanno seguito nel cammino, il papa, ma, in essi,
è sempre la Chiesa che mi ha donato la fede!
Per credere abbiamo bisogno che la Chiesa ci parli di Cristo. L’uomo spesso è miope, quando
è convinto di essere solamente lui l’artefice della propria fede. Siamo abituati a sentir dire:
«Sono io che liberamente decido di scegliere la fede». Certo questo è vero, perché la
fede è una libera scelta, ma questa adesione non è la prima cosa: si può scegliere la fede
solo perché la si conosce. E come fai a conoscerla se non c’è qualcuno che te ne parla? (cfr.
Rm 10, 14-15). È l’annuncio della fede che rende liberi di credere.
Faccio un esempio banalissimo, ma ricordatevi che anche gli esempi banali devono essere fatti: come mai
nessuno è mai diventato cristiano avanti Cristo? Prima che nascesse Cristo le persone erano libere
quanto noi, ma non potevano diventare cristiane perché non c’era Cristo! Non basta che tu voglia una
cosa, perché se questa cosa non c’è tu non puoi averla e nemmeno volerla. La nostra
libertà di volere una cosa nasce dal fatto che quella cosa ci sia e che ci venga fatta conoscere.
Ricordo una vicenda che mi colpì, qualche anno fa: conoscevo un giovane che era diventato cristiano
tramite la fidanzata e aveva iniziato a frequentare la parrocchia, a partecipare alle attività, ai gruppi
con entusiasmo. Poi un collega di lavoro gli aveva detto: «La tua fede non è realmente tua,
perché te l’hanno data altri. Se tu non avessi incontrato quella ragazza e, tramite lei, quel gruppo
e quella parrocchia, saresti ateo come prima». Lui era venuto da me un po’ triste perché si
era convinto di non avere una vera fede. Gli risposi che invece questo era proprio il motivo per cui la sua fede
era vera, perché non era una sua invenzione! È necessario incontrare un cristiano per diventare
cristiani!
La fede è un dono che ti viene dalla Chiesa, la Chiesa è la madre che ti dà la fede. Se ci
pensate è proprio come nella nostra vita. Noi ci mettiamo tutta una vita per dire grazie a nostra
madre. Io da ragazzo non avrei mai detto grazie ai miei genitori che pure erano bravi; solo quando vai avanti
negli anni cominci a capire che malgrado tante cose della tua famiglia che hai contestato, tu esisti, ami la tua
vita, sei quello che sei, solo perché ti hanno dato la vita.
Ognuno di noi ha ricevuto quello che è; solo poi impara ad amarlo, scegliendo di continuare a vivere, di
fare quello che fa. Qualcosa mi è stato dato, perché io potessi poi sceglierlo. Noi conosciamo
anche i lati negativi dei nostri genitori, così come loro conoscono i nostri, anzi più uno è
vicino ad un altro, più ne vede anche la ‘polvere’. Ogni figlio conosce i difetti dei
propri genitori, però sa che la vita lo ha raggiunto proprio tramite loro.
Così Cristo ha voluto la Chiesa perché noi potessimo conoscerlo e credergli. Se qualcuno potesse
arrivare ad immaginarsi Cristo da solo, chiuso in una stanza, senza alcun legame storico con i discepoli di
Cristo, senza che alcuno gliene abbia parlato prima, senza che ne abbia mai letto, vorrebbe dire che la fede
è una idea, una ideologia, una elaborazione della mente umana. Invece Cristo può essere
incontrato solo tramite qualcuno che è legato alla catena della Tradizione che da lui è nata. Ed a
questa serie di anelli legati gli uni agli altri appartiene anche la Sacra Scrittura.
Non abbiamo tempo di approfondire qui questo tema, ma pensate a che ribaltamento di prospettiva avviene nella
comprensione del tema della libertà. La libertà matura, cresce, attraverso il dono, la
conoscenza, la rivelazione. L’uomo diventa libero. La libertà resta un valore centralissimo,
ma è preceduta dal dono. La libertà non è il primum assoluto!
Il terzo punto teologico –ed è un’altro dei punti sul quale il papa ci sta invitando a
riflettere- su cui ci soffermiamo è quello della chiesa apostolica. La chiesa è formata dalla
nostra generazione, cioè da noi di una certa comunità, dal papa attuale, dai vescovi, dai nostri
parroci e vice-parroci, dalle suore, dai religiosi, dai catechisti e genitori, ma non solo di questa generazione.
La chiesa non siamo solo noi!
Il papa è tornato più volte a sottolineare come il noi della chiesa
è un noi diacronico, che attraversa il tempo, tutte le generazioni: siamo
noi di questa generazione, ma in comunione con il noi di tutti coloro che hanno creduto prima di
noi. Per cui noi non potremo mai avere una fede diversa da quella dei nostri padri, dei nostri nonni, da quella
dei cristiani del 1700, del 1500, del 1000, fino agli Apostoli. Noi abbiamo la stessa fede nell’Eucaristia
che avevano S.Francesco, S.Tommaso, S.Agostino, Madre Teresa, Giovanni XXIII. La fede è ecclesiale,
è la fede di un noi che non è solo orizzontale, ma attraversa la storia ed è segno
della verità della fede.
Questo fa capire perché la Chiesa non può essere concepita come una sorta di parlamento
democratico, nel quale si potrebbero mettere ai voti la divinità di Gesù o la sua resurrezione o la
verginità di Maria. Questo renderebbe la nostra fede non in continuità con quel noi
più grande che Dio ha voluto in Cristo. Proprio il Simbolo della fede è un
segno grandissimo della fede dell’intera Chiesa, che attraversa tutte le generazioni.
Capite subito la differenza con molti gruppi non cattolici che sono nati successivamente. Esistono
comunità che si richiamano alla Bibbia, che apparentemente sembrano simili alla Chiesa, ma in
realtà non hanno alcun legame con quel noi che dagli apostoli arriva fino al presente. Pensate, ad
esempio, ai Testimoni di Geova od ai Mormoni. Dove erano i Testimoni di Geova nel 1500 o nel 1000? O i Mormoni?
In questi gruppi non c’è un noi che li lega in una continuità storica agli apostoli.
Essi nascono improvvisamente, nel 1800 od in un altro periodo, ma senza legame con il noi ecclesiale e con
la sua tradizione. La fede cristiana invece abbraccia tutti i tempi, fino alle origini, e per questo è
detta “apostolica”.
Mi permetto anche di gettare lì una provocazione per farvi riflettere. Sentiamo spesso dire che il
catechista è colui che deve portare la propria esperienza e che questa è il cuore del suo servizio,
ma questo non è corretto. Il catechista non presenta la propria esperienza, per quanto essa possa
essere bella e vera, ma piuttosto quella della Chiesa, che è ben più grande e ricca della
propria. Certo lo fa tramite la propria vita e, talvolta, potrà anche fare riferimento ad essa, ma il
suo messaggio deve essere molto più grande! Quando qualcuno parla del vangelo vi accorgete subito se fa
risuonare solo ciò che lo ha colpito o se sa aprire ad una prospettiva molto più grande che
è quella della Chiesa stessa che ha accolto la parola di Dio.
Due piccoli segni della tradizione liturgico-architettonica delle nostre chiese potete utilizzare per parlare di
questo nella catechesi, mostrando visibilmente questa continuità nel tempo. In tutte le chiese, anche in
quelle parrocchiali, noi abbiamo le dodici croci di consacrazione che rappresentano gli apostoli. Il
vescovo quando consacra una chiesa ungendo queste dodici croci rende evidente che quella chiesa è nella
tradizione apostolica, che le sue colonne sono gli apostoli. Quelle croci spesso hanno anche dei portacandele che
potrebbero essere accesi nelle solennità al momento della professione di fede[3].
L’altro piccolo-grande segno è quello delle reliquie poste negli altari: il sacerdote e tutta
la comunità cristiana sanno che la loro liturgia non è differente da quella che hanno celebrato
coloro le cui reliquie sono poste nell’altare. La nostra e la loro messa, la nostra e la loro eucarestia,
è la stessa. E noi possiamo celebrare i sacramenti perché da loro li abbiamo ricevuti. Pensate a
come diventa ancora più evidente questo segno quando le reliquie sono nella cripta e noi, la nostra
generazione, poggiamo sopra la cripta, sopra la vita di chi ci ha preceduto nel segno della stessa fede.
Non solo, ma chi ci ha preceduto è già in cielo ed appartiene alla Chiesa con noi e dal cielo prega
per noi. È la comunione dei santi, la comunione della Chiesa celeste e di quella pellegrina in
terra: per questo i santi vengono dipinti in alto, nelle absidi, a significare che essi sono prima di noi, ma
sono anche con noi adesso, viventi in Cristo, nella comunione della stessa fede cristiana.
