“Ciò che ci è stato rivelato è che la via di salvezza ordinaria
passa attraverso il sacramento del Battesimo. Nessuna delle considerazioni sopra esposte può essere
addotta per minimizzare la necessità del Battesimo né per ritardare il rito della sua amministrazione.
Piuttosto, come vogliamo qui in conclusione ribadire, esistono forti ragioni per sperare che Dio salverà
questi bambini, poiché non si è potuto fare ciò che si sarebbe desiderato di fare per loro,
cioè battezzarli nella fede e nella vita della Chiesa”: così conclude al numero 103 il
Documento della Commissione teologica internazionale[1].
Basta riandare al quarto canto dell’Inferno di Dante per capire come fosse sfumata
la posizione della fede cristiana sul problema e quali fossero le questioni che l’ultimo documento ha dovuto
riprendere in mano.
Dante coglieva con esattezza, innanzitutto, che la salvezza aveva come principio e causa la venuta del Cristo e la
sua morte e resurrezione per i nostri peccati. Alla domanda che Dante rivolge a Virgilio se mai alcuno sia uscito
dal limbo, il maestro risponde raccontando la discesa agli inferi del Cristo, il sabato santo (Inferno, IV,
vv.52-63):
Rispuose: “Io era novo in questo stato,
quando ci vidi venire un possente
con segno di vittoria coronato.
Trasseci l’ombra del primo parente,
d’Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïse legista e ubidente;
Abraàm patrïarca e Davìd re,
Israèl con lo padre e co’ suoi nati
e con Rachele, per cui tanto fè,
e altri molti: e feceli beati.
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran salvati”.
Nessuno di coloro che Dante qui cita era stato battezzato, pure erano stati salvati dal Cristo. La
fede sa, infatti, da subito che la salvezza è più ampia del battesimo, perché comprende i
giusti dell’Antico Testamento, perché abbraccia il popolo dell’alleanza prima della venuta di
Cristo. Il Paradiso comprende certamente allora anche coloro che “s’è furon dinanzi al
cristianesimo... adorar debitamente a Dio” (Inferno, IV, vv.37-38).
Ma – si noti bene – essi giungono in Paradiso non per i propri meriti, ma per l’opera del
Cristo: “vo’ che sappi che, dinanzi ad essi, spiriti umani non eran salvati”. E’ solo per
una evidente banalizzazione del problema che qualcuno può affermare che sia la semplice rettitudine di
coscienza a condurre un ateo od un non cristiano alla salvezza: per tutti, cristiani compresi, la salvazione
è l’opera del Cristo e della sua misericordia, è suo dono e mai semplicemente merito, diritto o
conquista umana: Virgilio era da poco morto – scrive Dante, ricordando che Virgilio aveva lasciato questa
terra poco prima dell’inizio dell’era cristiana – quando vide venire “un possente con segno
di vittoria coronato”. Il limbo ha così conosciuto la vittoria di Cristo, prima della quale non
c’era vittoria possibile sulla morte e sul peccato (ed il documento della Commissione teologica fa eco a questa
centralissima affermazione cristiana, quando dice che le conclusioni tengono “conto dell’unicità e
della insuperabilità della mediazione di Cristo”).
Di più: Cristo non solo è la causa della salvezza che nessuna opera umana potrebbe da sé sola
conseguire, ma, molto più, è la comunione nella quale consiste precisamente la salvezza! La vita
eterna non è mero prolungamento di questa vita, non è sopravvivenza del corpo e dell’anima, ma
è comunione con Dio stesso in Cristo. Uscire dal limbo vuol dire, precisamente, giungere alla visione
beatifica della Trinità.
Una delle realtà più chiare della fede cristiana è che, se un ateo si può salvare, se un
credente di una altra religione si può salvare, ciò avverrà esattamente nella cessazione del suo
essere ateo o di un altra religione! Se qualcuno fosse ateo per l’eternità vorrebbe dire precisamente
che si troverebbe ancora senza Dio e, quindi, non sarebbe salvo, ma abiterebbe nel nulla o in una condizione
infernale. Se uno nell’eternità non riconoscesse il Cristo, insieme al Padre, e non lodasse
così la Trinità vorrebbe dire che si troverebbe nell’impossibilità di vedere Dio nella
sua verità e bellezza e non avrebbe comunione piena con Lui, così come Egli è.
