Per il progetto Portaparola ripresentiamo il dibattito a due voci sul velo islamico nella
legislazione europea pubblicato su Avvenire del 29 settembre 2007. Proprio la forma della discussione attraverso due
voci contrapposte scelta dal quotidiano cattolico per la presentazione di questo tema ci sembra essere un chiaro
invito al primato della dimensione educativa che avviene attraverso i principi della ragionevolezza e della
libertà (libertà e ragione si richiamano sempre reciprocamente!).
Il quotidiano introduce i due articoli con queste parole:
“Le parole del ministro degli Interni Amato, contrario a una proibizione del «foulard» alle donne
islamiche, hanno riacceso il dibattito intorno a una questione che in tutta Europa vede intrecciate scelte
individuali e diritti della società, libertà religiosa e timori di inaccettabili coercizioni. Faccia a
faccia tra il teologo ortodosso francese e il gesuita egiziano sulla mai risolta querelle del capo coperto in
pubblico. Da un lato, la tutela del valore tutto occidentale della libertà di scelta, nella fede come nella vita
quotidiana, e l’invito a riflettere su quei principi di moderazione e di modestia che la nostra Europa, in
balia di modelli spersonalizzanti che riducono la donna a mero oggetto erotico, sembra aver ormai del tutto
dimenticato Dall’altro, la necessità di non piegarsi all’«imperialismo» dei
fondamentalisti islamici, che pretendono di imporre la propria visione del Corano come strumento di potere sulle
masse musulmane.Tra i due fuochi, le donne islamiche, stretta tra ansie di vera libertà e dure pressioni,
ambientali e famigliari, verso una «sottomissione» estranea alla modernità”.
Avvenire correda il dibattito con due schede che vengono riproposte sul nostro sito, con le foto che le
accompagnano sul quotidiano. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la pubblicazione on-line di
questo dossier non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo
di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (4/10/2007)
Da decine d’anni in Europa gli alunni delle scuole pubbliche (ne so qualcosa per aver
lavorato in due grandi istituti superiori di Parigi) arrivano in classe con croci, stelle di David o calottine in
testa. E grazie a Dio nessuno dice niente. Da anni alcune ragazze musulmane arrivano in classe col foulard. E
grazie a Dio nessuno diceva niente. Poi c’è stata, all’improvviso, l’esplosione. Varrebbe
la pena di cercarne il perché. Paura dell’islam, paura della «religiosità» denunciata da
certi giornali come la fonte di ogni male, riflesso «d’identità» di un laicismo desueto –
probabilmente tutto questo insieme.
Eppure, agli occhi di un credente, il foulard è il meno significativo degli emblemi religiosi. Una croce fa
inevitabilmente pensare a Cristo, una stella di David o un rotolo della Legge al giudaismo. Ma col foulard, così
come con la kippa, entriamo nell’ambito senza evidenze delle «spiritualità capillari».
Sappiamo che gli ebrei si coprono il capo nelle sinagoghe, mentre gli uomini cristiani se lo devono scoprire in
chiesa e le donne cristiane si mettono il velo: per la presenza degli angeli, dice san Paolo.
In questo campo composito rispettiamo le differenze. Il fondamento della nostra società e, quindi, di una
vera laicità, non è un «valore» astratto, ma è una realtà, fonte di un autentico
valore: la persona nella sua singolarità e nella sua capacità di relazione.
Che significato ha allora il famoso foulard? È una semplice affermazione di appartenenza che sottintenderebbe
un’inferiorità della donna? In tal caso escludere le ragazze a cui la famiglia e l’ambiente lo
impongono significherebbe colpirle nella loro capacità di relazione con gli altri e spingerle verso il
ghetto. Nell’Impero ottomano il sistema dei milieu organizzava ogni comunità religiosa come una
comunità civile, con un suo proprio diritto. Ma l’Europa non è l’Impero ottomano e solo la
scuola comune, laica e tollerante eviterà la formazione di un milieu musulmano.
Senza contare che, in questa vicenda, bisogna tener conto della volontà di affermazione degli
adolescenti: ci si toglie il velo per opporsi alla famiglia e all’ambiente, lo si mette per opporsi
all’entourage che adora lo «svelamento».
Sviluppiamo queste giovani intelligenze in un clima di rispetto e di apertura, con uno spirito critico che
permetta la libera scelta ma che non può ignorare, senza diventare un’ideologia chiusa, la dimensione
religiosa dell’uomo. Troppi adolescenti si suicidano lasciando un biglietto: mi uccido perché la vita
non ha senso. O si drogano. O si lanciano in giochi erotici nello stesso tempo innocenti e disgreganti. E
cos’avete da dire a loro, voi difensori della «neutralità» e di un universalismo astratto? La
vita non è né astratta né neutra. L’universale non esige la castrazione delle anime.