L’ultimo punto che affrontiamo è più pastorale: come introdurre nel cammino della catechesi a
vivere nella Chiesa, a sentire con essa, nella concretezza delle nostre parrocchie e comunità? Ho
pensato, per questo, di richiamare un aspetto di straordinaria importanza che è stato posto
all’attenzione di tutti nuovamente con il magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI e che consiste
nella struttura quadripartita del Catechismo della Chiesa Cattolica.
Il CCC, chiaramente, non è stato fatto per essere letto necessariamente in maniera cursiva, continuata,
nella catechesi, ma come un testo da capire in profondità ed al quale attingere per la propria
preparazione. Per capirlo bene, uno dei punti più importanti è proprio la sua struttura,
perché, come vedremo subito, questa quadripartizione non deriva da un ragionamento astratto, ma
esattamente dalla concreta esperienza della vita della Chiesa.
Mi piace sottolineare che quando si debbono presentare i diversi aspetti della vita della Chiesa ci troviamo in
imbarazzo, proprio perché non abbiamo interiorizzato questa ripartizione. Sentiamo ripetere spesso,
ad esempio, che una comunità cristiana, una parrocchia, ha come elementi indispensabili tre realtà
che vengono indicate così: la Parola, la liturgia, la carità. Se uno domanda in quali di questi
ambiti debbono essere poste la formazione alla dottrina sociale della chiesa, oppure la riflessione sulle
vocazioni e gli “stati di vita”, oppure ancora l’educazione ed il rapporto con la scuola e la
cultura, c’è un certo imbarazzo, perché non si sa bene dove collocarle in quello schema.
Ci sono poi altre posizioni, che mostrano come quello schema sia parziale. I neocatecumenali, ad esempio,
spiegano nelle catechesi introduttorie al cammino, prima che avvenga la prima convivenza, che esiste una
tripartizione, ma che essa è costituita da un tripode fatto dalla Parola, dalla liturgia e dalla
comunità. Questo terzo elemento, quello comunitario, viene anteposto alla carità,
perché, essi dicono, la carità verrà come una conseguenza del cammino, ma la vita nella
comunità è, invece, essenziale a livello formativo, fin dall’inizio.
Come orientarci fra queste diverse accentuazioni? Il CCC usa una strutturazione estremamente illuminante,
complessa, ma al contempo semplice. Cerca di capire come i cristiani antichi insegnavano la fede, come
accompagnavano i catecumeni che chiedevano di ricevere il battesimo perché volevano diventare
cristiani. Quando uno chiedeva di diventare cristiano che cosa gli si proponeva?
Il cammino del catecumenato antico si era strutturato, in maniera direi naturale, su quattro dimensioni
abbracciate, però, dalla comunione ecclesiale –scherzando mi è venuta in mente una
formula, quattro più uno, per sintetizzare ciò che stiamo approfondendo. Ed il CCC
ripresenta queste quattro dimensioni (più una, la comunione ecclesiale), quasi come quattro colonne che
reggono tutto l’edificio. Vi invito qui a leggere con attenzione i testi dell’antologia distribuita
su questo, perché sono estremamente chiarificatori e ci aiutano vedere tutta l’ampiezza del compito
della catechesi e dell’educazione cristiana.
Vediamole una per una queste dimensioni della vita cristiana che siamo chiamati ad educare e a far crescere:
Che cosa si crede? La prima parte del CCC spiega che cos’è la fede e spiega poi il Simbolo della
fede. Sin dall’antichità la Chiesa ha accompagnato chi voleva il battesimo a capire chi
è veramente Dio, quale è il suo volto. Qui l’uomo trova risposta alle sue domande:
Perché devo credere a ‘quel’ Dio? Cosa vuol dire che Egli è proprio così?
Perché la croce? Perché l’incarnazione? Perché la resurrezione? La fede ha dinanzi a
sé un volto, quello di Dio, e la Chiesa presenta il vero volto di Dio spiegando il Credo.
Nel primo incontro siamo partiti proprio dalle parole della seconda lettera a Timoteo: «So a chi ho
creduto». Non ci torniamo su proprio perché abbiamo insistito su questa prima “colonna”
in quell’incontro sul libro del papa Gesù di Nazaret. Mi interessa qui solo ribadire che
un cammino di iniziazione alla fede non potrà non dare grande rilevanza a questa conoscenza di Dio e,
conseguentemente, alla fiducia che merita, proprio perché ha quel volto che ci ha mostrato in
Gesù. La Chiesa antica consegnava il Credo, proprio come una tappa costitutiva del cammino, e poi lo
spiegava.
Anche oggi, pensate in particolare al cammino in preparazione al Battesimo o alla Cresima è molto
importante la spiegazione del Credo. Ma sempre la catechesi torna a riflettere sul Simbolo perché
la persona conosca e ami la propria fede.
La Chiesa, fin dalle origini, non ha solo spiegato la fede, ma ha pian piano introdotto le persone a vivere la
liturgia. La liturgia non compare alla fine del cammino, al momento del battesimo e dell’eucarestia, ma
tutta una serie di preghiere, di benedizioni, di celebrazioni hanno sempre accompagnato il cammino della
catechesi, anche di chi non era ancora battezzato. La seconda colonna è così costituita dalla
celebrazione, dalla liturgia con tutti i suoi sacramenti. E la seconda parte del CCC tratta proprio di questa
presenza di Cristo nella liturgia e nei sacramenti.
Perché la Chiesa ha subito capito che non basta spiegare qualcosa in una riunione per fare un cammino di
catechesi, ma bisogna pure celebrare. Questo è evidente anche oggi, per chi ha un minimo di esperienza
nell’iniziazione cristiana: un/una catechista “delle comunioni” sa benissimo che un bambino che
non viene la domenica a messa ha una comprensione profondamente diversa della fede da uno che invece vi
partecipa. Partecipare alle riunioni, ma non alle celebrazioni impoverisce enormemente il cammino!
Non si riesce a far capire cos’è la fede semplicemente perché si parla, perché si
spiega, ma il bambino riceve tantissimo dalla partecipazione alla liturgia. Lo stesso vale per gli adulti.
Pensate anche agli altri sacramenti: voi potete parlare per ore ed ore di cos’è la confessione, ma
fino a che la persona non si confessa non lo capisce fino in fondo. Spesso si insiste molto sul concetto di
esperienza come di un elemento costitutivo di una buona catechesi, ma si dimentica poi che esperienza non
è solo organizzare un’attività, preparare un cartellone, interagire in gruppo, ma anche
partecipare alla liturgia.
La liturgia è una delle esperienze più grandi che la Chiesa ci dona di vivere. La catechesi
è esperienziale proprio perché ci fa vivere i sacramenti! Un bambino si confessa e da quel
momento per lui è chiarissimo cos’è la confessione. La morte di Giovanni Paolo II è
stato un momento, per tanti che non si confessavano da anni, per tornare a riscoprire il perdono di Dio. Dinanzi
a quella morte, hanno capito di essersi trovati dinanzi ad un evento grande ed hanno capito che era importante,
dinanzi alla morte di quell’uomo di Dio, tornare a confessarsi. Ma questo è venuto a tanti naturale,
anche se erano decenni che non si confessavano, perché avendo fatto da piccoli l’esperienza della
confessione sapevano benissimo cosa significava. Una volta avevano vissuto l’esperienza della
Riconciliazione e non l’avevano più dimenticata, tanto che ne riemergeva l’esigenza.
Per questo la Chiesa ha capito che il sacramento sta in mezzo tra la catechesi e la catechesi mistagogica.
Non ci si può limitare a “spiegare” il sacramento, affermando che lo si riceverà solo
quando si sarà pronti. Non si è mai pronti per un sacramento, perché, se non lo si celebra,
non si può capirlo! Bisogna celebrarlo, per capirlo. Sarà poi la catechesi mistagogica, cioè
quella che conduce coloro che hanno già ricevuto i misteri sacramentali, ad approfondire quello che si
è celebrato, perché lo si possa capire meglio dopo.
Allora si inizia spiegando, sapendo al contempo che l’altro non capirà mai del tutto, si celebra e
poi si spiega cosa si è fatto; ma quest’ultimo passaggio può avvenire in pienezza solo dopo,
perché se tu prima non lo sperimenti, non lo puoi capire. Capite subito come queste due colonne sono
coessenziali: non basta fare riunioni e spiegare, ma non basta neanche solo celebrare. La Chiesa ha capito
che le due dimensioni sono insostituibili e l’una non sarà mai completa se mancherà
l’altra.
Un accenno voglio farlo anche alla centralità dell’eucarestia nella vita dei gruppi –penso
anche all’esperienza dei gruppi giovanili. È solo la comune partecipazione al’eucarestia
che fa capire che un gruppo cristiano non è simile ad una comitiva di amici, ma si radica in Cristo e
chiede di camminare verso di Lui e non solo gli uni verso gli altri. Gli adolescenti che camminano verso la
cresima o che danno vita a dei gruppi dopo di essa, non avranno mai un cammino serio e stabile finché non
saranno aiutati ad animare insieme la liturgia ed a trovare in essa il motivo del loro incontrarsi.
