Mettiamo a disposizione on-line, sul nostro sito, la parte centrale -dedicata all’analisi dell’odierno Islam plurale nelle sue diverse sfaccettature- della seconda delle due lezioni che P. Miguel Ángel Ayuso Guixot, mcci, preside del P.I.S.A.I. (Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica) ha tenuto in occasione del Corso di Aggiornamento “L’IRC al servizio dell’educazione interculturale: l’attenzione all’Islam”, che si è tenuto a Roma nei giorni 26-28 novembre 2007, organizzato dall’Ufficio Scuola del Vicariato di Roma. La prima lezione era, invece, dedicata ad una presentazione delle origini dell’Islam. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (16/12/2007)
L’immagine dell’Islam e dei musulmani, come spesso presentata dai mass-media, può facilmente essere distorta per il fatto che si confonde l’islam con l’islamismo militante. [...] In questa seconda parte della mia relazione illustrerò brevemente il percorso storico degli sviluppi della comunità musulmana nella storia recente, attraverso un approccio al “risveglio” islamico come reazione ad una crisi socio-religiosa, a cui si è risposto grossomodo con tre atteggiamenti differenti: il modernismo, il riformismo e il fondamentalismo islamico. [...]
Ai primi secoli che portarono all’apice la civiltà musulmana [il regno arabo omeiade
(658-750); l’impero islamico degli abbassidi che corrisponde all’età d’oro della
civiltà musulmana (750-s.XV); il califfato ottomano (1500-1924)], seguì un periodo di progressivo
impoverimento culturale e d’irrigidimento dottrinale che accompagnò l’Islam fino alle soglie
dell’era moderna, con un’evoluzione opposta rispetto a quella seguita
dall’Occidente[1]. Infatti,
all’epoca della massima fioritura, avvenuta appunto contemporaneamente al nostro Medioevo,
subentrò un lento ma inesorabile declino (jumûd), che investì il mondo
musulmano proprio mentre l’Europa viveva il suo Rinascimento.
A partire del 1700, i tre grandi imperi musulmani – ottomano, indiano e persiano – incominciano a
declinare a causa della pressione delle potenze coloniali europee e della concomitante crisi economica e
demografica che li colpisce. L’età della decadenza è segnata da una frammentazione del potere a
livello locale e dall’emergere di forme religiose improntate al misticismo sufi o all’Islam
magico-popolare, che vengono ad affiancarsi all’Islam, ormai istituzionalizzato e burocratizzato.
Il risveglio è la risposta a questa crisi socio-religiosa. Pur agendo in contesti estremamente
differenziati, i diversi movimenti del risveglio sono uniti da alcune linee ideologiche comuni, come la
riaffermazione del carattere rigidamente monoteista dell’Islam o la decisione di abbandonare i territori in cui
la presenza degli infedeli, dei politeisti o dei pagani è predominante oppure di riconquistarli attraverso
la jihâd (combattimento sulla via di Dio), e l’emergere di una figura carismatica, che
si presenta talvolta come “rinnovatore” (mujaddid) della continuità della tradizione o che
si attribuisce, o gli viene attribuito dai suoi seguaci, il titolo di Mahdî (il “Guidato”),
colui che fonderà il “Regno dei Giusti” prima del Giudizio Finale.
I movimenti di risveglio si diffusero ovunque: nell’India settentrionale[2]; in Nigeria[3];
nel Ciad[4]; in Sudan[5]; in Somalia[6],
ecc. Il più importante di essi si sviluppò comunque in Arabia a partire dal XVIII secolo e
diventò fenomeno politico di grande rilievo in relazione al riemergere nel XX secolo, grazie alla scoperta del
petrolio, del ruolo della penisola araba sulla scena internazionale.
