La chiesa di Roma prima di Pietro e Paolo: Aquila, Priscilla e quelli che si radunano nella loro casa...
del prof.Romano Penna

Ripresentiamo on–line un articolo del prof.Romano Penna già apparso con il titolo L’origine della chiesa di Roma e la sua fisionomia nel volumetto La chiesa di Roma e la parrocchia. La prospettiva missionaria, a cura di P.Selvadagi, Atti del Laboratorio organizzato dall’Istituto ‘Ecclesia Mater’ della Pontificia Università Lateranense, Quaderni dell’Istituto Ecclesia Mater, Roma, 2000, pagg.15-29. Il testo è la trascrizione della relazione che il prof.Penna tenne all’interno del Laboratorio pastorale promosso dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose Ecclesia Mater della Diocesi di Roma in collaborazione con il Centro di Formazione permanente del Clero romano il 2-3 febbraio 1999. I neretti sono nostri ed hanno l’unico fine di rendere più facile la lettura on-line del testo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la messa a disposizione sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Il Centro culturale Gli scritti (27/3/2007)


Indice


1. Origine

1.1 Testimonianze antiche.

Per più di un secolo dalle sue origini, nessun documento ci informa sulle circostanze della fondazione della chiesa di Roma (modalità, tempo, persone), neanche quegli autori che più ebbero a che fare con essa[1]. E' dalla seconda metà del II secolo in poi che si susseguono le testimonianze più antiche.

- Ireneo di Lione: "... la chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo" (Adv. haer. 3,3,2). Ma, dato che Paolo non può aver fondato la chiesa di Roma, questa impossibilità ricade probabilmente anche su Pietro che gli è associato.

- Eusebio di Cesarea: "All'inizio del principato di Claudio [= 41-54] la Provvidenza universale... prese per mano Pietro, potente e grande, primo fra gli apostoli per le sue virtù, e lo condusse a Roma come contro un flagello del genere umano [= contro Simon Mago]" (Hist. eccl. 2,14,6). Il linguaggio è chiaramente encomiastico e polemico; non dice nulla della fondazione della chiesa di Roma.

- Gerolamo: "Simone Pietro... nel secondo anno di Claudio [= 42] andò a Roma per sconfiggere Simone mago e là occupò per venticinque anni la cattedra episcopale sino all'ultimo anno di Nerone, cioè il quattordicesimo" (De vir. ill. 1,1). Nulla sulla fondazione della chiesa.

N.B. - La notizia della venuta di Pietro a Roma all'inizio del principato di Claudio dipende da At 12,27, dove si legge che, dopo la sua liberazione dal carcere a Gerusalemme sotto il re Erode Agrippa (= 41-44), Pietro andò "in un altro luogo" (eis héteron tópon). Questo "altro luogo" però viene variamente identificato dai commentatori: oltre a Roma (così ancora P.C. Thiede in Bibl 67 [1986] 532-538), si pensa anche ad Antiochia (Stählin), alla costa mediterranea della Palestina secondo At 9,32ss (cf. Rossé), a una diffusa attività missionaria (Cullmann), o semplicemente ad un altro luogo della stessa Gerusalemme (Calvino) o al di fuori di essa (Haenchen; Schneider; Bossuyt-Radermachers) o a un qualunque luogo indeterminato (Conzelmann; Fabris; Pesch; Barrett; Fitzmyer ["anybody's guess"]; Martini: "probabilmente neppure Luca ne aveva notizia").

- Ambrosiaster: "Si sa, dunque, che ai tempi degli apostoli alcuni giudei... abitavano a Roma. E, fra costoro, quelli che avevano creduto insegnarono ai Romani a conservare la legge pur professando Cristo... L'apostolo (Paolo) si adira con i Galati, perché, nonostante fossero istruiti bene, si erano lasciati fuorviare con facilità; con i Romani invece non dovette adirarsi, ma anzi dovette lodare la loro fede, perché pur non vedendo né segni né miracoli né alcuno degli apostoli, avevano accolto la fede in Cristo sebbene in un senso falsato; infatti non avevano sentito annunciare il mistero della croce di Cristo" (In epist.ad Romanos, Prol. 2-3). Questa testimonianza, che contrasta con le altre, è particolarmente importante e doppiamente: perché, appartenendo il commentatore alla stessa chiesa di Roma, ne esprime la coscienza dal suo interno; e perché, essendo egli, secondo alcuni studiosi, un ebreo convertito al cristianesimo, offre una testimonianza non interessata. E' su questa posizione che si attestano i più recenti commenti a Rom.