La Chiesa non solo ha sempre spiegato chi è il Dio in cui crediamo, non solo ha sempre gradualmente
introdotto i nuovi cristiani nella celebrazione, ma ha anche accompagnato a vivere una vita confacente al
vangelo, secondo i Dieci comandamenti e secondo il Comandamento dell’amore. È la vita in Cristo.
Così la terza parte del CCC si sofferma su cosa vuol dire vivere da cristiani e, quindi, spiega
cos’è l’amore, cos’è la libertà, cos’è la coscienza, cosa
sono i comandamenti. Così, già nell’antichità, la catechesi parlava del matrimonio,
del furto, dell’avidità, dell’elemosina, ecc. ecc. E si chiedeva ai catecumeni di cambiare
vita, attraverso il cammino della catechesi.
Perché si è preferito parlare della “vita in Cristo” e non semplicemente della
“carità”? Si sarebbe potuto intitolare questa terza parte con il semplice termine
“amore”, perché è vero che la carità è la sintesi dei comandamenti; il
rischio è che, se noi diciamo carità, ci vengono subito in mente i poveri, ma possiamo
dimenticare la nostra famiglia, il lavoro, la politica, la cultura, l’università, ecc.
La spiegazione dei Dieci comandamenti e del Comandamento dell’amore aiuta a vedere tutta
l’ampiezza della vita in Cristo che è carità verso i piccoli ed i bisognosi, ma è
anche scoperta della propria vocazione, è anche amore della famiglia, è anche passione per la
ricerca scientifica e la professione, ecc.
I Dieci comandamenti mostrano che quella fede diventa vita. Quella fede che viene creduta nel Simbolo e
che è celebrata nella liturgia, deve al contempo toccare la vita, parlare degli affetti, della
sessualità, dello studio, delle scelte di vita. Altrimenti, non ha niente a che fare con l’esistenza
concreta e bella che viviamo.
Pensate ad un cammino di ragazzi. Se in una pastorale dei giovani non si parla mai dell’affettività,
dell’innamoramento, loro percepiscono la fede come una cosa astratta, che non tocca la loro vita, sentono
che il catechista non entra nei problemi che loro vivono. Se non si parla mai della scuola, quel ragazzo potrebbe
diventare un po’ bigotto, concludere che la scuola è una cosa e la fede un’altra, invece deve
capire che chi è cristiano si interessa alla vita, alla ricerca, all’educazione. E deve
comprendere qual è la parola nuova che la fede dice sull’affettività, sullo studio, sulla
storia dell’uomo.
Durante il convegno diocesano dello scorso anno, c’è stato un intervento del prof.Franco Nembrini,
il quale ha raccontato che uno dei suoi figli gli ha domandato un giorno: “Papà, ma noi siamo una
famiglia normale?” Chiedeva la conferma che la fede non allontana dalla vita, ma aiuta a viverla in
tutta la sua bellezza e profondità.
Lui, come padre, -raccontava- capì che in quella domanda c’era l’interrogativo su quale fosse
la relazione tra la fede e le cose che i suoi figli vivevano ogni giorno; c’era l’interrogativo se
la fede portasse fuori dalla realtà, in un mondo alienato, diverso rispetto a quello nel quale tutti
viviamo o se, piuttosto, conducesse a vivere più in profondità la vita.
Qui si apre l’importante capitolo di quanto la catechesi sappia toccare le tematiche centrali, non
semplicemente di attualità, della vita delle famiglie, dei giovani, dei bambini. Si apre anche la
strada ad una catechesi che accompagni le riunioni con la testimonianza di adulti che raccontino della loro
vocazione, con l’incontro con docenti che parlino della fede e della cultura, con il progressivo
inserimento nel servizio verso l’oratorio, verso le missioni, verso le povertà del quartiere, verso
la carità.
La Chiesa antica non solo consegnava e spiegava il Credo, non solo celebrava, non solo aiutava a vivere una vita
cristiana, ma anche insegnava a pregare da soli come cristiani. Il momento che rendeva evidente questo era
la consegna del Padre nostro nel cammino verso il battesimo. La IV parte del CCC riprende
tutto questo e tratta della preghiera.
Il CCC manifesta così che la Chiesa deve anche oggi consegnare il Padre Nostro e la preghiera
cristiana. Come si consegnano i sacramenti, come si consegna il Credo, come si consegnano i Comandamenti,
bisogna educare alla preghiera personale, alla cura dell’interiorità e della spiritualità,
attraverso la preghiera. Così un bambino deve imparare a pregare da solo, non deve pregare solo se ci
sono gli altri. Deve scoprire la gioia di addormentarsi ringraziando Dio e di alzarsi confidando nel Suo
aiuto.
Questa quarta dimensione, questa quarta colonna, non toglie, ancora una volta, importanza alla riunione, alle
parole che il catechista dice, ma aiuta a comprendere che c’è un altro aspetto che è
anch’esso insostituibile. Voi sapete bene che la cura del silenzio e dell’interiorità
è una delle difficoltà più grandi nel nostro contesto culturale, perché i
genitori, in questa cultura dei media, non sanno più insegnare il raccoglimento, la concentrazione.
È raro trovare un bambino che sappia ascoltare, che sappia stupirsi la notte delle stelle e che si
fermi qualche minuto ad ammirarle, perché noi siamo abituati a riempire tutto di rumori. Figuriamoci se
viene insegnato un silenzio che arriva a porsi al cospetto di Dio, nella propria camera o, in Chiesa, dinanzi al
tabernacolo. Eppure questo è decisivo; se non si lavora su questa dimensione, manca ancora una volta
qualcosa di costitutivo.
Il bambino che cresce in un mondo di immediatezza e di rumori, incapace di pensare, di raccogliersi, di
attendere, di cercare di capire, diventerà un giovane che brucia tutte le tappe. Diventerà
un ragazzo che, dopo un minuto che vede una ragazza, le dice: “Ti amo”, dopo un’ora ci fa
l’amore, dopo una settimana va a convivere, perché non saprà pensare, non sarà
abituato a riflettere, a porre del tempo fra l’impulso e la decisione, non saprà amare il tempo
dello stupore, dell’attesa, del ringraziamento.
La cura progressiva dell’interiorità lo aiuterà pian piano a porsi, invece, le domande belle
e grandi e a saper aprire il cuore nella preghiera chiedendo a Dio: “Signore, ma tu che ne pensi?”
L’interiorità è così un pilastro della vita di fede. Non è sufficiente stare
insieme per essere credenti, bisogna anche imparare a stare da soli, ad essere soli con se stessi e con Dio.
Queste quattro “colonne” sono però abbracciate da un unico fondamento che è la
Chiesa, della quale stiamo parlando. La catechesi introdurrà sì al Credo, alla liturgia, alla
vita in Cristo, alla preghiera personale, ma lo farà introducendo alla vita ecclesiale.
La vita di gruppo, la relazione personale con ognuno, il rapporto con le famiglie di chi partecipa alla
catechesi, il rapporto con i catechisti e gli animatori delle altre fasce di età, la comunione con tutta
la parrocchia, momenti particolari come i ritiri nei tempi forti e le esperienze dei GREST e dei campi
estivi manifestano qui tutta la loro importanza.
Un catechista curerà con grande attenzione la riunione ed i suoi contenuti, ma sarà anche
l’animatore di questa vita ecclesiale. Non sarà –come si dice a torto- l’amico di
tutti, ma avrà cura del nascere di una relazione di vera fraternità fra tutti coloro che scoprono
la fede.
Un cammino di iniziazione cristiana che si affidi alla sola riunione non potrà esprimere tutta la
ricchezza della vita cristiana. Dove, invece, ci sarà chi si dedichi ai bambini, ai giovani, agli adulti,
vivendo con loro questa trama di relazioni che è la quotidianità della vita ecclesiale,
molte cose cambieranno e si arricchiranno.
Possiamo vedere ancora solo un aspetto concreto di questa iniziazione alla vita ecclesiale, dopo tutto quello che
abbiamo detto fin qui: vogliamo cercare di capire come tenere insieme una vera accoglienza di tutti ed una
reale proposta di un serio cammino cristiano.
Spesso, nelle parrocchie, ci domandiamo come fare ad andare incontro alle persone che bussano alla parrocchia,
ma in realtà non sono molto interessate, che battezzano un bambino e non sanno neanche perché,
che accompagnano il figlio a messa durante gli anni del catechismo e lo vanno a riprendere senza fermarsi a
celebrare con lui. Dinanzi a loro vediamo che c’è un numero molto più piccolo di persone, che
però appaiono più convinte. E ci domandiamo, allora, se non siano da curare ancora di più
queste ultime, se non siano da privilegiare, perché sono poi quelle su cui si può contare.