Il suo fondatore fu Muhammad b. ‘Abd al-Wahhâb (1703-1792) che predicava il “ritorno alle
fonti” (Corano e Sunna del Profeta), e più precisamente l’applicazione letterale di quanto il
Corano impone o suggerisce. Egli si ispirava al puro hanbalismo di Ibn Taymiyya (1262-1328) predicando il ritorno
ad un Islam “puro” e liberato da tutte le innovazioni riprovevoli (bid‘a) introdotte nei
secoli. Dopo certi scontri con gli Ottomani, trasformò il wahhabismo da corrente riformatrice a movimento
politico militare che avrebbe preso forma con i Sa‘ûd, che istituzionalizzarono e custodirono
l’intransigente credo wahhabita.
Comunque l’evento per eccellenza, e cioè la scintilla che provocò il risveglio che avrebbe
dato origine al movimento della “Rinascita” (al-nahda) fu lo sbarco ad Alessandria
d’Egitto nel 1798 della spedizione francese voluta e comandata da Bonaparte e della sua breve occupazione che
provocò una crisi di identità sul piano sociale, educativo, culturale e politico frantumando
così la superiorità del mondo islamico.
Le risposte a questa crisi sono state molto differenti, ma gli atteggiamenti possibili sono sostanzialmente
tre: 1) il modernismo: l’accettazione pura e semplice delle idee occidentali, atteggiamento dei
cosiddetti “liberali”; 2) il riformismo: il compromesso selettivo, che accoglie le idee
occidentali compatibili con l’Islam e capaci di risvegliarlo, definito con il termine di
“rinascimento” (nahda); 3) il fondamentalismo (integralismo, o radicalismo): il rigetto
puro e semplice di quanto non viene dall’Islam, definito con il termine “rinnovamento”
(tajdîd). Nahda e tajdîd sono entrambi parte del movimento definito della
“riforma” (islâh).
Il modernismo si manifesta in politica con vari tentativi di riforma all’interno
dell’Impero Ottomano, che nel corso del XIX secolo era entrato nel suo ultimo periodo di decadenza. Prendiamo
tre esempi concreti per illustrare questo atteggiamento: il caso dell’Egitto, della Tunisia e
dell’India.
Per quanto riguarda l’Egitto è da sottolineare che il periodo di anarchia sotto il dominio
francese si concluse con l’ascesa di Muhammad ‘Alî (1769-1849), un soldato ottomano di origine
albanese, che riuscì nel 1805 a diventare il governatore dell’Egitto (Khedivé), separandosi da
Istanbul e rivendicando un’autonomia di fatto, anche se non di diritto, nei confronti del potere
ottomano.
Il khedivé avviò un vasto programma di riforma; conscio della superiorità tecnica
dell’Occidente, ma interessato soprattutto ad acquisire potenza militare, invitò in Egitto insegnanti
europei, soprattutto francesi, dando vita ad un sistema scolastico parallelo a quello tradizionale. Allo stesso tempo
inviò numerosi studenti in Europa, in particolare in Francia.
Tra questi studenti c’era al-Tahtawî (1801-1873) che, in seguito, avrebbe proposto di riformare la
legge islamica (sharî‘a) sul modello dei codici europei, di ampliare
l’insegnamento, di dare all’Azhar una istruzione anche scientifica, di dare la priorità al
progresso economico, ecc. Inoltre egli fu il primo ad elaborare la teoria della “nazione egiziana”
(watan) vedendo nella Francia la norma della civiltà, benché rifiutasse il razionalismo
anti-religioso.
Parimenti, la creazione di stabilimenti tipografici diffuse le nuove idee, grazie soprattutto alla stampa, prima
periodica e poi quotidiana, in gran parte fondata da cristiani siro-libanesi che erano immigrati in Egitto a partire
dal 1870.
Il modernismo continuò con la fondazione dell’Università libera del Cairo (1908), concorrente
di al-Azhar, dove insegnarono i migliori orientalisti dell’epoca (Nallino, Santillana, Massignon, ecc),
essa nel 1924 diventò Università Statale, e oggi è l’Università del
Cairo-Gizah.
Successivi esponenti della corrente modernista, definita anche “europeizzante”, furono: Ahmad
Luftî al-Sayyid (m. 1963), promotore della filosofia greca e occidentale; ‘Alî ‘Abd
al-Râziq (m. 1966), che propose di separare il potere temporale da quello spirituale e di cogliere soltanto la
missione religiosa del Profeta dell’Islam; Taha Husayn (1889-1973), che rivendicò l’appartenenza
dell’Egitto al mondo mediterraneo ed occidentale, e che avviò lo studio filologico e storico-critico del
testo sacro.