Essendo dunque altamente improbabile che sia stato Pietro a fondare la chiesa di Roma, questa deve i suoi inizi a degli oscuri evangelizzatori, che vanno identificati genericamente con dei viaggiatori o mercanti provenienti in Italia da Gerusalemme. Su questa posizione sono ormai attestati tutti i commentatori odierni[2]. Con ciò non si nega affatto né che Pietro sia stato a Roma (anche se con ogni probabilità vi giunse dopo che Paolo scrisse la sua lettera [cioè dopo la metà degli anni 50], visto che non lo nomina neppure, mentre ciò avviene per ben 4 volte sia in 1Cor sia in Gal, sempre col nome aramaico Kéfás) e tantomeno che vi sia morto martire[3].

1.2 Ambiente di origine.

Il testo citato dell'Ambrosiaster si assomma alla notizia di Svetonio, secondo cui Claudio "cacciò da Roma i Giudei che tumultuavano continuamente per l'istigazione di Cresto (impulsore Chresto)" (Vita Cl. 25). Per quanto l'identificazione di questo "Cresto" sia controversa, è da preferire quella di chi vi scorge uno scambio di vocali con “Cristo”[4].
L'attenzione dunque viene convogliata sul giudaismo romano, che, come a Gerusalemme, costituì la vera matrice della comunità cristiana locale[5]. Ma è il caso di dire che quali gli inizi, tali gli sviluppi. Infatti, la chiesa di Roma, che non ricevette alla sua nascita l'impronta del paolinismo (cf. Ambrosiaster!), in seguito rimase di fatto connotata dal giudeo-cristianesimo; lo si vede in alcune tappe che possiamo rintracciare all'interno del secolo I:

  1. Paolo nella Lettera ai Romani (metà degli anni 50), oltre ad accogliere vari elementi di questa connotazione (cf. la confessione di fede cristologica in 1,3b-4a; il concetto di hilastérion, 3,25 unico concetto in Paolo di origine cultuale; le dichiarazioni positive circa la Legge in 7,12.14; l'allusione alla Aqedàh in 8,32; la preoccupazione di salvaguardare il primato storico-salvifico di Israele in 11,16-24; l'affermazione su Gesù come "servitore dei circoncisi" in 15,8), intende anche rispondere all'accusa di una libertà sregolata (cf. 3,8: "Facciamo il male perché ne venga il bene") e per così dire sottopone in anticipo alla chiesa di Roma quella che di lì a poco avrebbe dovuto essere la sua difesa a Gerusalemme.
  2. La Prima lettera di Pietro (pseudepigrafica; dopo il 70), oltre a una tipica eredità paolina ("in Cristo": 3,16; 5,10.14; "Spirito di Cristo" in 1,11; valore salvifico della morte di Cristo per la nostra giustizia in 2,24; spiritualizzazione di un certo linguaggio cultico-sacerdotale in 2,5.9), conserva elementi di tipo giudaizzante ("diaspora" in 1,1; "Babilonia" in 5,13; la consegna levitica in 1,16:. "Sarete santi, perché io sono santo", come in Lev 11,44.45; 19,2).
    Analogamente la cosiddetta Lettera agli Ebrei (dopo il 70), indirizzata con ogni verosimiglianza a Roma da una posizione per così dire a sinistra di Paolo, ragiona con categorie prettamente veterotestamentarie per condurre i destinatari a superare una concezione cristologica troppo condizionata da schemi giudaici.
  3. La cosiddetta Lettera di Clemente ai Corinzi (metà degli anni 90), proveniente da Roma, esprime una concezione ecclesiologica tipicamente giudeo-cristiana (tra l'altro, con la prima menzione dei "laici" in 40,5, desunta dalla strutturazione propria di Israele).

2. Struttura interna

Per comprendere la prima organizzazione della chiesa di Roma è necessario partire da quella del giudaismo romano, dal quale questa chiesa di fatto proviene[6].