C’è una chiesa di popolo, grande, numerosa, ma a volte timida e ci sono persone che sanno pregare,
sanno studiare, credono profondamente, vivono la carità. La tentazione, dinanzi a tutto questo,
è di mettere queste due realtà in contrapposizione. Alcuni affermeranno allora che i veri
cristiani sono quelli convinti, presenti. E allora in parrocchia si daranno tutte le energie ai catechisti, ai
componenti dei vari gruppi, e la parrocchia si incentrerà completamente su quelle persone che sono quelle
che veramente la tengono in mano. In questa situazione chi arriverà per la prima volta si sentirà
fuori posto. Nascerà il rischio che vengano trascurati tutti quelli che hanno una fede povera.
All’opposto ci saranno quei casi in cui si aprono le braccia a tutti, ma, per esempio, non si
fonderà mai un gruppo giovanile, un gruppo di famiglie, non si seguiranno i catechisti, non ci sarà
un oratorio con dei veri animatori. Qui la pastorale sarà per tutti, ma non ci sarà mai
qualcuno che ne diventi protagonista ed educatore.
La Chiesa ci dice che questa antitesi deve essere superata, che noi dobbiamo mantenere una relazione viva,
forte, bella tra il gruppo di coloro che sono molto convinti e quella chiesa di popolo più numerosa e
silenziosa.
Benedetto XVI ha scritto che sempre queste due facce della Chiesa hanno convissuto insieme e si sono fecondate a
vicenda, senza mai elidersi, senza poter mai essere poste l’una senza l’altra, a meno di non
distruggere il vangelo. La forza della fede di chi è profondamente convinto si manifesta proprio nel fatto
che questa fede è donata perché porti luce agli altri. Queste persone -che Benedetto XVI chiama le
“minoranze creative” in uno dei suoi scritti che potete leggere nell’antologia
distribuita- sono veramente cristiane se sentono cristiani anche quelli che hanno poca fede, e li accolgono, e
sono felici che ci siano, e non li fanno sentire estranei; anzi la loro creatività ha senso proprio
perché vivifica anche la debolezza degli altri.
Se essi si sentissero, invece, gli unici cristiani, distruggerebbero il dono che hanno ricevuto, perché
non lo metterebbero più a disposizione di tutti. Faccio un esempio concreto, che mi divertì
–e mi preoccupò!- quando sono diventato parroco: in occasione della prima Pasqua vennero assegnate
le letture per la veglia pasquale, ma alla fine della messa alcune persone mi fecero notare che la lettura
dell’Esodo per la prima volta non era stata fatta dalla persona alla quale era stata data sempre negli anni
precedenti! Ero arrivato da poco e non sapevo di questa consuetudine, ma comunque non è questo lo spirito
che dovrebbe animare una parrocchia. Non è che uno inizia a fare una cosa e deve farla per sempre: uno
è catechista e guai a chi gli tocca il posto, l’altro si è storicamente sempre occupato della
Caritas e nessun altro è autorizzato a far parte del Centro di ascolto!
Al contrario, la forza della testimonianza di una persona consisterà proprio nel fatto che ogni tanto
saprà fare un passo indietro per far crescere un altro che impari a fare le cose al suo posto. Una
persona è veramente testimone quando riesce a far nascere continuamente dalla sua fede questa accoglienza.
È necessario che cresca nelle nostre parrocchie questo stile di fraternità per cui si accoglie il
tiepido e man mano si cammina insieme, perché si accolgano sempre dei nuovi cristiani. Come ognuno di noi
è stato accolto dalla Chiesa, così deve avvenire per ogni nuova persona che si affaccia alla
ricerca del Signore. I gruppi servono, anzi sono necessari, ma devono essere dei gruppi aperti, che guardano
sempre lontano.
Questo equilibrio che dobbiamo trovare non è una esigenza solo del tempo presente, ma sempre, nella sua
storia, la Chiesa ha cercato di mostrare come si debbano accogliere tutti ed, insieme, come si debba proporre
seriamente la fede. Sant’Agostino, ad esempio, dinanzi alla crisi donatista nella quale i seguaci di
Donato non ritenevano più cristiani quelli che avevano tradito la fede dinanzi alle persecuzioni, si
opponeva a loro dicendo che erano come rane che gracidavano ai bordi di uno stagno, dicendo di essere i soli
cristiani, mentre Dio aveva annunciato che il suo regno avrebbe abbracciato il cielo e la terra. Ed aggiungeva
che il cristiano ha tre compiti: diventare santo, convivere con i peccatori, aiutarli a diventare santi!
Voglio concludere con alcune parole di d.Andrea Santoro, martire della chiesa di Roma, che possono
ulteriormente illuminare questa capacità di accogliere che è propria della Chiesa e che la deve
sempre caratterizzare anche nella catechesi delle nostre parrocchie. Quando lasciò la parrocchia dei SS.
Fabiano e Venanzio per partire missionario per la Turchia scrisse una lettera di ringraziamento rivolta a tutti
quelli che avevano lavorato con lui in parrocchia: preti, collaboratori, suore, laici. Ma il suo ringraziamento
non si fermò lì: alla fine, con delle parole bellissime, volle rivolgersi anche a tutti quelli che
non aveva mai conosciuto personalmente:
Ringrazio quanti non ho conosciuto perché mi hanno concesso di vivere accanto a loro e di amarli anche
se a distanza. Sempre ho pregato per loro e sempre li ho pensati a me vicini, soprattutto la sera quando guardavo
le finestre illuminate delle case e a messa quando, alzando il calice del sangue di Cristo dicevo: “questo
è il calice del mio sangue, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati”. In quel
“tutti” comprendevo proprio tutti, nessuno escluso. Nel mio cuore, andando via, porterò ogni
persona conosciuta e non conosciuta della parrocchia: sono le pecorelle, i figli, i “pesciolini”
affidati alla mia pesca e destinati alla rete del Regno di Dio.
Sono le parole di un parroco, ma penso che ognuno di voi ci si possa ritrovare come catechista, come operatore
della pastorale, in questo sguardo che è rivolto certo a chi abbiamo davanti nelle riunioni, negli
incontri, nelle celebrazioni, ma che va oltre, che giunge a tutte le persone, anche a quelle a noi sconosciute.
D.Andrea Santoro li chiama i figli, i figli della parrocchia, i figli della chiesa, perché figli del
Signore, affidati anche alla nostra tenerezza, alla nostra attenzione, al nostro amore.
II incontro 2007/2008 dei catechisti e degli operatori di pastorale nelle prefetture
Una compagnia affidabile: la proposta della vita ecclesiale nella parrocchia
Sintesi dell’incontro precedente
N.B. Per chi non avesse partecipato al primo incontro, una trascrizione
è disponibile su www.ucroma.it
e su www.gliscritti.it (e successivamente la trascrizione
del secondo incontro).
Da Joseph Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti spirituali ieri, oggi e domani, San Paolo, Cinisello Balsamo
2004
C’è un odio di sé dell’Occidente che è strano e che si può considerare
solo come qualcosa di patologico; l’Occidente tenta sì in maniera lodevole ad aprirsi pieno di
comprensione a valori esterni, ma non ama più se stesso; della sua propria storia vede oramai soltanto
ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire
ciò che è grande e puro. L’Europa ha bisogno di una nuova – certamente critica e
umile – accettazione di se stessa, se vuole davvero sopravvivere. La multiculturalità, che viene
continuamente e con passione incoraggiata e favorita, è talvolta soprattutto abbandono e rinnegamento di
ciò che è proprio, fuga dalle cose proprie. Ma la multiculturalità non può sussistere
senza il rispetto di ciò che è sacro. Essa comporta l’andare incontro con rispetto agli
elementi sacri dell’altro, ma questo lo possiamo fare solamente se il sacro, Dio, non è estraneo a
noi stessi.
Dalla lettera di Romano Guardini a mons. G.B. Montini, del 29 marzo 1952
Il riconoscimento della Chiesa è stato la convinzione determinante della mia vita. Quando ero ancora
studente di scienze politiche ho capito che la vera e propria scelta cristiana non ha luogo davanti al
concetto di Dio e neppure di fronte alla figura di Cristo, ma davanti alla Chiesa. Ciò mi ha fatto
capire che una vera efficacia è possibile solo nell'unità con essa.