Il dramma dell’Inferno dantesco – e del suo limbo – è precisamente questo, che non
si può pronunciare il nome di Dio, che non si può avere comunione con Lui. Si sopravvive, ma senza di
Lui! Si può dire “un possente”, ma non si può dire “Gesù
Cristo”.
Nel limbo dantesco non c’è sofferenza fisica, non c’è tormento che sia imposto, ma
sol di tanto offesi,
che sanza speme vivemo in disio (Inferno, Canto IV, vv.41-42).
La grande pena che Virgilio deve portare è quella che il suo desiderio di vedere Dio non
abbia speranza di essere esaudito. Qui Dante esprime in maniera straordinaria, sia pure in negativo, cosa sia la
condizione paradisiaca, cioè la salvezza stessa: vedere Dio, essendone amati, amare la Trinità.
L’Inferno non è un luogo, ma è la condizione dell’essere senza Dio. Il Paradiso non
è un posto geograficamente raggiungibile, ma è la vita dinanzi a Dio stesso.
Nell’inferno la comunione con Dio è stata dall’uomo rifiutata, ma è stato altresì
rigettato dall’uomo stesso anche l’amore ai suoi simili. Dante ha descritto con grande efficacia la
solitudine che vige nell’inferno. Come ne ha scritto Vittorio Sermonti, nelle sue letture
dantesche[2]: “Dalla turba dei dannati
che ondeggia nel buio non s’alzano due voci che s’accordino. Ognuno soffre per sé. La
solitudine è l’estrema sanzione della pena”.
Bestemmiavano Dio e lor parenti,
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme
di lor semenza e di lor nascimenti (Inferno, III, vv.103-105)
Questa terzina è uno dei tanti passaggi danteschi che esprimono non solo la mancanza di
comunione, ma ancor più il rifiuto di essa nel suo Inferno. Ecco che, nella visione cristiana, la vita
eterna beata è caratterizzata non solo dalla comunione con Dio, ma da questa stessa comunione partecipata con
gli altri uomini: è il mistero della chiesa, che sola resterà nell’eternità, mentre ogni
odio e disamore sarà dimenticato. I figli che si riconoscono fratelli: tale sarà
l’eternità del Paradiso.
Tutto questo viene ripreso dal Documento della Commissione teologica dove afferma che anche “la
sacramentalità della Chiesa in ordine alla salvezza” è elemento costitutivo nel chiarificare la
posizione della chiesa cattolica sul limbo. Essere fuori dal limbo – e dall’inferno - vuol dire
precisamente partecipare nonostante tutto alla comunione ecclesiale, far parte di quel corpo di cui Cristo è
il capo e che è destinato alla salvezza.
Il Documento si trova così nella stessa linea della tradizione cristiana, testimoniata da Dante, che guarda, a
partire dalle Scritture, al cuore della questione della vita eterna: “Questa è la vita eterna, che
conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv17, 3).
Il nuovo passo che, invece, ci fa fare la Commissione teologica consiste nell’indicarci la speranza che
“Dio salverà questi bambini (non battezzati), poiché non si è potuto fare ciò che
si sarebbe desiderato fare per loro, cioè battezzarli nella fede della Chiesa e inserirli visibilmente nel
Corpo di Cristo”.
Non da una sottovalutazione del nome di Gesù, della missione cristiana, della Chiesa e dei suoi sacramenti
muove così l’argomentazione del testo, ma esattamente dalla motivazione opposta. E’ proprio
per l’immenso desiderio di Dio trasmesso alla Chiesa che tutti ricevano l’annuncio del vangelo e lo
Spirito Santo nel battesimo che la speranza della Chiesa non deve arrestarsi là dove non è stato
possibile realizzare in terra tutto questo.
Se Dante non poteva che piangere di pietà dinanzi a Virgilio a cui era interdetta la visione della
Trinità, poiché l’amava[3], il
testo della Commissione teologica, approvato da Benedetto XVI, ci invita a vivere questo amore come speranza che
il desiderio di donare il battesimo produca effetti anche laddove non sia stato possibile celebrarlo.