Ma procediamo. L’islam, che può essere fervente senza essere «integralista», ha forse qualcosa
da dirci riguardo al velo – e noi, qualcosa da rispondergli. Forse vuole parlarci del pudore. Ora, il
pudore esprime il rispetto della persona, la copertura del corpo (unica pretesa del Corano, del resto) e della
capigliatura consente alla donna di non essere un oggetto erotico. Le religioni del Dio personale che fa l’uomo
a sua immagine, giudaismo, cristianesimo e islam, hanno coperto il corpo per affermare la persona.
Oggi, forse, la realtà della persona si è imposta a sufficienza perché il corpo possa di nuovo
mostrarsi nella naturalezza del gioco o del mare. Ne dubito però, dato l’incremento di una diffusa
ossessione erotica. Il foulard musulmano è una forma arcaica del pudore che le società europee, soprattutto
rurali, hanno praticato a lungo. In Europa, prima della Prima guerra mondiale, una donna che passeggiava a capo
scoperto era considerata una «poco di buono».
Non bisogna quindi escludere dalle nostre scuole le ragazzine musulmane che tengono coperti i capelli, bisogna
dire loro che le si rispetta, che si rispetta il loro pudore, ma che il pudore, interiorizzato, può assumere
forme meno vistose (nella nostra società un pudore troppo vistoso è anche un modo di attirare
l’attenzione su di sé!). Quindi lasciamo in pace i «foulard islamici».
È necessario invece, sempre in nome della persona, vietare il velo sul volto, il velo che maschera il volto.
Perché il volto è la parte del corpo in cui traspare in maniera più diretta la persona. E il velo
sul volto esprime tanto la paura della donna quanto la sua sottomissione. Il foulard impedisce forse alla donna di
essere un oggetto erotico. Il velo sul volto la trasforma di nuovo in oggetto erotico di cui si pensa di potersi
appropriare. Allora gli occhi, le mani, il profilo e perfino le fantasie che il velo suscita prendono la rivincita.
Eros è un dio astuto.
Velare, svelare. Temo che i nostri accaniti laicisti siano i fanatici di una religione oggi dominante, la
religione dello svelamento. Ed è per questo che il famigerato foulard li esaspera tanto. Hanno mai pensato
di allontanare dalle loro scuole le ragazzine con delle minigonne cortissime? Certamente no, e hanno fatto bene. Ma
hanno spiegato loro che è più opportuno che attirino gli sguardi sui loro volti?
Religione della spudoratezza, e anche della derisione: per essere neutrali non bisogna cedere in niente, solo le
intelligenze sghignazzanti sono universali. Ma in cosa la religione della spudoratezza e della derisione merita
un’indulgenza che si rifiuta alle culture del pudore arcaico se non perché costituisce la religione che
domina sorniona la nostra società? Se questo è il prezzo della libertà, benissimo: ma reclamiamo la
libertà per tutti.
Qualche giorno fa, il ministro degli Interni, Giuliano Amato, durante la conferenza nazionale
sull’immigrazione, ha detto: «Vietare il velo alle donne islamiche vuole dire imporre un’ideologia
imperialista occidentale».
Onestamente, tale affermazione stupisce: che c’entra l’Occidente in questa faccenda? Da
decenni il mondo musulmano lotta contro il velo. L’Egitto in primis: all’inizio degli anni
Venti, con Hoda Shaarawi, migliaia di donne sono scese per strada, testa nuda. E prima di loro Qasim Amin, il padre
del femminismo islamico, e tanti altri. Dal 1924 il velo è vietato nelle università e negli uffici statali
in Turchia dal 'padre della Nazione', Kemal Atatürk, che certo non era un imperialista occidentale. In Tunisia
è così già dagli anni Cinquanta con Habib Bourguiba, il fondatore della Tunisia moderna; lo stesso in
Siria con il partito Baath, che ha rinnovato la nazione.
Non c’è Stato musulmano che, volendo rinnovarsi e modernizzarsi, non abbia vietato il velo almeno in
certi luoghi. Certo, tutti l’avranno fatto influenzati dall’Occidente. E come potrebbe essere
diversamente? La modernità viene dall’Occidente. Ma il mondo islamico non ha su questo copiato
l’Occidente, non ha mai rivendicato il preteso 'diritto' all’aborto, scendendo per strada e gridando
«Il corpo è mio!». Non ha mai rivendicato il preteso 'diritto' all’omosessualità in
nome della modernità.
