Mettiamo a disposizione on-line la versione integrale dell’intervista di Angelo Zema, direttore di Romasette di Avvenire, apparsa sul numero di domenica 11 novembre 2007.
Il Centro culturale Gli scritti (12/11/2007)
Don Andrea, il libro del Papa ha riscosso grande interesse, non solo tra i cattolici.
L’esigenza di conoscere la verità su Gesù è molto sentita, nonostante continuino i
tentativi di ridurre o banalizzare la sua figura. Qual è l’approccio di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI
nel suo lavoro?
Possiamo comprenderlo facendo riferimento al capitolo ottavo dedicato all’evangelista Giovanni, il capitolo
più difficile dal punto di vista storico, perché è evidente la diversità del linguaggio
giovanneo da quello dei sinottici. Il Papa sottolinea che il quarto vangelo è stato scritto nella cerchia dei
fedelissimi del discepolo prediletto. È la via del Concilio che ha affermato l’ “origine
apostolica” dei vangeli. Questa espressione vuole indicare che chiunque siano gli ultimi redattori dei vangeli
essi rispecchiano fedelmente la testimonianza di coloro che sono stati testimoni oculari di Gesù. Il Papa
afferma così che se Giovanni esplicita alcune cose che sono meno appariscenti nei sinottici, non ci presenta,
però, un Gesù diverso dai sinottici. Quando Giovanni, ad esempio, ci racconta di Gesù che dice
di essere il pane della vita, egli esprime con un intuito profondissimo ma reale l’intenzione propria di
Gesù, annunciata dai sinottici nella moltiplicazione dei pani ed, ancor più, nell’ultima
cena.
Il Papa parla di uno strappo tra il “Gesù storico” e il “Cristo della fede”, che
con il tempo si è allargato. Da dove ha origine questo strappo?
Lo strappo moderno ha una profonda diversità da quello antico dello gnosticismo. Quest’ultimo non aveva
alcun dubbio che Gesù fosse Dio, ma ne negava l’umanità. Dobbiamo agli gnostici la parola stessa
‘apocrifo’, che significa ‘nascosto’, poiché essi cercarono di accreditare le loro
opere, scritte almeno 50 anni dopo i quattro vangeli, dicendo che gli apostoli li avevano nascostamente consegnati a
loro e quindi gli altri cristiani non avevano potuto conoscerli. Cercavano così di superare lo stupore di chi
si rendeva conto che il Gesù gnostico era una invenzione. Ma, senza il cristianesimo, lo gnosticismo non
avrebbe potuto esistere! Esso è post-cristiano non solo cronologicamente, ma soprattutto teologicamente! Lo
strappo moderno che si è operato a partire dal settecento deriva, invece, da riletture della figura di
Gesù a partire da schemi elaborati a prescindere da lui. Se una certa idea dell’uomo o di Dio non
corrisponde al dettato evangelico, se ne deduce che il vangelo su quel punto non è affidabile. Il Papa cerca,
però, di mostrare che quello strappo non è inevitabile, perché la fede accoglie il genuino
frutto di una ricerca storico-critica non pregiudiziale. Già Paolo VI volle che il Concilio affermasse
esplicitamente “senza alcuna esitazione la storicità dei vangeli”, nello stesso momento nel quale
parlava dei tre stadi che hanno portato alla loro formazione.
Qual è il pericolo di una separazione tra il “Gesù storico” e il “Cristo della
fede”, che appare anche attraverso la pubblicazione di «scoperte apparentemente nuove» sul mercato
mediatico, come disse il cardinale Schonborn alla presentazione del libro sul Papa?
Il fatto stesso che esista un pericolo in questo senso dice quanto la fede cristiana sia ragionevole ed accetti la
sfida del dialogo e del confronto. Perché per la fede è essenziale che ciò che si annunzia sia
legato alla reale intenzione di Gesù di Nazaret. Altrimenti il cristianesimo diventerebbe una ideologia
auto-referente. La fede cristiana afferma che la Parola piena e definitiva di Dio, la Parola che svela il suo
mistero, è la persona di Gesù. La Scrittura è Parola di Dio in quanto mezzo per giungere a Lui.
Se essa fosse inaffidabile, se Gesù fosse solo un uomo, sia pure uno straordinario rabbino, Dio non ci avrebbe
minimamente fatto conoscere il suo vero volto. È straordinario come i diversi capitoli del libro riconducano
continuamente il lettore a Gesù stesso. Il capitolo sul regno di Dio, ad esempio, dinanzi
all’affermazione del modernista Loisy “Gesù ha annunciato il regno ed è arrivata la
chiesa” replica: “Si aspettava il regno ed è arrivato Gesù”! Così analogamente
nell’analisi della parabola del padre misericordioso Benedetto XVI mette in evidenza come il Padre mostri il
suo volto non solo nel racconto, ma proprio in Gesù che siede al banchetto dei peccatori. Dalle Parole alla
Parola, potremmo dire.