2.1 L'organizzazione dei Giudei di Roma.

Non abbiamo nessuna notizia che gli ebrei di Roma fossero raggruppati in un unico políteuma, cioè in una associazione di cittadini autonoma, come ad Alessandria in Egitto (cf. Strabone in Fl. Giuseppe, Ant. 14,117: "Alla loro testa c'è un ethnárchés [detto in Filone Al., In Fl. 74: genárchés] che governa la nazione, decide le contestazioni e si occupa dei contratti e dei comandi, come se fosse il capo di un governo autonomo"). A Roma gli ebrei sono frantumati in varie comunità, una specie di parrocchie ante litteram, ciascuna delle quali costituiva e recava il nome di synagoghé (con cui dunque non si designa l'edificio di culto, detto invece per metonimia in greco proseuché, "[luogo di] preghiera" [cf. Filone Al, Leg ad C. 132] e traslitterato in latino con proseucha [cf. Giovenale, Sat. 3,296]). La fonte primaria delle nostre informazioni in materia sono le epigrafi sepolcrali delle catacombe ebraiche romane, da cui risultano una dozzina di queste comunità, sparse in vari punti della città ed estendentisi su di un arco cronologico di almeno quattro secoli. Per quanto riguarda la metà del I secolo, possiamo ragionevolmente dedurre l'esistenza di cinque comunità del genere, le più antiche, etichettate rispettivamente

La loro organizzazione interna, stando alle notizie epigrafiche, comportava le seguenti cariche (tra parentesi la frequenza delle ricorrenze):

Come si vede, la guida delle comunità è ben articolata, ma è essenzialmente laica. Se poi volessimo identificare quelli che Paolo incontrò a Roma e che in At 28,17 sono chiamati "i più in vista tra i Giudei", dovremmo computare tra di essi almeno i gherousiárchai, i grammateis, e forse anche rappresentanti dei presbyteroi e degli árchontes.

2.2 L'organizzazione e la vita dei cristiani di Roma.

E' fin troppo facile, anzi inevitabile, dedurre che all'inizio vero e proprio i cristiani di Roma, provenendo dal giudaismo locale, si radunassero nelle proseuchai delle rispettive "sinagoghe" di appartenenza. Ma ci sono alcune questioni, che qui accenniamo brevemente.

2.2.1 Un primo problema sta nel sapere quando essi si siano poi staccati anche fisicamente dal gruppo giudaico e abbiano costituito delle nuove comunità autonome. Dobbiamo calcolare in proposito due estremi cronologici: il terminus post quem è costituito dal provvedimento restrittivo di Claudio, tradizionalmente datato al 49 (da alcuni anticipato al 41); il terminus ante quem è l'anno 64, quando dopo l'incendio di Roma Nerone mandò a morte i soli cristiani (cf. Tacito, Ann. 15,44,2-5), i quali dunque erano ormai ben identificabili come non più appartenenti tout court ai Giudei. La separazione perciò dev'essere avvenuta in quella quindicina d'anni che stanno tra la fine degli anni 40 e la metà degli anni 60[7]. Ebbene, è proprio in questo tempo (più precisamente verso la metà degli anni 50) che Paolo scrive la sua lettera ai Romani, cioè ai cristiani di Roma.

2.2.2 Inoltre, nella sua lettera Paolo non fa alcuna menzione di un qualche edificio di culto proprio dei cristiani, né in termini di proseuché né in termini di synagoghé. Quanto al termine ekklésía che comunque prima del secolo III non designa mai un edificio architettonico come luogo di culto cristiano, esso in Rom è presente solo nel capitolo finale dei saluti (cf. 16,1.4.5.16.23) a indicare piccoli gruppi di chiese cosiddette domestiche, ma mai per designare l'insieme dei cristiani come una comunità unica. Questi nel prescritto della lettera, a differenza di quanto avviene in altri casi (cf. 1Cor 1,2: "Alla chiesa di Dio che è in Corinto"; Gal 1,2: "Alle chiese della Galazia";1Tes 1,1: "Alla chiesa dei Tessalonicesi"), vengono semplicemente designati così: "A tutti coloro che sono in Roma diletti di Dio, chiamati santi" (1,7a). L'Apostolo infatti accenna all'esistenza di piccole comunità di cristiani, che si radunano in case private di alcuni di loro. Si deducono almeno tre di queste case di raduno: la casa dei coniugi Aquila e Priscilla (cf. 16,3-5: "Salutate Aquila e Priscilla... e l'assemblea che si raduna in casa loro"), la casa di Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma "e i fratelli che sono con loro" (16,14), e quella di Filologo e Giulia, Nereo e sua sorella, e Olimpa "e tutti i santi che sono con loro" (16,15); a queste se ne aggiungono forse altre due, visto che si parla anche di "quelli che appartengono alla casa di Aristobulo" e"quelli che appartengono alla casa di Narcisso" (16,10-11), probabilmente gli schiavi dei rispettivi padroni menzionati, i quali permettevano loro di radunarsi insieme. Tenendo conto che una casa antica, di cui, in concreto, come ambiente di raduno entra in conto solo il triclinio (a cui al massimo si può aggiungere l'atrio), poteva accogliere al più quindici-venti persone, possiamo calcolare l'esistenza a Roma al tempo di Paolo di un numero di cristiani compreso tra i cento e i duecento (su di una popolazione di circa un milione di unità).