Affermava già nel 1985 l’allora cardinale Joseph Ratzinger[4]:
“Il limbo non è mai stata verità definita di fede. Personalmente – parlando più che
mai come teologo e non come Prefetto della Congregazione – lascerei cadere questa che è sempre stata
soltanto un’ipotesi teologica. Si trattava di una tesi secondaria a servizio di una verità che è
assolutamente primaria per la fede: l’importanza del battesimo. Per dirla con le parole stesse di
Gesù a Nicodemo: “In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito,
non può entrare nel regno di Dio” (Gv 3,5). Si lasci pure cadere il concetto di “limbo”, se
è necessario (del resto, gli stessi teologi che lo sostenevano affermavano al contempo che i genitori
potevano evitarlo al figlio con il desiderio del suo battesimo e la preghiera); ma non si lasci cadere la
preoccupazione che lo sosteneva. Il battesimo non è mai stato, non è né mai sarà cosa
accessoria per la fede”.
Questa speranza della Chiesa che desidera il battesimo dei bambini anche dove è stata impossibilitata a
donarlo loro è sostenuta anche dalla sua vita di preghiera, secondo l’antico principio per il quale
la lex orandi è anche lex credendi (il modo con il quale si esprime la
preghiera manifesta il contenuto della fede cattolica): “Grazie alla riforma liturgica successiva al Concilio,
il Messale Romano dispone adesso di una Messa funebre per i bambini che muoiono senza Battesimo, e ci sono inoltre
preghiere speciali nell’Ordo exsequiarum per un caso del genere.
Nonostante che in entrambi i casi il tono delle preghiere sia chiaramente improntato a una grande cautela, di
fatto oggi la Chiesa esprime liturgicamente la speranza nella misericordia di Dio, alla cui cura amorosa è
affidato il bambino. La preghiera liturgica rispecchia e al tempo stesso dà forma al sensus fidei
della Chiesa latina in relazione alla sorte dei bambini che muoiono senza Battesimo: lex orandi, lex credendi.
È significativo che nella Chiesa ortodossa greca sia previsto un unico rito funebre per i bambini,
battezzati o meno, e la Chiesa prega per tutti i bambini defunti, affinché possano essere accolti nel seno di
Abramo, dove non c’è dolore o angoscia ma soltanto la vita eterna”[5].
Il Documento annuncia, infine, il Dio d’amore, la Trinità che è carità e che vuole la
salvezza di tutti gli esseri umani, come il motivo ultimo di tutta la speranza della chiesa e, quindi, anche della
speranza per i bambini non battezzati[6]:
“Dio è ricco di misericordia, dives in misericordia (Ef
2,4)... Dio è «amante degli uomini». Inoltre il progetto dell’amore di Dio, adesso
rivelato per mezzo dello Spirito, va oltre la nostra immaginazione: ciò che «ha preparato Dio per coloro
che lo amano» sono «cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in
cuore di uomo» (1 Cor 2,9-10, che cita Is 64,4)...
La grazia di Dio raggiunge ogni essere umano e la sua provvidenza abbraccia tutti. Il Concilio Vaticano II insegna
che Dio non nega «gli aiuti necessari alla salvezza» a coloro che, senza loro colpa, non sono ancora
giunti a una conoscenza esplicita di Dio, ma che, con l’aiuto della grazia, «si sforzano di condurre una
vita retta». Dio illumina ogni uomo «affinché abbia finalmente la vita» (cfr. Lumen
gentium 16). Viene poi nuovamente affermato che la grazia «lavora invisibilmente» nel cuore di tutti
gli uomini di buona volontà (Gaudium et spes 22). Queste parole si applicano direttamente a coloro che
hanno raggiunto l’età della ragione, e che prendono decisioni responsabili, ma difficilmente si
potrà affermare che non valgono anche per i bambini. La seguente affermazione, in particolare, sembra avere
una portata veramente universale: «Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima
dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina [cumque vocatio hominis ultima revera una
sit, scilicet divina], perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di
venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale» (Gaudium et spes 22). Questa
affermazione così profonda del Concilio Vaticano II ci porta al cuore del progetto d’amore della
Santissima Trinità e sottolinea come il progetto di Dio superi l’umana comprensione.
Dio non ci chiede cose impossibili. Inoltre la potenza di Dio non è limitata ai sacramenti: «Deus
virtutem suam non alligavit sacramentis quin possit sine sacramentis effectum sacramentorum conferre» (Dio non
lega la sua potenza ai sacramenti, così che può conferire l’effetto dei sacramenti senza
sacramenti). Dio può quindi dare la grazia del Battesimo senza che venga amministrato il sacramento, un fatto,
questo, che dovrebbe essere ricordato particolarmente quando il conferimento del Battesimo risultasse impossibile. La
necessità del sacramento non è assoluta. Ciò che è assoluto è la
necessità per l’umanità dell’Ursakrament che è Cristo stesso.