Il Papa sottolinea che «il popolo è il vero, più profondo “autore” delle
Scritture». In che senso va colta questa indicazione? Quale dovrebbe essere il corretto atteggiamento di fronte
alle Scritture?
Per la chiesa, a differenza dei testi sacri di altre religioni, i singoli autori sacri sono veri autori dei loro
scritti. Si potrebbe tradurre l’espressione vangelo secondo Marco con al modo di Marco. Ma, al
contempo, l’unico Dio è autore di tutti i differenti libri che compongono la Bibbia. Esiste così
un sensus plenior, un senso più pieno, che si rivela non necessariamente al momento in cui un testo
viene scritto, ma nel prosieguo dell’unica storia della salvezza condotta da Dio. Benedetto XVI sottolinea come
questo sensus plenior non sia artificialmente aggiunto dall’esterno alla Scrittura, ma sia proprio la
dinamica che lega i libri sacri gli uni agli altri. San Paolo, ad esempio, nella lettera ai Romani rilegge alla luce
della salvezza operata dal Cristo il testo di Genesi sul peccato di Adamo. È il popolo di Dio che, attraverso
le generazioni, conferisce storicamente unità alla Bibbia, rileggendo continuamente nello Spirito i libri
precedenti. È per questo che l’interpretazione di un brano nel suo contesto e quella che guarda
all’unità della Bibbia non vanno mai separate. Lo Spirito stesso guida alla verità tutta intera
continuando questo processo nella tradizione della chiesa.
Qual è il “messaggio” portato da Gesù, se possiamo utilizzare questa parola, che emerge
dal libro del Papa?
È un messaggio che non è esterno a se stesso. Se Gesù annuncia continuamente –dice il
libro- il primato di Dio, se parla continuamente del Padre, se manifesta il suo volto, lo fa perché egli ne
è il Figlio. Più volte Benedetto XVI ha insistito sul fatto che il desiderio di verità è
connaturale all’uomo; già l’Antico Testamento contesta gli idoli non veri delle religioni
circostanti, mostrandone i tratti disumani e non divini. Solo la verità permette di liberarsi
dall’errore. La pretesa di Gesù di rivelare Dio è, in maniera definitiva, una esigenza di
verità. Nell’ultimo capitolo il volume mostra come tutta la teologia giovannea sia già contenuta
nella cosiddetta esclamazione di giubilo dei sinottici, nella quale Gesù afferma: “Nessuno conosce il
Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia
rivelare”. Questa verità è amore. Il libro sottolinea che proprio le espressioni
“io-sono” del vangelo di Giovanni –“io sono la luce”, “io sono il pane”,
ecc.- esprimono l’amore divino che si fa personalmente, in Gesù, dono di vita per gli uomini.
Un’ultima domanda per chi ancora non si è accostato al libro e intende farlo, anche in considerazione
della scelta della diocesi di inserirlo nel suo cammino di fede per quest’anno. Quali consigli darebbe a chi
apre il libro del Papa?
Di leggerlo scoprendo il valore di un opera che torna a porre la questione dell’essenza del cristianesimo.
Siamo troppo abituati a ragionare a partire dalle eccezioni e dagli stimoli effimeri del momento, mentre dobbiamo
recuperare ciò che è essenziale. Anche l’annuncio del vangelo ha sempre convinto l’uomo
quando ha affrontato le grandi questioni, quelle che stanno veramente a cuore all’uomo di ogni tempo.
Poi di non scoraggiarsi se incontra qualche passaggio che appare difficile. Dobbiamo tornare –ci invita il
Papa- al gusto di pensare, di voler capire. E, perché questo sia possibile, dobbiamo coltivare il senso del
silenzio e della riflessione. È per una gioia più grande che si affronta la fatica della lettura!
Infine di provare a meravigliarsi nuovamente dell’evento cristiano e della saggezza con la quale la chiesa lo
ha trasmesso agli uomini. Come ebbe a scrivere G.K.Chesterton: “Taluni hanno preso la stupida abitudine di
parlare dell'ortodossia come di qualche cosa di pesante, di monotono. Non c’è invece niente di
così eccitante come l’ortodossia: l’ortodossia è la saggezza e l’essere saggi
è più drammatico che l’essere pazzi”.