2.2.3 La prima designazione globale dei cristiani di Roma, in quanto convergenti a costituire un'unica chiesa, l'abbiamo solo nel prescritto della cosiddetta lettera di Clemente Romano ai Corinzi dell'anno 96, che comincia così: "La chiesa di Dio che è residente a Roma" (1Clem, Prol.), dove si noterà l'assenza di un qualsivoglia nome personale di mittente[8]. Che già al tempo di Paolo i cristiani di Roma si sentissero parte di un'unica chiesa è discusso. La maggior parte dei commentatori lo nega. Solo recentemente qualcuno lo ha sostenuto[9], richiamandosi tra l'altro al fatto che, benché anche a Corinto esistessero almeno due luoghi di raduno dei cristiani in altrettante case private (cf. 1Cor 16,19; Rom 16,23), Paolo però si indirizza semplicemente "alla chiesa che è a Corinto" (1Cor 1,2). Tuttavia, oltre al fatto incontestabile che nella Lettera ai Romani Paolo non parla mai di una sola chiesa, bisogna rilevare che: (1) a Roma i gruppi erano più numerosi che altrove, anche più che a Corinto (per esempio, non meraviglia che in Rom 16,1 si parli della "chiesa che è a Cencre", poiché si trattava con ogni probabilità di un solo gruppo cristiano nel piccolo porto orientale di Corinto); (2) di conseguenza, i cristiani di Roma dovevano essere più numerosi che altrove, così da far prevalere la loro distinzione più che non la loro unificazione sotto l'etichetta cumulativa di ekklésía (che pur vantava nobili ascendenze bibliche); (3) mentre è possibile che la comunità di Corinto si radunasse almeno qualche volta tutta insieme in una sola casa (così risulta da Rom 16,23: "Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la comunità"), ciò non è pensabile a Roma, dati i molti gruppi cristiani e la loro impossibilità di radunarsi in una sola casa. Resta comunque il fatto che la chiesa di Roma, benché composta da gruppi diversi, doveva costituire "un solo corpo", se non di fatto certamente nell'ideale e come programma, secondo quanto esplicitamente Paolo scrive in Rom 12,5: "Pur essendo molti siamo un corpo solo in Cristo" (cf. analogamente 1Cor 12,12-13.27).

2.2.4 Una questione a parte sono le caratteristiche proprie della vita della chiesa di Roma, Paolo, sia pur in termini iperbolici e come captatio benevolentiae, comincia con il lodare i romani perché la loro fede era nota in tutto il mondo (cf. 1,8; 16,19). Vi erano però dei problemi, che la lettera ci dischiude con discrezione e che qui semplicemente enumeriamo.

  1. Quello fondamentale, sentito come tale più da Paolo stesso che non dai destinatari, riguarda l'esatto posto da assegnare alla libertà cristiana nella vita del battezzato; se egli insiste tanto sul valore della nuda fede ai fini della giustificazione, a prescindere quindi dalle opere della Legge, è perché la chiesa di Roma era sostanzialmente impostata secondo un'ottica diversa, di tipo giudeo-cristiano. E se Paolo qui più che mai afferma la bontà e la santità della Legge (cf. 7,12.14), opera retoricamente solo una concessione ai suoi interlocutori, ma mai come altrove afferma decisamente che "Cristo è la fine della Legge" (10,4; cf. l'Ambrosiaster).
  2. Doveva serpeggiare tra i cristiani di Roma un certo disprezzo per la componente giudaica da parte della componente di origine gentile, che evidentemente stava aumentando. Questa, a quanto pare, giungeva a sostenere che Dio aveva rigettato il suo popolo sostituendolo con uno nuovo formato dai Gentili. I lunghi capitoli 9-11 trattano appunto del mutuo rapporto tra Giudei e Gentili e del ruolo giocato da Israele nella storia della salvezza in base alla chiamata di Dio, che è detta "irrevocabile" (1 1,29). Momento forte di questa trattazione è il celebre apologo dell'olivastro innestato contro natura sull'olivo buono (cf. 11,16-24).
  3. Contrasto tra "deboli" e "forti". In 14,1-15,7 vengono confrontati due opposti comportamenti, fondati su diverse pratiche religiose: "deboli" vengono detti coloro che tengono in grande considerazione determinate astensioni alimentari (niente carne e niente vino: cf. 14,2.21) e determinate osservanze temporali (giorni speciali: 14,5)[10]; "forti" invece sono coloro che non tengono affatto conto di tutto ciò, basandosi sulla radicale libertà cristiana. Se Paolo ammonisce chiaramente: "Accogliete chi è debole nella fede, senza discuterne le esitazioni" (14,1), è segno che tra le due fazioni esistevano perlomeno delle frizioni.
  4. Obbedienza alle autorità civili. Stando a Rom 13,1-7, dove Paolo esorta a sottomettersi alle autorità, si può pensare che i cristiani di Roma, specie quelli di provenienza giudaica, fossero inclini a tumultuare, se non proprio ad atteggiamenti di ribellione, come doveva essere successo da poco stando alla notizia di Svetonio (cf. sopra). La parenesi in materia serviva anche come correttivo per chi ritenesse che l'evangelo sganciasse ormai i cristiani da ogni contesto politico-sociale e dalle sue proprie obbligazioni[11].