Da Romano Guardini, Il senso della Chiesa, Morcelliana, Brescia, 2007, pp.106-107
Il discorso si volge alla Chiesa reale, non alla sua idea, non a una Chiesa spirituale, bensì a quella
storica, attuale. La Chiesa non è affatto un’idea che possa essere progettata a priori, e
su cui ci si possa ritirare, quando la realtà fallisca. In fondo non vi è alcuna filosofia della
Chiesa: essa si presenta piuttosto come una realtà unica. La sua condizione è analoga a quella
d’un uomo: se qualcuno dicesse che il suo assenso, l’approvazione, non vale affatto per
l’essere concreto dell’amico, bensì per la sua idea, gli farebbe ingiustizia. Sì,
sarebbe sleale verso di lui; poiché è la personalità dell’amico che esige si consenta
alla sua realtà esistenziale, ovvero la si rinneghi. Il sì o il no, la lotta o la fedeltà
– non però nell’intendimento d’astrarre dalla realtà, per amore dell’idea:
sarebbe metafisicamente falso, in quanto costituirebbe un disconoscimento dell’importanza decisiva della
personalità, la quale impedisce di farne semplicemente un caso individuo dell’universale. E sarebbe
eticamente illecito, poiché equivarrebbe a porre al posto di quell’atteggiamento, che si richiede
dalla persona, quello ben diverso che è adatto di fronte ad una cosa. Appunto tale è
l’assurdità di una distinzione tra realtà ed idea della Chiesa. Vi e è però a
questo proposito tanto più stringente la necessità di un’altra distinzione. Ci si deve
chiedere: riesce ad apparire la forma essenziale, la perfezione interiore della Chiesa nella sua manifestazione
esteriore nel tempo? Sono operanti le energie essenziali della Chiesa attraverso le sue espressioni di vita
visibile? L’interiorità del suo essere si inserisce percepibilmente negli uomini che formano la
Chiesa? Qui nessuno si può sentire esentato dal dare risposta, perché essa lo riguarda
personalmente. Quando si sia riconosciuto che la Chiesa nella sua reale essenza è rivestita di valore e
rimane ognora una via e una forza atta a farci pervenire al compimento del nostro destino, ciò ci
riempirà innanzitutto di un profondo senso di gratitudine, non ci concederà tuttavia per nulla
il diritto di collocarci in essa a nostro agio, bensì si muterà in una istanza: poiché
la parabola dei talenti [cfr. Mt 26,15; Lc 19,13] vale anche per i nostri rapporti con la Chiesa. Noi
siamo gravati di una responsabilità in rapporto ad essa, ciascuno a suo modo, il sacerdote in virtù
dell’Ordine, il laico attraverso la Cresima. Dipende da ciascuno di noi con quanta larghezza e
profondità contribuiamo a determinarla nel suo essere e nel suo manifestarsi, nel suo interno e nel suo
esterno.
1/ Voluta dal “Gesù reale”: Cristo ha amato la chiesa ed ha dato se stesso per lei (Ef 5,
25)
Da Joseph Ratzinger, Origine e natura della Chiesa, in La Chiesa. Una comunità sempre in cammino,
Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.9-31
Dobbiamo tener conto del fatto che la comunità dei discepoli di Gesù non è un gruppo
amorfo. In mezzo a loro c'è il nucleo compatto dei Dodici, accanto al quale, secondo Luca (10,1-20),
si colloca altresì la cerchia dei settanta o settantadue discepoli. Va tenuto presente che solo dopo la
risurrezione i Dodici ricevono il titolo di «apostoli». Prima di allora sono chiamati semplicemente
«i Dodici». Questo numero, che fa di loro una comunità chiaramente circoscritta, è
così importante che, dopo il tradimento di Giuda, viene nuovamente integrato (At1,15-26). Marco descrive
espressamente la loro vocazione con le parole: «e Gesù ne costituì Dodici » (3,14). Il
loro primo compito è quello di formare insieme i Dodici; a ciò si aggiungono poi due funzioni:
«che stessero con lui e potesse inviarli a predicare» (Mc3,14). Il simbolismo dei Dodici è
perciò di decisiva importanza: è il numero dei figli di Giacobbe, il numero delle tribù
d'Israele. Con la formazione del gruppo dei Dodici Gesù si presenta come il capostipite di un nuovo
Israele; a sua origine e fondamento sono prescelti dodici discepoli. Non poteva essere espressa con maggiore
chiarezza la nascita di un popolo che ora si forma non più per discendenza fisica, bensì attraverso
il dono di «essere con» Gesù, ricevuto dai Dodici che da lui vengono inviati a
trasmetterlo.
Dalla nota della Bibbia di Gerusalemme a Mt 16, 18 (BJ Mt 16, 18+)
Né la parola greca petros, e nemmeno, sembra, il suo corrispondente aramaico
kefa (“roccia”) erano usati come nomi di persona prima che Gesù avesse
chiamato così il capo degli apostoli per simboleggiare il suo compito nella fondazione della
chiesa.
2/ Cristo ha voluto la chiesa perché sia nostra madre
Dalla Dei Verbum
Il Verbum Dei (la Parola definitiva e piena di Dio) è Gesù Cristo
La Sacra Tradizione è e trasmette il Verbum Dei
La Sacra Scrittura è Parola di Dio (Locutio Dei)
Dalla Dei Verbum, 7
Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti,
rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo Signore, nel
quale trova compimento tutta intera la Rivelazione di Dio altissimo, ordinò agli apostoli che l'Evangelo,
prima promesso per mezzo dei profeti e da lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro predicato a
tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, comunicando così ad essi i
doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con
gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo con lui
e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai suggerimenti dello Spirito Santo, quanto da quegli
apostoli e da uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il
messaggio della salvezza.
Gli apostoli poi, affinché l'Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono
come loro successori i vescovi, ad essi «affidando il loro proprio posto di maestri». Questa
sacra Tradizione e la Scrittura sacra dell'uno e dell'altro Testamento sono dunque come uno specchio nel
quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia
a faccia, com'egli è (cfr. 1 Gv 3,2).
Dalla Dei Verbum 9
La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura sono strettamente tra loro congiunte e comunicanti. Poiché
ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e tendono allo
stesso fine... Accade così che la Chiesa attinga la sua certezza non dalla sola Sacra Scrittura.
Da Joseph Ratzinger, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Città Nuova, Roma,
1994, pp. 34-35
A un vescovo anziano, molto stimato per la sua erudizione, venne inviata una delle ultime redazioni del
Catechismo prima della pubblicazione, allo scopo di avere un suo giudizio. Egli restituì il manoscritto
con una espressione di gioia. Si, disse, questa è la fede di mia madre. Egli era lieto del fatto che
la fede che aveva appreso da bambino e che lo aveva guidato per tutta la vita si trovava riformulata bella sua
ricchezza, nella sua bellezza, ma anche nella sua semplicità e nella sua indistruttibile identità.
E’ la fede di mia madre: la fede di nostra madre, della Chiesa. A questa fede ci invita il
Catechismo.
Da Ch.Schönborn, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Città Nuova, Roma,
1994, p. 60
“Cos’è il depositum fidei?”, chiede Newman. “E’ ciò che ti
è stato affidato, non ciò che hai scoperto tu; ciò che hai ricevuto, non ciò che hai
immaginato tu; non prodotto di astuzia, ma di insegnamento; non di consuetudine privata, ma di tradizione
pubblica”.
Da Joseph Ratzinger, L’ecclesiologia del Vaticano II, in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni
Paoline, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.9-16
La Chiesa non la si può fare, ma solo riceverla, e cioè riceverla da dove essa è
già, da dove essa è realmente presente: dalla comunità sacramentale del suo Corpo che
attraversa la storia. Ma c’è da aggiungere ancora qualcosa, che ci aiuta a comprendere [...]:
Cristo è dovunque intero. Questa è la prima importantissima cosa che il Concilio ha
formulato [...]. Ma egli è dovunque anche uno solo, e perciò io posso avere l’unico
Signore solo nell’unità che egli stesso è, nell’unità con gli altri che sono
anche essi il suo Corpo e che, nell’Eucarestia, lo devono sempre di nuovo diventare.
Da Joseph Ratzinger, Perché sono ancora nella Chiesa, in H.U.von Balthasar-Joseph Ratzinger, Due
saggi. Perché sono ancora cristiano. Perché sono ancora nella Chiesa, Queriniana, Brescia, 1972,
pagg.51-71
Proprio per questo [la luna] simboleggia la Chiesa, la quale pure risplende, anche se di per sé
è buia; non è luminosa in virtù della propria luce, ma del vero sole, Gesù Cristo,
cosicché, pur essendo soltanto terra (anche la luna non è che un'altra terra), è ugualmente
in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio - «la luna narra il mistero di
Cristo» (Ambrogio, Exameron IV 8,23). [...] La sonda lunare e l'astronauta scoprono la luna
soltanto come landa rocciosa e desertica, come montagne e come sabbia, non come luce. E in effetti essa è
in se stessa soltanto deserto, sabbia e rocce. E tuttavia, per merito di altri ed in funzione di altri ancora,
essa è pure luce e tale rimane anche nell'epoca dei voli spaziali. È dunque ciò, che in se
stessa non è. Pur appartenendo ad altri, questa realtà è anche sua. Esiste una
verità fisica ed una simbolico-poetica, una non elimina l'altra. Ciò non è forse un'immagine
esatta della Chiesa? Chi la esplora e la scava con la sonda spaziale scopre soltanto deserto, sabbia e terra, le
debolezze dell'uomo, la polvere, i deserti e le altezze della sua storia. Tutto ciò è suo, ma non
rappresenta ancora la sua realtà specifica. Il fatto decisivo è che essa, pur essendo soltanto
sabbia e sassi, è anche luce in forza di un altro, del Signore: ciò che non è suo, è
veramente suo e la qualifica più di qualsiasi altra cosa, anzi la sua caratteristica è proprio
quella di non valere per se stessa, ma solo per ciò che in essa non è suo.