In Tunisia, il principale modernista fu il generale e ministro Khayr al-Dîn (1822-1890). Egli fu un
promotore di riforme radicali sul piano costituzionale e fondatore, assieme a Muhammad Bayram, del Collegio Sadiki,
nel quale si sarebbe formata la classe dirigente che portò, con Habib Bourguiba, la Tunisia
all’indipendenza (1955-1956).
Pur essendo rimasto fedele alla Umma e al Califfato Ottomano, Khayr al-Dîn volle rinnovare lo Stato
musulmano ispirandosi all’Occidente, adottando l’idea di nazione (watan) come non
contraria a quella della Umma, riformando l’economia e l’educazione, e dunque lo
Stato, che doveva essere basato sulla giustizia e sulla libertà d’opinione e di stampa.
Quanto all’India, fra i maggiori esponenti del modernismo troviamo Sayyid Ahmad Khan (1817-1898) e
Muhammad Iqbâl (1875-1938).
Sayyid Ahmad Khan (1817-1898) propose, sotto l’influsso della presenza britannica nel paese, di non ripiegarsi
sulla propria cultura tradizionale, ma piuttosto di aprirsi alla cultura occidentale per riconciliarsi con gli
Inglesi e per restituire ai musulmani il loro posto in India. Nota in “Sir Sayyid” fu la creazione del
Collegio di Aligarh, trasformato in università nel 1920, che creò tutta una linea di pensiero.
Infatti il movimento di Aligarh si adoperò per vivificare il pensiero musulmano modernista a partire dai dati
scientifici dell’Occidente, combattendo a questo titolo la rigidità tradizionalista difesa a quel tempo
dalla scuola detta di Deoband.
Sir Sayyid sentì profondamente la necessità di rinnovare radicalmente la teologia musulmana; non ne
trattò tutti i punti, ma vi pose le fondamenta: la ragione critica e la scienza moderna. Secondo lui, il
Corano è in accordo con la ragione e la scienza, poiché “non può esserci conflitto fra
l’opera di Dio e la parola di Dio”.
Da parte sua, Muhammad Iqbâl (1875-1938), notevole figura di poeta, filosofo, e mistico, molto conosciuto in
Occidente, dichiarò la necessità di creare uno Stato separato per i musulmani dell’India.
Nel 1933 si comincia a parlare di Pakistan, progetto che sarebbe stato realizzato nel 1947. Iqbâl era morto a
Lahore nel 1938, ma fu sempre considerato come il primo teorico e padre spirituale del Pakistan.
Nel corso dell’Ottocento, come reazione alla decadenza del mondo musulmano e
all’ascesa dell’Europa, si afferma anche la corrente riformista, che si trova subito ad affrontare il
problema dell’arretratezza musulmana in campo politico, militare e tecnologico. I suoi esponenti sono
animati da una volontà di rinnovamento interno che consenta di ridimensionare la supremazia occidentale,
attraverso l’acquisizione e il dominio delle moderne tecniche istituzionali, militari e produttive possedute
dall’Occidente. Allo stesso tempo, pensano che sia necessario ridare attualità alla fede degli
antichi (salaf), purificando l’Islam dalle sue deviazioni dell’età della
decadenza, ovvero dalla sua sostanziale indifferenza alla “licenziosità dei costumi” e alla
religione e dalla sua anima superstiziosa e sclerotizzata, dall’influenza dell’umanesimo
musulmano.
La sfida riformista, dunque, ruota attorno alla possibilità di conciliare modernità e Islam,
cercando di tradurre in linguaggio islamico alcune categorie tipicamente europee. L’obiettivo principale
diventa la riforma dello Stato, sia rendendolo indipendente dalle potenze coloniali, sia rinnovando il sistema
economico, in base ai dati della scienza e della tecnica.