2.2.5 L'organizzazione specifica della chiesa di Roma (usiamo il singolare per comodità) ci sfugge in gran parte. La suddetta esortazione a formare un corpo solo viene immediatamente integrata dal riconoscimento di una molteplicità ministeriale: "Ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri". Ma i sette ministeri che vengono subito elencati (cf. 12,6-8: profezia, diakonia, insegnamento, esortazione, condivisione, presidenza, opere di misericordia) sono piuttosto generici e non concordano di fatto con quelli che troviamo altrove nelle lettere paoline (cf. 1 Cor 12,4-11; Ef 4,11); certo essi non permettono di individuare i gradi di quella che oggi un po' anacronisticamente chiameremmo gerarchia ecclesiastica. Né dovrebbe essere un gran problema il fatto che questi ministeri stiano tutti sotto l'etichetta di "carismi" (12,6: charísmata), poiché una contrapposizione tra Spirito e istituzione qui non esiste[12]. Piuttosto, sul piano di una organizzazione meno incerta, dobbiamo puntare la nostra attenzione sulla funzione della presidenza. Pur constatando che questo ministero è indifferentemente inserito fra gli altri, e anzi occupa il penultimo posto nell'elenco (lo stesso avviene in 1Cor 12,28 per le kybernéseis), esso permette un confronto con altre funzioni analoghe nella società del tempo, da cui se ne deducono dei lineamenti più netti.
Paolo parla propriamente di "chi presiede" (ho proïstámenos), di cui dice: "lo faccia con sollecitudine". L'impiego del singolare non deve far pensare a un solo "presidente" per tutta la comunità romana, poiché per la sola piccola chiesa di Tessalonica viene usato il plurale (cf. 1Tes 5,12: hoi proïstámenos); esso quindi va inteso in senso distributivo, come a dire che ogni comunità cristiana di Roma ha un suo presidente (cf. il gherousiárchés per le singole "sinagoghe" dei Giudei). Del resto anche nella Lettera agli Ebrei, che oggi si suppone inviata alla chiesa di Roma, l'autore impiega il plurale hégoúmenoi, "capi" (Ebr 13,7.17). Ora, questa funzione di "presidente" viene interpretata dai Commentatori in due modi diversi: secondo alcuni, considerato che essa è collocata in mezzo a due altre funzioni per così dire di assistenza sociale ("chi dà lo faccia con semplicità... chi fa opere di misericordia le compia con gioia"), Paolo intenderebbe una sorta di patronato esercitato da qualche benestante verso i meno abbienti[13]; altri invece, considerando sia il parallelo con le altre ricorrenze (cf. 1Tes 5,12; 1Tim 5,17 [presidenti nella chiesa]; 3,4 e 5,12 [presidente nella casa])[14] sia la sua inutilità se dovesse ridursi agli altri due carismi, preferiscono scorgervi la figura di uno specifico leader della comunità"[15]. Da parte mia, mi allineo a questa seconda posizione, precisando però che, a chi detiene una funzione ufficiale di presidenza, Paolo raccomanda una sollecitudine che deve riguardare anche la carità operosa.
Tuttavia, non è chiaro in che cosa consistesse una tale presidenza, né cosa comportasse sul piano sociale o morale o rituale per esserne investiti, né quale durata avesse. Visto che non abbiamo notizie su altre possibili funzioni di governo nella chiesa di Roma, identificare tout court il proïstámenos con il gherousiárchés delle comunità giudaiche romane è del tutto aleatorio e di fatto impossibile, se non altro perché gli appartenenti ai vari gruppi cristiani erano molto inferiori di numero rispetto a quelli delle sinagoghe giudaiche. Di per sé, egli poteva assolvere a funzioni di vario genere: dalla predicazione all'amministrazione della beneficenza, dalle misure deliberative a quelle disciplinari; e tra le sue funzioni doveva essere compresa con ogni probabilità anche la presidenza dell'eucaristia.[16] A questa conclusione ci orienta la suddetta constatazione che i primi cristiani si radunavano solo in case private, dove il responsabile del raduno non poteva essere altri che il capofamiglia ospitante. Lo deduciamo anche dal parallelismo esistente con i culti privati pagani dell'antichità, alla cui fenomenologia il caso dei cristiani di fatto appartiene. In particolare, è interessante il confronto con un gruppo privato del 100 a.C. a Filadelfia in Lidia, che si radunava in casa di un certo Dionisio, sottostando a regole morali severissime.[17] Si dà però anche il caso di collegia romani nei quali è testimoniata la figura di un quinquennalis, cioè di un presidente a scadenza quinquennale[18].