3/ “Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica” e l’ecclesiologia di
comunione
Da Joseph Ratzinger, Chiesa universale e Chiesa locale. Il compito del vescovo, in La Chiesa. Una
comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.55-74
Quando parliamo del “noi “ dei vescovi, dobbiamo aggiungere un ulteriore livello di considerazione:
questo “noi” non va inteso solo in senso sincronico, ma anche in senso diacronico. Il che
significa che nella Chiesa nessuna generazione è isolata. Nel corpo di Cristo il limite della morte non
conta più; in lui passato, presente e futuro si compenetrano. Il vescovo non rappresenta mai solo se
stesso, né ciò che predica è il suo proprio pensiero; il vescovo è un inviato, e in
quanto tale un ambasciatore di Gesù Cristo. L’indicatore della strada che introduce nel messaggio
è per lui il “noi” della Chiesa, e precisamente il “noi” della Chiesa di tutti
i tempi. Se da qualche parte venisse a formarsi una maggioranza contro la fede della Chiesa di altri tempi, non
sarebbe affatto maggioranza: nella Chiesa la vera maggioranza è diacronica, abbraccia tutte le epoche, e
solo se si ascolta questa totale maggioranza si rimane nel “noi” apostolico.
Da Joseph Ratzinger, L’ecclesiologia della Costituzione Lumen Gentium, in La Comunione nella Chiesa,
San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, pagg.129-161
Nella Chiesa non vi sono stranieri: ognuno è ovunque a casa sua e non solo ospite. E' sempre
l'unica Chiesa, l'unica e la medesima. Chi è battezzato a Berlino, è nella Chiesa a Roma o a
New York o a Kinshasa o a Bangalore o in qualunque altro posto, altrettanto a casa sua come nella Chiesa in cui
è stato battezzato. Non deve registrarsi di nuovo, è l'unica Chiesa. Il battesimo viene da essa e
genera a essa. Chi parla del battesimo parla, tratta di per se stesso anche della parola di Dio, che per la
Chiesa intera è solo una e continuamente la precede in tutti i luoghi, la convoca e la edifica. Questa
parola è sopra la Chiesa, e nondimeno è in essa, affidata a essa come soggetto vivo. La parola di
Dio ha bisogno, per essere presente in modo efficace nella storia, di questo soggetto, ma questo soggetto da
parte sua non sussiste senza la forza vivificante della parola, che innanzitutto la rende soggetto. Quando
parliamo della parola di Dio, intendiamo anche il Credo, che sta al centro dell'evento battesimale; esso è
la modalità, con cui la Chiesa accoglie la parola e la fa propria, in qualche modo parola e risposta allo
stesso tempo. Anche qui è presente la Chiesa universale, l'unica Chiesa in modo assai concreto e
percepibile.
Documento di base, 200
L’esperienza catechistica moderna conferma ancora una volta che prima sono i catechisti e poi i catechismi;
anzi, prima ancora sono le comunità ecclesiali.
Dall’omelia di Benedetto XVI per l’insediamento sulla cathedra romana in Laterano, 7 maggio
2005
Questa potestà di insegnamento [del vescovo di Roma] spaventa tanti uomini dentro e fuori della
Chiesa.Si chiedono se essa non minacci la libertà di coscienza, se non sia una presunzione
contrapposta alla libertà di pensiero. Non è così. Il potere conferito da Cristo a Pietro e
ai suoi successori è, in senso assoluto, un mandato per servire. La potestà di insegnare,
nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza alla fede. Il Papa non è un sovrano
assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia
dell’obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee,
bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte
a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo.
La quadripartizione del CCC (Catechismo della Chiesa cattolica) e l’iniziazione alla vita
ecclesiale
Dall’Introduzione dell’allora cardinal J.Ratzinger al Compendio del Catechismo della Chiesa
Cattolica
Come il Catechismo, anche il Compendio si articola in quattro parti, in corrispondenza delle leggi
fondamentali della vita in Cristo.
La prima parte, intitolata «La professione della fede», contiene un’opportuna
sintesi della lex credendi, e cioè della fede professata dalla Chiesa Cattolica, ricavata dal
Simbolo Apostolico illustrato con il Simbolo Niceno-Costantinopolitano, la cui costante proclamazione nelle
assemblee cristiane mantiene viva la memoria delle principali verità della fede.
La seconda parte, intitolata «La celebrazione del mistero cristiano», presenta gli
elementi essenziali della lex celebrandi. L’annuncio del Vangelo trova, infatti, la sua risposta
privilegiata nella vita sacramentale. In essa i fedeli sperimentano e testimoniano in ogni momento della loro
esistenza l’efficacia salvifica del mistero pasquale, per mezzo del quale Cristo ha compiuto l’opera
della nostra redenzione.
La terza parte, intitolata «La vita in Cristo», richiama la lex vivendi e
cioè l’impegno che i battezzati hanno di manifestare nei loro comportamenti e nelle loro scelte
etiche la fedeltà alla fede professata e celebrata. I fedeli, infatti, sono chiamati dal Signore
Gesù a compiere le opere che si addicono alla loro dignità di figli del Padre nella carità
dello Spirito Santo.
La quarta parte, intitolata «La preghiera cristiana: Padre Nostro», offre una sintesi
della lex orandi e col della vita di preghiera. Sull’esempio di Gesù, il modello perfetto di
orante, anche il cristiano è chiamato al dialogo con Dio nella preghiera, una cui espressione privilegiata
è il Padre nostro, la preghiera insegnataci da Gesù stesso.
Da J.Ratzinger, Il Catechismo della Chiesa cattolica e l’ottimismo dei redenti, in
J.Ratzinger-Ch.Schönborn, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Città Nuova, Roma,
1994, pp.26- 27
Alcuni erano dell’opinione che il Catechismo dovesse svilupparsi in una concezione cristocentrica, altri
ritenevano che il cristocentrismo dovesse essere superato dal teocentrismo. Finalmente si offrì alla
nostra riflessione il concetto del Regno di Dio come principio unificatore. Dopo una discussione serrata,
arrivammo alla convinzione che il Catechismo non doveva rappresentare la fede come un sistema o come un qualcosa
da derivare da un unico concetto centrale [...] Dovevamo fare qualcosa di più semplice: predisporre gli
elementi essenziali che possono essere considerati come le condizioni per l’ammissione al battesimo,
alla vita comunionale dei cristiani. Ogni musulmano conosce i principi essenziali della propria religione: la
fede nell’unico Dio, nel suo profeta, nel Corano; la prescrizione del digiuno e il pellegrinaggio alla
Mecca. Che cosa fa di un uomo un cristiano? Il catecumenato della Chiesa primitiva ha raccolto gli elementi
fondamentali a partire dalla Scrittura: sono la fede, i sacramenti, i comandamenti, il Padre Nostro. In
modo corrispondente esisteva la redditio symboli – la consegna della professione di fede
e la sua “redditio”, la memorizzazione da parte del battezzando-; l’apprendimento del Padre
Nostro, l’insegnamento morale e la catechesi mistagogica, vale a dire l’introduzione alla vita
sacramentale. Tutto ciò appare forse un po’ superficiale, ma invece conduce alla profondità
dell’essenziale: per essere cristiani, si deve credere; si deve apprendere il modo di vivere cristiano, per
così dire lo stile di vita cristiano; si deve essere in grado di pregare da cristiani e si deve infine
accedere ai misteri e alla liturgia della Chiesa. Tutti e quattro questi elementi appartengono intimamente
l’uno all’altro: l’introduzione alla fede non è la trasmissione di una teoria, quasi che
la fede fosse una specie di filosofia, “un platonismo per il popolo”, come è stato affermato
in modo sprezzante: la professione di fede è nient’altro che il dispiegarsi della formula
battesimale. L’introduzione alla fede é essa mistagogia: introduzione al battesimo, al processo di
conversione, in cui non agiamo solo da noi stessi, ma lasciamo che Dio agisca in noi. Perciò
l’esposizione della professione di fede è strettamente connessa con la catechesi liturgica, è
guida alla celebrazione dei misteri. L’introduzione nella liturgia implica anche l’imparare a
pregare, e saper pregare significa imparare a vivere, implica di conseguenza il problema morale. Così, nel
corso delle nostre discussioni, la quadripartizione del Catechismo tridentino – professione di fede,
sacramenti, comandamenti, preghiera – si è dimostrata la via più adeguata per un
catechismus maior; questa divisione permette inoltre a chi utilizza il libro di orientarsi nel modo
più rapido e facile, e di consultare le singole questioni che lo interessano. Non senza nostra sorpresa
emerse che in questa apparente giustapposizione di elementi si poteva riconoscere addirittura qualcosa di simile
a una “sistema”; vengono presentati l’uno dopo l’altro: ciò che la chiesa crede,
celebra, vive, prega. C’è stata la proposta di collegare le singole parti di loro attraverso
questi titoli in modo da rendere visibile l’unità interna del libro. Per due ragioni, però,
abbiamo rifiutato alla fine questa idea: da questo metodo sarebbe risultato una specie di ecclesiocentrismo, dal
quale il Catechismo è del tutto distante. Tale ecclesiocentrismo – questo è stato il secondo
rilievo – conduce poi facilmente a una specie di relativismo e soggettivismo della fede: viene presentata
soltanto la coscienza della Chiesa ma rimane fra parentesi la questione se tale coscienza corrisponda alla
realtà. Molti libri di religione non osano più neanche dire: Cristo è risorto; ma affermano
semplicemente: la comunità sperimentò Cristo come risorto. La questione della verità di
questa esperienza rimane aperta. Con un simile ecclesiocentrismo dilatato si giunge finalmente allo schema di
pensiero dell’idealismo tedesco: tutto si muove solo all’interno della coscienza; in questo caso,
della coscienza della Chiesa (la Chiesa crede, celebra, ecc.). Il Catechismo voleva e vuole parlare franco e
chiaro al riguardo: Cristo è risorto. Il Catechismo confessa la fede come realtà, non soltanto come
contenuto della coscienza dei cristiani.