Ma ha affermato il diritto delle donne alla parità, sul campo del lavoro come della libertà. Il
mondo islamico cerca di modernizzarsi prendendo il bene laddove lo trova, anche in Occidente, ma anche nella
tradizione islamica. In questa faccenda del velo, se c’è imperialismo non è certo un
imperialismo occidentale ma, come hanno detto giustamente Magdi Allam, Souad Sbai e tanti musulmani 'illuminati',
un imperialismo islamico.
Si tratta per gli islamisti di conquistare il potere sociale e politico, attraverso i simboli culturale e religiosi:
non di islamizzare l’Europa (almeno non a questa tappa), ma di re-islamizzare i musulmani, ovunque siano,
imponendo loro un comportamento prestabilito e attribuito all’islam, per poterli poi manipolare meglio. Si
tratta di una radicalizzazione dell’islam, attraverso le forme esterne (vestito, barba, divieto alla donna
di dare la mano, separazione dei sessi ovunque, ecc), proprio perché la pratica islamica si è spesso
svuotata del suo interno, della sua spiritualità.
Perché il Ramadan è diventato un mese di feste, dove si mangia doppio… e si chiama digiuno.
Perché l’affermazione più bella dell’islam, Allah(u) akbar, 'Dio è [sempre]
più grande', è utilizzata ormai in tutto il mondo islamico, dai terroristi, per dire 'all’attacco in
nome di Dio!'. Perché la preghiera, atto di adorazione ma anche di dialogo con Dio Rahman, Dio Madre, è
diventata una serie di gesti minuziosamente prescritti nel più piccolo particolare.
Nessuno nega che il velo possa essere una scelta personale. Ma chi vive nel mondo islamico,
dall’Indonesia alla Nigeria, dal Marocco all’Arabia Saudita, sa che in questi decenni indossarlo
è un gesto fortemente politico. Se così non fosse, come spiegare che un grande Paese come la
Turchia, al momento di scrivere una nuova Costituzione, si sia fermato a discutere unicamente sulla questione della
soppressione del divieto del velo, trascurando centinaia di riforme previste?
No, il divieto del velo non è frutto di un’ideologia imperialista occidentale, è un atto di
lotta contro un’ideologia imperialista islamica. Perché l’imperialismo non è automaticamente
legato all’Occidente, anche se lo è stato e lo è ancora – sotto forma economica, per
esempio: l’imperialismo noi, cittadini del mondo islamico, lo viviamo sotto la forma più brutta che sia,
cioè quello religioso. Il velo non è un obbligo religioso islamico, perché non è un obbligo
coranico. Fino ad oggi i dotti del mondo islamico discutono il significato dei due versetti che ne
parlerebbero.
Mai la parola araba hijab ha significato specificamente
'velo', bensì significa semplicemente 'tutto ciò che nasconde'.
Basta andare per esempio sul sito http://www.middleeasttransparent.com
per trovare decine di articoli in arabo, inglese o francese sull’argomento,
e tra l’altro l’opinione chiara di Gamal al-Banna, il fratello dell’Hassan
che ha fondato i Fratelli musulmani, il quale nega che sia un obbligo chiaro.
Quando si vedono ragazzine di cinque-sei anni, a migliaia, portare il velo, come si può poi pretendere che a
sedici anni lo portino per scelta? La pressione sociale nel mondo musulmano, l’occhio degli altri su di me,
fa addirittura che alcune cristiane lo portano per aver la pace!
Poi, pretendere che nessuno abbia protestato quando i cristiani portavano la croce, ma che appena le musulmane hanno
portato il 'foulard' sono arrivate le proteste, è essere accecato dall’ideologia: come si può
paragonare un simbolo di 5 cm (al massimo) con uno di 400 cm (al minimo)? Il problema è saper 'leggere i segni
dei tempi'. Nel mondo islamico, il velo è da alcuni decenni un’arma politica per un progetto globale
d’islamizzazione della società, in contrapposizione alla globalizzazione che è rappresentata
dall’Occidente.
Da difendere è la vera libertà, e il divieto del velo nelle scuole e negli uffici statali non toglie la
libertà. Però il non-divieto apre la porta alle pressioni morali, che tolgono concretamente la libertà
di scelta. In nome di un islam libero, moderno e spirituale questo divieto è giusto e realistico, basato
sulla conoscenza della realtà islamica odierna, non sull’ideologia occidentale… spesso
imperialista.
Dal foulard al burqa, le vie per «celarsi»
Il Corano non parla mai espressamente di «velo», ma genericamente di 'mantelli'
(«jalabib») prescritti alle credenti come segno di distinzione (XXXIII, 59).
Più specificamente, il testo sacro maomettano obbliga le donne a coprirsi seno, genitali e, secondo alcune
letture, anche collo, capelli e orecchie (XXIV, 31). In pratica, da queste indicazioni coraniche sono discese diverse
interpretazioni, corrispondenti ad altrettante forme differenti di 'velo'.