Paolo d'altronde nelle sue lettere autentiche non menziona mai la figura specifica del presbyteros, anche se siamo in diritto di pensare che il proïstamenos fosse anagraficamente un anziano. Nella Prima lettera ai Corinzi, anzi, dopo aver ricordato che "la casa di Stefanas, che è primizia dell'Acaia, hanno posto se stessi a servizio (eis diakonían) dei santi" (si noti il passaggio dal soggetto singolare "casa" al verbo plurale per indicare l'insieme della famiglia), Paolo invita i corinzi ad "essere sottomessi (hypotássésthe) verso gente siffatta e verso quanti collaborano e si affaticano con loro" (1Cor 16,15-16): ebbene, qui non si menziona alcun specifico responsabile singolo di quella chiesa, come a dire che ogni capofamiglia doveva essere responsabile dell'assemblea che si raccoglieva in casa sua o che il responsabile poteva variare di volta in volta.
Ciò che va comunque notato è che nell'elenco dei sette carismi di Rom 12,6-8 non c'è nulla che faccia pensare a ruoli di tipo cerimoniale o rituale. Essi piuttosto, distinti nella forma di 2+cinque, insistono su aspetti diversi.
- I primi due sono enunciati in astratto: la "profezia" e la "diakonia". Il primo dei due richiama una funzione connessa con una ispirazione dello Spirito, che ha certamente a che fare con le Scritture, di cui si interpreta la parola di Dio come norma della fede e della vita cristiana. Il secondo invece richiama tutta una serie di relazioni interpersonali, anzi di servizi comunitari, che vengono dettagliati in forma non astratta ma personale, come segue.
- Gli altri cinque infatti sono dei participi sostantivati: (1) "Colui che insegna" (ho didáskalòn): è il più vicino alla profezia, di cui però rappresenta la faccia rivolta non allo Spirito ma all'edificazione della comunità (cf. 1 Cor 14). (2) "Colui che esorta, o che conforta" (ho parakalón): il verbo greco infatti ha i due significati, e la funzione può essere ulteriormente intesa come una specificazione della profezia, posta a servizio degli altri. (3) "Colui che condivide" (ho metadidoús): si tratta sicuramente di persone facoltose, che sanno mettere generosamente a disposizione degli altri le loro sostanze. (4) "Colui che presiede": vedi sopra. (5) "Colui che fa opere di misericordia" (ho eleón): specifica "colui che condivide" nel senso di un più specifico riferimento all'elemosina"[19].
L'insistenza sui carismi di servizio non può non far pensare a ciò che ancora un secolo e mezzo dopo scriverà Tertulliano, portavoce della stessa chiesa di Roma, quando nel capitolo 39 dell'Apologeticum descriverà lo svolgimento delle adunanze cristiane della città. Ne richiamo qui i momenti essenziali: egli menziona prima le preghiere, poi la lettura delle Scritture, poi le esortazioni e censure religiose, poi la raccolta di offerte per andare incontro ai membri più bisognosi"[20], e infine il pasto comune detto alla greca agápé (senza riferimento all'eucaristia). A tutto ciò "presiedono anziani (seniores), già provati, i quali sono pervenuti a questa dignità non con pagamento, ma con la testimonianza delle loro virtù".
Se poi volessimo confrontare la struttura interna della chiesa di Roma con quella del giudaismo della stessa città, accanto a poche somiglianze noteremmo molte differenze, soprattutto a livello di organizzazione gerarchica: ciò che distingue le comunità cristiane è una struttura più agile, per così dire meno istituzionale e più carismatica. Ciò dipende certamente dal numero minore di componenti; ma sbaglieremmo, se non computassimo anche tra le ragioni della differenza una maggior apertura e disponibilità al libero intervento dello Spirito (cf. 12,11: "Ferventi nello Spirito"), che dovrebbe rimanere costante.
Dall'insieme, dunque, sintetizzando, per la metà del I secolo risulta la fisionomia di una chiesa dalle seguenti caratteristiche: di origine non strettamente apostolica, di impronta dottrinale giudeocristiana, composta da gruppi diversi di fatto autonomi, organizzata in una struttura certamente non clericale (ma questo termine già nel suo uso è un anacronismo) e certamente imbrigliata da maglie istituzionali molto leggere, fortemente orientata verso quella che potremmo chiamare l'ortoprassi della carità, a cui Paolo ulteriormente la richiama, sottolineando insieme il dato previo e fondamentale della libertà dalla legge derivante dalla sola fede.