Ogni salvezza ci viene da lui e quindi, in qualche modo, attraverso la Chiesa”.
“La conclusione dello studio è che vi sono ragioni teologiche e liturgiche per motivare la speranza che
i bambini morti senza Battesimo possano essere salvati e introdotti nella beatitudine eterna, sebbene su questo
problema non ci sia un insegnamento esplicito della Rivelazione”[7]. Il documento ci invita così a considerare come la sola
Scriptura non sia in grado di sciogliere alcuni nodi che, solo nel cammino della tradizione, ricevono via
via chiarificazione, per opera dello Spirito: “Infine un’osservazione di carattere metodologico.
La trattazione di questo tema ben si giustifica all’interno di quello sviluppo della storia
dell’intelligenza della fede, di cui parla la Dei Verbum (n. 8), e i cui fattori sono la
riflessione e lo studio dei credenti, l’esperienza delle cose spirituali e la predicazione del Magistero.
Quando nella storia del pensiero cristiano si è cominciato a percepire la domanda sulla sorte dei bambini
morti senza Battesimo, forse non si conosceva esattamente la natura e tutta la portata dottrinale implicita in questa
domanda. Soltanto nello sviluppo storico e teologico avvenuto nel corso dei secoli e fino al Concilio Vaticano II, ci
si è resi conto che tale specifica domanda meritava di essere considerata in un orizzonte sempre più
ampio”[8].
Il testo integrale del documento è a disposizione sul sito della Santa Sede. Ne riproduciamo qui
solamente la prefazione sintetica che abbiamo più volte citato in questi appunti.
Il tema della sorte dei bambini che muoiono senza aver ricevuto il Battesimo è stato
affrontato, tenendo conto del principio della gerarchia delle verità, nel contesto del disegno salvifico
universale di Dio, dell’unicità e della insuperabilità della mediazione di Cristo, della
sacramentalità della Chiesa in ordine alla salvezza e della realtà del peccato originale.
Nell’odierna stagione di relativismo culturale e di pluralismo religioso, il numero dei bambini non battezzati
aumenta considerevolmente. In tale situazione, appare più urgente la riflessione sulla possibilità
di salvezza anche per questi bambini.
La Chiesa è consapevole che essa è unicamente raggiungibile in Cristo per mezzo dello Spirito.
Ma non può rinunciare a riflettere, in quanto madre e maestra, sulla sorte di tutti gli esseri umani creati a
immagine di Dio, e in modo particolare dei più deboli e di coloro che non sono ancora in possesso
dell’uso della ragione e della libertà.
È noto che l’insegnamento tradizionale ricorreva alla teoria del limbo, inteso come stato in cui
le anime dei bambini che muoiono senza Battesimo non meritano il premio della visione beatifica, a causa del peccato
originale, ma non subiscono nessuna punizione, poiché non hanno commesso peccati personali.
Questa teoria, elaborata da teologi a partire dal Medioevo, non è mai entrata nelle definizioni dogmatiche
del Magistero, anche se lo stesso Magistero l’ha menzionata nel suo insegnamento fino al Concilio Vaticano
II. Essa rimane quindi un’ipotesi teologica possibile.
Tuttavia nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) la teoria del limbo non viene
menzionata, ed è invece insegnato che, quanto ai bambini morti senza Battesimo, la Chiesa non può
che affidarli alla misericordia di Dio, come appunto fa nel rito specifico dei funerali per loro.
Il principio che Dio vuole la salvezza di tutti gli esseri umani consente di sperare che vi sia una via di
salvezza per i bambini morti senza Battesimo (cfr CCC 1261). Tale affermazione invita la riflessione teologica
a trovare una connessione logica e coerente tra i diversi enunciati della fede cattolica: la volontà
salvifica universale di Dio / l’unicità della mediazione di Cristo / la necessità del Battesimo
per la salvezza / l’azione universale della grazia in rapporto ai sacramenti / il legame tra peccato originale
e privazione della visione beatifica / la creazione dell’essere umano «in Cristo».