Da Ch.Schönborn, Il Catechismo della Chiesa cattolica. Concetti dominanti e temi principali, in
J.Ratzinger-Ch.Schönborn, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Città Nuova, Roma,
1994, pp.47-48
Il cardinal Ratzinger ha formulato chiaramente questa opzione nelle conferenze tenute a Parigi e a Lione nel
1983: la struttura della catechesi «è prodotta degli atti vitali fondamentali della Chiesa, che
corrispondono alle dimensioni essenziali dell’esistenza cristiana. Così è sorta nei tempi
remoti una struttura catechetica che nella sostanza risale al sorgere della Chiesa, che è, cioè,
altrettanto e persino più antica del Canone degli scritti biblici. Lutero ha adoperato questa struttura
per i suoi catechismi altrettanto naturalmente quanto l’autore del Catechismus Romanus.
Questo è stato possibile perché non si tratta di una sistematica artificiosa, ma semplicemente del
compendio del materiale di cui la fede necessariamente fa memoria, e che riflette, insieme, gli elementi vitali
della Chiesa: la professione di fede apostolica, i sacramenti, il Decalogo e la Preghiera del Signore.
1/ I colonna: formare alla fede. Logos e Agape
- non lo approfondiamo, perché è stato il tema dell’incontro precedente
2/ II colonna: l’eucarestia ed i sacramenti al centro della comunione
Da J.Ratzinger, L’ecclesiologia del Vaticano II, in Chiesa, ecumenismo e politica, Paoline, Cinisello
Balsamo, 1987, pp.9-16
Henri de Lubac [...] ha chiarito che il termine “corpus mysticum” originariamente contrassegna la
SS.Eucarestia e che, per Paolo come per i Padri della Chiesa, l’idea della Chiesa come Corpo di Cristo
è stata inseparabilmente collegata con l’idea dell’Eucarestia, in cui il Signore è
presente corporalmente e dà a noi il suo corpo come cibo. Ebbe così origine
un’ecclesiologia eucaristica, chiamata spesso anche ecclesiologia di “communio”. Questa
ecclesiologia della “communio” è diventata il vero e proprio cuore della dottrina sulla Chiesa
del Vaticano II, l’elemento nuovo e allo stesso tempo del tutto legato alle origini, che questo
Concilio ha voluto donarci. Alla Chiesa appartiene essenzialmente l’elemento del “ricevere”,
così come la fede deriva dall’ascolto e non è prodotto delle proprie decisioni o riflessioni.
La fede infatti è incontro con ciò che io non posso escogitare o produrre con i miei sforzi, ma che
mi deve invece venire incontro. Questa struttura del ricevere, dell’incontrare, la chiamiamo
“Sacramento”. E appunto per questo rientra ancora nella forma fondamentale del Sacramento il fatto
che esso viene ricevuto e che nessuno se lo può conferire da solo.
3/ III colonna: l’introduzione alla vita cristiana, l’educazione che proietta la luce del vangelo
sull’uomoe l’esperienza del servizio
Dal discorso conclusivo del cardinal Camillo Ruini al convegno di Verona del 20 ottobre 2006
La tensione missionaria rappresenta il principale criterio intorno al quale configurare e rinnovare
progressivamente la vita delle nostre comunità. Dal nostro Convegno emerge chiara l’esigenza di
superare le tentazioni dell’autoreferenzialità e del ripiegamento su di sé [...] Per essere
pienamente missionaria, questa attenzione alle persone e alle famiglie deve assumere [...] un preciso
orientamento dinamico: non basta cioè “attendere” la gente, ma occorre “andare”
a loro e soprattutto “entrare” nella loro vita concreta e quotidiana, comprese le case in cui
abitano, i luoghi in cui lavorano, i linguaggi che adoperano, l’atmosfera culturale che respirano.
È questo il senso e il nocciolo di quella “conversione pastorale” di cui sentiamo così
diffusa l’esigenza.
Dalla testimonianza del prof.Franco Nembrini al Convegno diocesano, l’11 giugno 2007
Un pomeriggio me ne stavo tranquillamente in casa con il mio primo figlio Stefano, che poteva avere 4 o 5 anni,
correggendo i temi come ogni insegnante di italiano ed ero talmente assorto nel mio lavoro che non avevo notato
che Stefano si era avvicinato al mio tavolo e in silenzio mi stava guardando. Non chiedeva nulla di
particolare, non aveva bisogno di nulla, solo osservava suo padre al lavoro. Ricordo che quel giorno,
nell’incrociare lo sguardo di mio figlio, mi folgorò questa impressione: che lo sguardo di mio
figlio contenesse una domanda assolutamente radicale, inevitabile, cui non potevo non rispondere. Era come se
guardandomi chiedesse: papà, assicurami che valeva la pena venire al mondo. Questa, mi sono detto,
è la domanda dell’educazione e da quel momento non ho più potuto neanche entrare in classe e
incrociare lo sguardo dei miei alunni e non sentirmi rivolta questa domanda: quale speranza ti sostiene?
Dante nel Paradiso, interrogato da San Pietro sulla fede, si sente chiedere: “Quella cara gioia sopra la
quale ogni virtù si fonda, dimmi, donde ti venne?” Perché io potevo desiderare, bambino, di
essere come mio papà? Perché presentivo, sapevo che mio papà sapeva le cose che nella via
è importante sapere. Sapeva del bene e del male, della verità e della menzogna, della gioia e del
dolore, della vita e della morte. Cioè senza discorsi e senza prediche mi introduceva ad un senso
ultimamente positivo dell’esistenza, di tutti gli aspetti della vita. Era la testimonianza vivente di
una Verità conosciuta. Se l’educazione, come dice don Giussani nel Rischio Educativo è
“introduzione alla realtà totale, cioè alla realtà fino all’affermazione del suo
significato”, bene mio papà faceva esattamente questo. E questo, mi pare, è proprio
ciò che manca ai giovani oggi: sono cresciuti senza che venisse loro offerta questa “ipotesi
esplicativa della realtà” e perciò paurosi, trovandosi di fronte a tutto perennemente
indecisi, e tristi, e perciò così spesso violenti. Perché, lo sappiamo bene noi adulti:
non si può rimanere a lungo tristi senza diventare cattivi. Ma rendiamoci conto che la tristezza dei figli
è figlia della nostra, la loro noia è figlia della nostra. Ecco, mio padre, lo dico volutamente con
un paradosso, ci ha educati perché non aveva il problema di educarci, di convincerci di qualcosa. Lo
desiderava, certo, certo pregava per questo, ma era come se ci sfidasse: “Io sono felice, vedete la mia
vita, vedete se trovate qualcosa di meglio e decidete”. Perseguiva tenacemente la sua santità,
non la nostra. Sapeva che santi a nostra volta lo saremmo potuti diventare solo per nostra libera scelta.
L’azione missionaria del cristiano e della Chiesa tutta non può che consistere in una coraggiosa
testimonianza della fede là dove gli uomini vivono, dove i giovani consumano la loro giovinezza,
in primis la scuola. Non si può più immaginare di svolgere l’azione
pastorale in ambiti chiusi, diversi dai luoghi di studio e di lavoro, e di divertimento, ma bisognerà
ricominciare a incontrare i nostri fratelli uomini là dove essi vivono i loro interessi, i loro affetti,
la loro intelligenza e operosità. Una fede che non si dimostrasse pertinente alla vita reale, che non
si mostrasse capace di esaltare l’io, il cuore e l’attesa del singolo, non potrà mai suscitare
curiosità e interesse e desiderio di seguire.