Agli inizi del Novecento e dopo la caduta dell’impero ottomano (1923), il riformismo imprime un notevole
impulso alle rivendicazioni nazionaliste e alle lotte per l’indipendenza.
In questo processo di modernizzazione della società, e nelle lotte per le indipendenze nazionali,
l’Islam venne a trovarsi in una posizione di secondo piano: negli Stati di nuova formazione, il potere fu
preso da vari gruppi di formazione occidentale, che ridussero l’Islam a fatto culturale o a dimensione
religiosa privata, senza per questo cancellarlo interamente dalla sfera pubblica.
La corrente più importante del riformismo fu la salafiyya. Fondata dal Gamâl
al-Dîn al-Afghânî (1838-1897), ebbe i suoi maggiori rappresentanti in Muhammad ‘Abduh
(1849-1905) e nel suo discepolo Rashîd Ridâ (1865-1935). Tutti e tre sono considerati promotori e
capofila della nahda musulmana.
Il pensiero di Al-Afghânî è senza dubbio all’origine della maggior parte delle idee e
degli slogan dell’Islam contemporaneo. Dal suo pensiero emergono due assi portanti, che si completano a
vicenda: il politico e il dottrinale.
Dal punto di vista politico, Al-Afghânî fu il portavoce dell’anticolonialismo e, in seguito,
della necessità di superare i nazionalismi locali tra i musulmani e di ritrovare l’unità
della Umma, diventando così il padre del panislamismo.
Dal punto di vista dottrinale, egli condannò lo stato di declino e decadenza (jumûd) del pensiero
musulmano e, per liberare i popoli musulmani, propose una riforma (islâh) della
religione musulmana. Questa riforma avrebbe dovuto avvenire attraverso: - il ricupero della ragione e dello
spirito scientifico tipico dell’Occidente; - la rilettura del Corano, riaprendo le porte
all’interpretazione personale (ijtihâd); - la liberazione dall’interpretazione fatalista
della religione; - l’unità delle religioni. Il mezzo per mettere in atto questa riforma sarebbe
particolarmente l’istruzione, con la creazione di scuole musulmane moderne in cui, oltre alle scienze
musulmane, dovevano essere insegnate altre materie, quali le lingue straniere, la matematica, la fisica… e la
filosofia, sia islamica che occidentale.
Fu un suo discepolo, e cioè Muhammad ‘Abduh (1849-1905), che riprese e sviluppò le sue idee in
un corpo di dottrina divenuta la “teologia” del riformismo (islâh), la quale
conobbe un successoconsiderevole su vari piani: - sul piano intellettuale (la creazione di una
università nuova aperta sul mondo moderno); - sul piano religioso (apertura alla comprensione dei credenti
delle altre religioni monoteistiche); - sul piano politico (la lotta per l’indipendenza); - e, finalmente, sul
piano sociale (emancipazione della donna, abolizione del velo, ecc.).
Da parte sua, Rashîd Ridâ (1865-1935), attraverso la rivista mensile al-Manâr
(poi diventata un complesso tipografico di tinta propagandistica), riuscì a radunare sotto la bandiera
riformistica tutti coloro che, nei diversi paesi musulmani, volevano far rivivere l’Islam attraverso il ritorno
alle fonti [Corano, Hadith e i “pii antenati” (salaf)], l’eliminazione delle innovazioni
biasimevoli (bid‘a), e l’adattamento dell’Islam al mondo moderno.
Questo salafismo “puro” , morì con lo stesso Rashî Ridâ, così come con i
movimenti nati dal suo spirito, quale quello dell’ Algeria (per esempio, l’Associazione degli
‘ulamâ’ musulmani algerini) e quello dell’India (al-Dihlawî e discepoli).
Il riformismo, sia nazionalista come quello di al-Afghânî, sia liberale come quello di M.
‘Abduh, o conservatore come quello di R. Ridâ, ha dato prova – in quanto dottrina di insieme
che si proponeva di risolvere il problema dell’adattamento dell’Islam alla sensibilità del mondo
moderno – non solo di sterilità, restando senza eco duratura, ma anche di quel carattere regressivo,
che ha aperto la strada ai movimenti del fondamentalismo islamico.