La conclusione dello studio è che vi sono ragioni teologiche e liturgiche per motivare la speranza che i
bambini morti senza Battesimo possano essere salvati e introdotti nella beatitudine eterna, sebbene su questo
problema non ci sia un insegnamento esplicito della Rivelazione. Nessuna delle considerazioni che il testo propone
per motivare un nuovo approccio alla questione, può essere addotta per negare la necessità del
Battesimo né per ritardare il rito della sua amministrazione. Piuttosto vi sono ragioni per sperare che
Dio salverà questi bambini, poiché non si è potuto fare ciò che si sarebbe desiderato
fare per loro, cioè battezzarli nella fede della Chiesa e inserirli visibilmente nel Corpo di Cristo.
Infine un’osservazione di carattere metodologico. La trattazione di questo tema ben si giustifica
all’interno di quello sviluppo della storia dell’intelligenza della fede, di cui parla la Dei
Verbum (n. 8), e i cui fattori sono la riflessione e lo studio dei credenti, l’esperienza delle cose
spirituali e la predicazione del Magistero.
Quando nella storia del pensiero cristiano si è cominciato a percepire la domanda sulla sorte dei bambini
morti senza Battesimo, forse non si conosceva esattamente la natura e tutta la portata dottrinale implicita in questa
domanda. Soltanto nello sviluppo storico e teologico avvenuto nel corso dei secoli e fino al Concilio Vaticano II,
ci si è resi conto che tale specifica domanda meritava di essere considerata in un orizzonte sempre più
ampio delle dottrine di fede, e che il problema può essere ripensato, mettendo in rapporto esplicito il
punto in questione nel contesto globale della fede cattolica e osservando il principio della gerarchia delle
verità, menzionato nel decreto del Concilio Vaticano II Unitatis Redintegratio.
Il Documento, sia dal punto di vista teologico speculativo sia dal punto di vista pratico-spirituale, costituisce uno
strumento esplicativo utile ed efficace per la comprensione e l’approfondimento di questa problematica, che non
è soltanto dottrinale, ma incontra urgenze pastorali di non poco rilievo.
[1] Il documento viene pubblicato con una Nota
preliminare, che ne indica la genesi e la natura (non è, di per sé, uno scritto del Pontefice, ma egli
ne ha dato approvazione per la pubblicazione):
Il tema «La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza Battesimo» è stato sottoposto
allo studio della Commissione Teologica Internazionale. Per preparare questo studio venne formata una
Sottocommissione composta dagli ecc.mi mons. Ignazio Sanna e mons. Basil Kyu-Man Cho, dai rev.mi professori Peter
Damian Akpunonu, Adalbert Denaux, p. Gilles Emery O.P., mons. Ricardo Ferrara, István Ivancsó, Paul
McPartlan, don Dominic Veliath S.D.B. (presidente della Sottocommissione) e dalla prof.ssa sr. Sara Butler M.S.B.T.,
con la collaborazione di p. Luis Ladaria S.I., segretario generale, e di mons. Guido Pozzo, segretario aggiunto della
suddetta Commissione Teologica, nonché con i contributi degli altri suoi Membri. La discussione generale si
è svolta in occasione delle Sessioni Plenarie della stessa CTI, tenutesi a Roma nel dicembre 2005 e
nell’ottobre 2006. Il presente testo è stato approvato in forma specifica dalla Commissione, ed è
stato poi sottoposto al suo presidente, il cardinale William J. Levada, il quale, ricevuto il consenso del Santo
Padre nell’Udienza concessa il 19 gennaio 2007, ha dato la sua approvazione per la pubblicazione.
[2] V.Sermonti, L’Inferno di Dante, Rizzoli, Milano, 2004, p.61.
[3] Sermonti commenta splendidamente quella che potremmo chiamare la megalopsichia di Dante che pone nel limbo e non nell’inferno i suoi maestri pagani, insieme a maestri musulmani come Avicenna e Averoìs ed al combattivo Saladino ed ancora insieme alle “turbe, ch’eran molte e grandi, d’infanti e di femmine e di viri” (Inferno, IV, vv.29-30): “Oltre ad onorarli, Dante li amava. E, su tutti, amava il suo Virgilio... che gli fa strada alla salute eterna, eternamente malato” , V.Sermonti, L’Inferno di Dante, Rizzoli, Milano, 2004, p.87.
[4] Joseph Ratzinger, Rapporto sulla fede, Paoline, Cinisello Balsamo, 1985, pp.154-155.
[5] N.100 del Documento.
[6] Nn.80-82.
[7] Premessa al Documento.
[8] Premessa al Documento.