FOULARD. È la variante più 'leggera', un semplice velo – bianco, nero o anche vivacemente colorato, magari con fantasie floreali – posato sui capelli e che lascia scoperto sia il volto, sia il collo e le orecchie. Nemmeno la chioma è interamente celata, ma ne sfuggono ampie ciocche sopra la fronte e sui lati. |
HIJAB. Copre interamente collo, orecchie e capelli, consentendo alle donne di mostrare soltanto l’ovale del viso. È una delle varianti più diffuse, anche in Africa settentrionale e, attraverso l’emigrazione in particolare di marocchine e algerine, anche in Europa è ormai frequente. Può essere bianco (l’haik, scende fino ai piedi), nero o color carne; in alcuni casi può essere corredato da una veletta aggiuntiva, di norma di tessuto leggerissimo, che copre anche il mento, la bocca, le guance e la punta del naso; una variante, questa, ricorrente in alcuni emirati arabi del Golfo Persico, per esempio Dubai. |
CHADOR. Indumento tipicamente persiano, è un ampio velo di colore scuro – generalmente nero – che avvolge il capo, si stringe sopra il collo e scende sulle spalle, di solito allungandosi fino ai piedi (che però restano scoperti) in una sorta di mantello. L’ovale del volto resta visibile. L’abito, proprio della tradizione persiana e non specificamente islamico (ancora oggi è portato anche da iraniane non musulmane, come le zoroastriane, che però spesso prediligono chador più variopinti), era progressivamente caduto in disuso ai tempi dello scià, per poi essere rilanciato dalla Rivoluzione islamica del 1979. Oggi è obbligatorio in pubblico, anche se non è raro che le giovani lascino sfuggire qualche ciocca di capelli. |
NIQAB. È l’abito delle donne saudite: nero, ammanta l’intera figura della donna, nascondendone le forme. Anche il volto è completamente coperto; soltanto una sottile fessura lascia spazio agli occhi. Il suo impiego è in espansione, non soltanto in altri Paesi della Penisola arabica – dallo Yemen agli Emirati arabi –, ma anche in Stati costituzionalmente laici che, almeno in via ufficiale, proibiscono il velo. È il caso della Tunisia e addirittura, recentemente, della Turchia. |
BURQA. Il termine individua due tipi di vestiti diversi: il primo è una sorta di velo fissato sulla testa, che copre l’intera testa permettendo di vedere solamente attraverso una finestrella all’altezza degli occhi e che lascia gli occhi stessi scoperti. L’altra forma, chiamata anche burqa completo o burqa afghano, è un abito, solitamente di colore blu, che copre sia la testa sia il corpo. All’altezza degli occhi può anche essere posta una retina che permette di vedere senza scoprire gli occhi della donna. Il burqa completo è stato obbligatorio in Afghanistan per molti anni per imposizione dei Talebani.Un tentativo di introdurre il burqa a scuola è stato fatto anche in Europa, nei Paesi Bassi, ma è stato rifiutato con la motivazione che l’educazione scolastica necessita anche di una comunicazione non verbale (ad esempio le espressioni del viso), impossibile attraverso un burqa. |
Come riguardo molte altre questioni, le interpretazioni sulla condizione della donna definita dal
Corano divergono anche notevolmente. La tradizione islamica parla di «separazione ed equità» e le
donne hanno gli stessi diritti e doveri religiosi degli uomini. Tuttavia le moschee prevedono zone separate e le
donne non possono guidare la preghiera in presenza anche solo di un uomo, in ossequio alla tradizione che attribuisce
ai maschi la guida in campo pubblico, lasciando alle femmine quella in ambito domestico. Alle figlie spetta una quota
dell’eredità pari alla metà di quella dei figli; il Corano vieta anche esplicitamente alle donne di
sposare uomini non musulmani, mentre invece consente l’inverso. Per quanto riguarda l’abbigliamento,
Maometto ha fatto vari riferimenti alla sobrietà prescritta alle donne; anche qui però le interpretazioni
non sono univoche: gli esegeti più rigidi leggono i vari passi come una prescrizione alle donne affinché in
pubblico appaiano soltanto interamente coperte da velo e mantello, se non addirittura anche a viso celato.
Posizioni meno rigoriste traggono invece dal Corano soltanto un’indicazione a vestirsi in modo semplice e
sobrio, senza l’obbligo di coprire il volto. I due corni interpretativi si ripresentano anche sul possibile
isolamento delle donne – massima in Arabia Saudita, dove le donne possono uscire di casa solo se accompagnate
da un uomo della famiglia –, mentre per quanto concerne le norme matrimoniali è maggioritaria
l’accettazione della poligamia (anche se non tutti gli Stati musulmani l’approvano).