A partire degli anni ’50 e ’70, tutti i paesi islamici si trovano ad intraprendere,
nei processi indipendentistici, cambiamenti senza precedenti nelle strutture economiche, nelle istituzioni politiche
e nei sistemi culturali.
La rimozione dell’Islam come elemento fondante dei nuovi Stati-nazione sorti dalla caduta dell’impero
ottomano e la diffusione delle ideologie di matrice occidentale, nazionaliste o socialiste, è uno dei
fattori che provoca la nascita di ideologie di tipo fondamentalista (integriste o radicali).
Possiamo ricondurre il riferimento teorico di ogni gruppo radicale islamico contemporaneo alle opere di due
personalità: l’indo-pakistano Abû ‘l-A‘lâ al-Mawdûdî (1903-1979)
e l’egiziano Sayyid Qutb (1906-1966), ideologo del movimento dei Fratelli Musulmani.
Al-Mawdûdî propone la creazione di uno stato islamico che egli definisce
“teo-democrazia”. Introduce il concetto di hâkimiyya quale sovranità di Dio sopra
qualsiasi persona, classe, gruppo o popolazione. Lo Stato islamico deve essere basato sulla legge data da Dio al Suo
Profeta, come “libro guida” (hidâya), con “un ruolo decisivo nella ricostruzione del
pensiero e dell’azione, delle istituzioni e della società”, poiché si tratta di un
“codice di condotta e di un programma di organizzazione per tutto ciò che riguarda la vita
umana”.
Per Mawdûdî questo ideale di Stato islamico è superiore sia ai vari sistemi capitalisti o
socialisti, ma anche alla teoria cristiana della distinzione tra spirituale e temporale, poiché l’Islam
comprende tutto l’uomo.
Da parte sua, Sayyid Qutb (1906-1966), quale ideologo del movimento dei Fratelli Musulmani, fondato da Hasan
al-Bannâ nel 1928 in Egitto, seguì i principi del movimento che sosteneva la rinascita
dell’Islam minacciato dalla colonizzazione occidentale e dalla laicizzazione della società araba,
proponendo un programma politico e di azione fondato sull’unità islamica, vista come sbocco finale dei
processi di indipendenza dei vari Stati arabi.
Per Sayyid Qutb, il mondo vive in uno stato di ignoranza religiosa (jâhiliyya), che
produce continuamente il Male. Dunque bisogna imporre la sovranità divina, che si esercita attraverso la Legge
religiosa. Sebbene la sharî‘a abbia una autorità intrinseca rispetto all’agire
umano, la politica è pur sempre lo strumento necessario per poter fondare il dominio della Legge. Di
conseguenza, i militanti del movimento fondamentalista, in quanto avanguardia (talî’a), hanno il
compito di indicare le tracce che, nel deserto della fede causato dall’ignoranza, consentiranno alla
comunità del Profeta di seguire la giusta pista per ritrovare nuovamente la sottomissione a Dio
(al-islâm).
Le teorie di Sayyid Qutb hanno contribuito a fornire le basi teoriche del radicalismo islamico di matrice
sunnita[7]. Ma è con gli sciiti
che il radicalismo giungerà per la prima volta al potere. Questo avverrà nel 1979 con la
rivoluzione iraniana e l’ascesa al potere di Khomeyni (1902-1989) che trasformò l’Iran in
Repubblica islamica. La Costituzione, elaborata dallo stesso Khomeyni, riflette la convinzione che la religione
è elemento di identità nazionale, in opposizione alla modernità ibrida e occidentalizzata
imposta dal regime precedente dei Pahlevi.
È dopo gli anni ’70 che assistiamo alla rinascita dell’Islam come forza politica. La questione
palestinese e la rivoluzione islamica in Iran vi daranno un contributo. I motivi, diversi da regione a regione, hanno
in comune l’esperienza del fallimento dell’economia e del sistema politico, nonché i deludenti
tentativi di affrancamento dal sistema coloniale che ne ha caratterizzato il passato.