Testi dello stesso autore presenti sul nostro stesso sito www.gliscritti.it

Introduzione al Vangelo di Marco, del prof. Romano Penna
Cosa vuol dire “spirituale” nella fede cristiana? del prof. Romano Penna
Il fatto sinottico e le sue soluzioni storiche, del prof. Romano Penna


Per altri articoli e studi del prof.Romano Penna o sugli Atti degli Apostoli presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici


Note

[1] Mi riferisco alla lettera di Clemente, a quella di Ignazio ai Romani, alla notizia di Papia sulla composizione del vangelo di Marco, e al Pastore di Erma.

[2] Cf. ultimamente il cattolico B. Byrne, Romans, "Sacra Pagina" 6, Collegeville 1996, p. 10. Ma già il cattolico Duchesne, Histoire ancienne de l'Eglise, I, Paris 1906, p. 57, ammetteva senza mezzi termini che essa "era nata da uno scisma del giudaismo locale" (cit. da J.Huby, San Paolo. Epistola ai Romani, Roma 1961, p. 14).

[3] Le testimonianze più antiche sono la Prima lettera di Clemente dell'anno 96 (cf. 5: Pietro e Pao­lo associati come martiri) e l'apocrifo Ascensione di Isaia dell'inizio del II secolo (cf. 4,3: di Nero­ne, simboleggiato da Beliar, si dice che "perseguiterà la pianta che piantarono i dodici apostoli del Diletto; uno dei dodici sarà dato in mano sua").

[4] Vedi i testi e la loro discussione in R. Penna, L'ambiente storico-culturale delle origini cristiane, Dehoniane, Bologna 1991, pp. 277-281. Herga Botermann, 1995.

[5] Cf. R.E. Brown-J.P. Meier, Antiochia e Roma, chiese-madri della cattolicità antica, Assisi 1987, pp. 114-128; e ora K.P. Donfried & P. Richardson, edd., Judaism and Christianity in First-Century Rome, Grand Rapids-Cambridge 1998, specie pp. 117-127.

[6] Cf. R. Penna, Gli ebrei a Roma al tempo dell'apostolo Paolo, in Id., L'apostolo Paolo: Studi di ese­gesi e teologia, Cinisello Balsamo 1991, pp. 33-63 specie 42ss.

[7] È possibile che un episodio di intolleranza verso i cristiani sia quello verificatosi già nel 57 a danno della matrona Pomponia Grecina, che, a detta di Tacito, venne accusata di seguire una superstizione straniera (superstitionis externae rea): dovendo essere giudicata dal marito Aulo Plauzio secondo l'antico diritto, venne da lui assolta, ma d'allora in poi mutò vita vestendo sem­pre a lutto e comportandosi con animo mesto (cf. Tacito, Ann. 13,32,2-3). Vedi in proposito G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca e l'ambiente ebraico e cristiano. Brescia 1977, pp. 130-132.