Una volta mio figlio Andrea mi ha detto (era in prima liceo), serissimo: “Ma papà, noi siamo una
famiglia normale?” Perché tutto fuori di qui dice il contrario: scuola, TV, amici. Allora ho
capito che sentiva una estraneità tra l’insegnamento in casa e la vita, la vita nel mondo normale.
Si trattava di fargli veder un altro “mondo”, un altro mondo in questo mondo. Ho capito che mi
chiedeva di fargli vedere che la cosa funzionava davvero, che c’erano amici, famiglie, realtà,
movimenti, chiese, oratori, parrocchie missioni da cui poter capire e stare certo che quando fosse stato chiamato
a sfidare il mondo avrebbe avuto ragioni sufficienti da portare, tutto il peso e la forza di tanti testimoni; che
sarà un modo minoritario, quello che vive in un certo modo, ma che sia un mondo vero, famiglie vere,
amici veri, case vere.
4/ IV colonna: l’iniziazione alla preghiera personale
Dal discorso di papa Benedetto XVI al Convegno della diocesi di Roma dell’11 giugno 2007
Per l’educazione e formazione cristiana è decisiva anzitutto la preghiera e la nostra amicizia
personale con Gesù: solo chi conosce e ama Gesù Cristo può introdurre i fratelli in un
rapporto vitale con Lui. Perciò le nostre comunità potranno lavorare con frutto ed educare alla
fede essendo esse stesse autentiche “scuole” di preghiera, nelle quali si vive il primato di
Dio.
5/ 4+1; a fondamento delle 4 colonne l’iniziazione alla vita ecclesiale in uno stile di
familiarità e di accoglienza, per una chiesa di popolo
Dal discorso conclusivo del cardinal Camillo Ruini al convegno di Verona del 20 ottobre 2006
[Una] forma di testimonianza missionaria appare dunque decisiva per il futuro del cristianesimo e in particolare
per mantenere viva la caratteristica “popolare” del cattolicesimo italiano, senza ridurlo a un
“cristianesimo minimo”, come ha giustamente chiesto Don Franco Giulio Brambilla: tale forma di
testimonianza dovrebbe pertanto crescere e moltiplicarsi. Potrà farlo però soltanto sulla base
di una formazione cristiana realmente profonda, nutrita di preghiera e motivata e attrezzata anche
culturalmente.
Dalla Lettera a Marcello Pera di Joseph Ratzinger in M.Pera-J.Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano,
2004
Vedo l’importanza delle minoranze creative. Certo, dal punto di vista numerico, in gran parte
dell’Europa i cristiani costituiscono ancora la maggioranza, anche se il numero dei battezzati è
ormai in declino in alcuni paesi, specialmente nell’Est e nel Nord della Germania, tanto che nella Germani
ex comunista i battezzati non sono più la maggioranza. Ma anche le maggioranze ancora esistenti sono
diventate stanche e mancano di fascino. Dunque la mia prima tesi è che una religio civilis
che realmente abbia la forza morale di sostenere tutti presuppone delle minoranze convinte che hanno trovato
la “perla” e che vivono questo in modo convincente anche per gli altri. Senza tali forze sorgive
non si costruisce niente. La seconda tesi poi è che ci devono essere forme di appartenenza o di
riferimento, o semplicemente di contatto con tali comunità, o, piuttosto, che esse si creano da
sé quando la loro capacità di convincere è sufficientemente grande. Come terza tesi,
dire che queste minoranze creative evidentemente non possono stare in piedi da sé, né vivere di
sé. Vivono naturalmente del fatto che la Chiesa nel suo insieme resta, vive della fede nella sua
origine divina e di conseguenza difende ciò che non ha inventato lei stessa ma che riconosce come un dono
della cui trasmissione è responsabile. Le “minoranze” rendono di nuovo vitale questa
grande comunità, ma attingono nello stesso tempo, alla forza di vita che è nascosta in essa ed
è in grado di creare sempre nuova vita. Come quarta tesi, infine, direi che laici e cattolici,
coloro che cercano e quelli che credono, nel folto intreccio dei rami dell’albero con tanti uccelli, devono
andare incontro gli uni agli altri con una nuova capacità di apertura. Anche i credenti non smettono mai
di cercare, e chi cerca, d’altra parte, è toccato dalla verità e come tale non può
essere classificato come un uomo senza fede o senza principi morali ispirati alla fede cristiana. Ci sono modi di
appartenenza alla verità nei quali gli uni danno agli altri, ed entrambi possono sempre imparare qualcosa
dall’altro. E’ per questo che la distinzione tra cattolici e laici dev’essere
relativizzata. I laici non sono un blocco rigido, non costituiscono una confessione fissa, o peggio un’
“anti-confessione”. Sono uomini che non si sentono in grado di fare il passo della fede ecclesiale
con tutto ciò che un tale passo comporta; ma molto spesso sono uomini che cercano appassionatamente la
verità che soffrono per la mancanza di verità dell’uomo, riprendendo proprio così i
contenuti essenziali della cultura e della fede e spesso rendendoli, con il loro impegno, ancora più
luminosi di quanto possa fare una fede scontata, accettata più per abitudine che per conoscenza sofferta.
Gradi diversi di appartenenza hanno anche un senso positivo.
Dalla Lettera di saluto di don Andrea Santoro a tutte le famiglie del quartiere nel lasciare la parrocchia
dei SS.Fabiano e Venanzio per partire missionario per la Turchia nell’anno 2000
Sento il bisogno di dire grazie: ai miei confratelli sacerdoti con cui ho pregato, gioito, sofferto
e lavorato; ai malati, ai bambini, ai poveri che mi hanno mostrato la piccolezza e la potenza di
Gesù; ai giovani che mi hanno permesso di cogliere con loro il soffio rinnovatore dello
Spirito; agli adulti che mi hanno concesso la loro amicizia e il loro sostegno; agli
anziani che mi hanno fatto poggiare sulle loro spalle antiche. Ringrazio quanti hanno collaborato
in parrocchia a tenere accesa e a trasmettere la lampada della fede, a far crescere la comunità,
ad accendere il fuoco di Gesù nel quartiere: chi con il carisma della parola, chi con quello della
preghiera, chi con l’azione visibile, chi con i silenzi, chi con il carisma della liturgia, chi con quello
della carità operosa, chi con le lacrime e la potenza redentrice della sofferenza, chi con i servizi
più umili e nascosti. Ringrazio quanti non ho conosciuto perché mi hanno concesso di
vivere accanto a loro e di amarli anche se a distanza. Sempre ho pregato per loro e sempre li ho pensati a me
vicini, soprattutto la sera quando guardavo le finestre illuminate delle case e a messa quando, alzando il calice
del sangue di Cristo dicevo: “questo è il calice del mio sangue, versato per voi e per tutti
in remissione dei peccati”. In quel “tutti” comprendevo proprio tutti, nessuno escluso. Nel mio
cuore, andando via, porterò ogni persona conosciuta e non conosciuta della parrocchia: sono le pecorelle,
i figli, i “pesciolini” affidati alla mia pesca e destinati alla rete del Regno di Dio.
- Per un approfondimento del rapporto fra la cura di gruppi significativi ed
una chiesa di popolo vedi gli articoli La
parrocchia in Francia negli ultimi decenni: uno specchio nel quale vedere le
potenzialità della parrocchia italiana. Riflessioni sul volume di d.Luca
Bressan, La parrocchia oggi e P.Sequeri, Programmare
l’azione pastorale oggi, on-line nella sezione Catechesi
di questo sito.
Vedi anche, per una riflessione sulle diverse forme di vita di gruppo che sono
richieste dagli adolescenti e dai giovani, l’articolo di Franco Garelli,
Le diverse formule organizzative
dell’associazionismo ecclesiale: gruppi di appartenenza e gruppi di riferimento
su questo stesso sito.
[1] Cfr. su questo la recensione di G.Bellia, on-line.
[2] Cfr. su questo anche la recente sintesi di Romano Penna: «Poiché all’interno di Israele il numero 12 non può avere altro riferimento che alle Dodici tribù costitutive di quel popolo, il gesto di Gesù rivela una forte e originalissima intenzione: quella di rifondare l’identità della propria nazione, che è il partner di una specifica alleanza con Dio. Ciò rivela dunque l’autoconsapevolezza di operare in strettissima relazione con Dio stesso» (R.Penna, Gesù di Nazaret.La sua storia, la nostra fede, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, p.35).
[3] Su questo cfr. le relazioni sul Simbolo della fede ed il Credo nell’arte on-line su questo stesso sito, con le relative immagini.