Alcuni gruppi islamici sostengono che il fallimento delle società musulmane è la diretta conseguenza
della dipendenza dal materialismo dell’Occidente e del tradimento delle regole della
sharî‘a, la filosofia di vita che dovrebbe permeare la politica e la società. Per
questo ritengono che i musulmani debbano tornare al Corano e all’esempio del Profeta, in modo particolare
reintroducendo nel diritto le leggi islamiche, e facendo sì che lo sviluppo economico e sociale si ispiri ai
valori dell’Islam. Questa rinascita ha avuto un forte impatto sulla vita pubblica e privata dei musulmani del
Medio Oriente.
C’è anche da tener presente che negli anni ’80 e ’90 si sono sviluppati forti movimenti
fondamentalisti in diversi stati musulmani, soprattutto in Medio Oriente, in Nord Africa, in Pakistan e in
Afghanistan, che hanno proseguito la loro lotta nei confronti del “potere empio”. Pensiamo ai gruppi
islamici della Jamaat al-Jihad con Sadat e la Jamaa Islamiyya con Mubarak in Egitto; ai gruppi islamici armati (GIA)
dell’Algeria; al National Islamic Front (NIF) di Hasan al-Turabi in Sudan; al movimento per la
resistenza islamica (Hamas) di Ahmad Yassin e alla Jihad Islamica della Palestina; ai Talibani
dell’Afghanistan… per citarne solo alcuni. Però, al carattere di islamismo attivista,
l’organizzazione al Qaeda ha sommato il carattere di terrorismo internazionale, da tutti conosciuto.
Sembra, dunque, che il fondamentalismo (radicalismo), più che per l’identità della prassi
politica e religiosa dei suoi movimenti, si caratterizzi per una assoluta alterità culturale e ideologica che
lo contrappone all’Occidente. Da qui le crescenti difficoltà per le élite modernizzatrici e per
le correnti intellettuali laiche dei Paesi musulmani di stabilire rapporti di dialogo con il mondo occidentale,
senza sacrificare sull’altare della modernità i valori della tradizione islamica.
Trarre delle conclusioni sul pensiero religioso musulmano contemporaneo è molto difficile: si tratta di
un mondo in rapida evoluzione. È possibile, comunque, evidenziare qualche punto.
Prima di tutto, dopo la fine del Riformismo salafita, non si può più parlare di una teologia
musulmana in senso proprio, né di un singolo teologo che faccia autorità. Si può
tutt’al più parlare di “tendenze”, delle quali la sola veramente definita è quella
“islamista”. Al di fuori di questa, vi è tutto un fiorire di pensieri, i più diversi, ma
che non rappresentano né correnti, né scuole.
Non vi è quindi “un” pensiero “rappresentativo” dell’Islam contemporaneo. Le
espressioni “ufficiali” dell’Islam (espresse a vario titolo) non sono che voci fra le tante, e
forse neanche le più importanti.
Grossomodo possiamo schematizzare la tipologia dell’attuale discorso musulmano in questo modo:
[1] Vedi P. BRANCA, Introduzione all’Islam, San Paolo, Milano 1995, p. 266 ss.
[2] Sayyid Ahmad Shadid (1776-1831). Purificazione dell’Islam dall’influenza indù e sikh.
[3] ‘Uthmân dan Fodio (1754-1817). Contro l’influsso delle religioni animiste nelle pratiche islamiche.
[4] Muhammad ‘Alî al-Sanûsî (1787-1859) e la confraternita da lui fondata al-sanûsiyya con la loro visione di una organizzazione teocratica della comunità musulmana e la predicazione del ritorno al Corano e alla Sunna del Profeta.
[5] Muhammad Ahmad ‘Abd Allâh (1844-1885) e la Mahdiya che mirava a restaurare la comunità musulmana primitiva.
[6] Sayyid Muhammad ‘Abdallâh Hasan (1864-1920). Contro la presenza coloniale.