[8] L'attribuzione della lettera a Clemente risale solo a Dionisio, vescovo di Corinto verso il 170 (stando a Eusebio, Hist. eccl. 4,23,11). Qualcuno pensa che lo stesso personaggio sia menzionato in Erma, Pastore, Vis. 4,4,3 (inizi II secolo), dove una Signora (=la chiesa) dice all'autore a propo­sito del suo libro: "Ne farai due copie e ne manderai una a Clemente e una a Grapta. Clemente la spedirà alle altre città, poiché questo è il suo incarico, e Grapta la manifesterà alle vedove e agli orfani. Tu invece la leggerai in questa città, insieme ai presbiteri che presiedono alla chiesa". Ma il Clemente, di cui qui si parla, a parte il fatto che è associato a una donna, e che non spetta a lui leggerla "in questa città", risulta essere contemporaneo dell'autore, cioè di Erma stesso; questi però, secondo il Canone Muratoriano, scrisse la sua opera sotto l'episcopato di suo fratello Pio, cioè negli anni 140-155, quando il supposto Clemente della lettera era già morto da tempo.

[9] Così C.C. Caragounis, From Obscurity to Prominence. The Development of the Roman Church between Romans and 1Clement, in K.P. Donfried & P. Richardson, edd., Judaism and Christianity in First-Century Rome, cit., pp. 245-279.

[10] Si può certo pensare a prassi giudeo-cristiane, ma i comportamenti segnalati erano propri anche di altre correnti della religione e filosofia antiche, come il pitagorismo.

[11] Troppo forzata appare la recente proposta di M.D. Nanos, The Mystery of Romans. The Jewi­sh Context of Paul's Letter, Minneapolis 1996, pp. 289-336, secondo cui Paolo si rivolgerebbe so­prattutto ai cristiani di provenienza gentile per esortarli a sottomettersi alle autorità sinagogali e ad osservare i cosiddetti precetti noachici contenuti nel Decreto apostolico di Gerusalemme.

[12] Su questa problematica vedi il contributo chiarificatore di G. Canobbio, Lo Spirito e l'istitu­zione, in N. Ciola, a cura, Servire Ecclesiae. Miscellanea in onore di Mons. Pino Scabini, Dehoniane, Bologna 1998, pp. 285-302.

[13] Così i commenti di Lagrange, Huby, Michel, Cranfield, Wilckens, Schmithals, Dunn, e Byrne (che traduce:"the one who provides resources"); incerto è Schlier.

[14] In Fl. Giuseppe, Ant. 12,108, hoi proestékótes sono i capi responsabili della comunità giudaica di Alessandria, e nel contesto immediato stanno insieme a hoi presbyteroí e a hoi hégoúmenoi.

[15] Così i commenti già di Origene, Ambrosiaster, Tommaso, Lutero ("Misura distintiva di ogni preminenza è la premura per gli altri"), e tra i contemporanei Leenhardt (con riferimento all'amministrazione caritativa), Barrett, Murray, Morris, Barbaglio, Käsemann, Zeller, Stuhlmacher, Fitzmyer, Moo; Sandlay-Headlam intendono in riferimento a qualunque funzione di governo, tanto ecclesiastico quanto familiare.

[16] Cf. C.K. Barrett, The Epistle to the Romans, Black's NT, London 1984 (=1957), p. 239.

[17] Vedi R. Penna, Chiese domestiche e culti privati pagani alle origini del cristianesimo. Un confron­to, in N. Ciola, a cura, Servire Ecclesiae, cit., pp. 61-85.

[18] Di epískopoi egli parla soltanto al plurale e solo in Fil 1,2. Diversa invece sarà poi la situa­zione nelle deuteropaoline Lettere Pastorali con la triade episcopo-presbìteri-diaconi.

[19] Sull'insieme, vedi il buon commento di J.D.G. Dunn, Romans 9-16, "World Biblical Com­mentary" 38b, Dallas 1988, pp. 726-732.

[20] Lo scopo è di "seppellire e nutrire poveri, ragazzi e ragazze senza beni e senza genitori, vec­chi domati dall'età, e anche naufraghi e cristiani sofferenti nelle miniere o nelle isole o nelle pri­gioni. Non sorprenderà che i fondi raccolti, come del resto in ogni collegium antico, servano ap­parentemente in modo esclusivo per i soli membri della comunità; tuttavia, poco più avanti, iro­nizzando sul fatto che nei templi pagani venivano a mancare le offerte, Tertulliano scrive: "Non ci riesce di venire in soccorso a un tempo agli uomini e agli dèi vostri mendicanti; e d'altra parte cre­diamo di non dover dare se non a chi ci chiede. Tenda la mano anche Giove e qualche spicciolo ri­ceverà, dal momento che dona di più la nostra misericordia per le strade che la vostra nei templi"!


[Approfondimenti]