[7] N.d.R. Nella prima delle sue due lezioni
P. Miguel Ángel Ayuso Guixot aveva presentato anche i principali gruppi storici, precedenti
all’età moderna, nei quali l’Islam è suddiviso, con queste parole: «Il musulmano
è cosciente di appartenere alla “migliore comunità che sia stata creata per gli uomini” (C.
3, 110), così si sente subito in dovere di essere solidale nella fede e nell’azione, ottenendo come
beneficio l’appartenenza alla umma, la comunità madre, che lo forma e lo nutre, lo impregna e lo
ingloba, lo sostiene e lo esalta: è la dimora dell’Islam (dâr al-islâm), che è
anche dimora della giustizia e della pace, società unitaria in cui tutti e ciascuno si sentono vicinissimi
malgrado le differenze di razza, di lingua e di civiltà.
Così i musulmani, oggi come in passato, sanno molto bene di appartenere alla Umma. Questo fatto viene
particolarmente esperimentato durante il pellegrinaggio alla Mecca: un insieme di razze, lingue e civiltà.
Pertanto, è importante saper scoprire nell’Islam il suo carattere variopinto e universale.
Da una parte, i musulmani arabi, minoritari nell’insieme islamico (ne costituiscono solo il 20%), ma che
occupano un posto centrale, geograficamente, culturalmente ed affettivamente.
Dall’altra i musulmani non-arabi, che sono perfettamente coscienti di rappresentare forme altrettanto
autentiche dell’Islam storico; tra questi, l’Islam indo-pakistano, i musulmani indonesiani, l’Islam
delle repubbliche ex-sovietiche asiatiche o caucasiche, l’Islam cinese, l’Islam iraniano, e quello turco,
l’Islam balcanico, l’Islam dell’Africa nera, l’Islam in Europa, ecc.
Dato questo mosaico, si capisce perché il rapporto dialogico con gli interlocutori musulmani sia fortemente
segnato dalle diversità nazionali e socio-culturali con tutte le sue sfumature, le quali, però, vengono
vissute nell’armonia di appartenenza alla umma.
Nella loro grande maggioranza (circa l’85%) i musulmani sono Sunniti e intendono, con questo,
riconoscere la legittima successione dei primi quattro califfi (Abû Bakr, ‘Umar, ‘Uthmân e
‘Alî): rigidamente conformi al Corano a alla Tradizione (Sunna) del Profeta, benché
appartenenti a diverse scuole giuridiche (Hanafita, Malikita, Shafiita e Hanbalita).
Gli Sciiti (circa il 10%) rappresentano una forma caratteristica dell’esperienza religiosa musulmana,
vissuta nella solidarietà più stretta con ‘Alî, cugino e genero di Maometto, e i successori
legittimi (imâm) di questo erede unico del carisma profetico del Fondatore dell’Islam.
“Partigiani” di ‘Alî (è il senso stesso della parola shî‘a,
partito, da dove viene Sciismo), la maggior parte di essi sono convinti che i dodici imâm abbiano
guidato i destini della comunità musulmana e attendono il ritorno dell’imâm nascosto. Gli
Sciiti hanno avuto momenti di gloria storica (i Fatimidi in Egitto nel X e XI secolo), benché si ritrovino
oggi divisi in comunità minoritarie, anche se attive.
Infine, i Kharigiti (circa lo 0,50% dell’insieme islamico) che rappresentano in Oman, nello Zanzibar e
in qualche parte dell’Africa del Nord, un Islam rigoroso e colto, che trae origine dal rifiuto di ogni
compromesso con ‘Alî e i suoi avversari, convinti che solo il più pio dei musulmani sia degno di
assicurare la direzione della comunità.
Oltre a queste varietà principali dell’Islam “ortodosso”, dove Sunniti, Sciiti e Kharigiti
sembrano essere in disaccordo più sul modo di designazione e di successione dei capi della comunità
Islamica che sui punti essenziali del dogma, del culto e della morale, nei tempi moderni l’Islam viene vissuto
in vari modi dai credenti musulmani con una grandissima diversità di opinioni, di attitudini e di
comportamenti; diversità che influisce sulla possibilità ed i limiti del dialogo
islamo-cristiano».