Pubblichiamo on-line sul nostro sito la relazione di S.Em. il cardinal Camillo Ruini al Clero della Diocesi di Roma, tenuta presso la Pontificia Università Lateranense, il 6 dicembre 2007.
Il Centro culturale Gli scritti (7/12/2007)
La domanda di Gesù di Nazaret: “voi chi dite che io sia?” risuona oggi non meno
provocante e ineludibile che nella cerchia dei primi discepoli, e poi nei secoli successivi. In questa domanda
è implicita una seconda: chi è Gesù “per me”, e anche “per noi”, per il
genere umano? Il vero essere di Gesù è infatti quello del nostro unico e universale Salvatore. A queste
domande cercheremo di presentare sinteticamente la risposta contenuta nel libro di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI
Gesù di Nazaret. Ci muoveremo quindi secondo un approccio insieme storico e teologico, che ci interessa
come sacerdoti ma che interessa alla fine ogni persona.
Ci troviamo in sintonia, così, con il libro del Papa. Fin dalla Premessa, che affronta i problemi
metodologici ed ermeneutici, esso denuncia il rischio di ricostruzioni basate unicamente sul metodo storico-critico,
che di fatto ha generato l’impressione che su Gesù sappiamo ben poco di certo e che solo in seguito la
fede nella sua divinità abbia plasmato la sua immagine. “Una simile situazione è drammatica per
la fede perché rende incerto il suo autentico punto di riferimento: l’intima amicizia con Gesù,
da cui tutto dipende, minaccia di annaspare nel vuoto” (p.8). La valutazione di Rudolf Schnackenburg, uno dei
più importanti esegeti cattolici della seconda metà del secolo XX, conferma questa preoccupazione:
“Mediante gli sforzi della ricerca coi metodi storico-critici non si riesce o si riesce solo in misura
insufficiente a raggiungere una visione affidabile della figura storica di Gesù di Nazaret” (p.9).
Ratzinger va quindi al di là di Schnackenburg, perché non si ritiene vincolato dal solo metodo
storico-critico. Esso è certamente una dimensione irrinunciabile del lavoro esegetico, a partire dalla
struttura stessa della fede cristiana, per la quale è fondamentale il riferimento a reali eventi storici:
così afferma chiaramente anche il Magistero della Chiesa, a partire dall’Enciclica del 1943 Divino
afflante Spiritu e poi soprattutto nella Dei Verbum (pp.10-12). Ratzinger prova dunque una grande
riconoscenza per il molto che l’esegesi moderna, basata su questo metodo, ci ha dato e continua a darci, e il
suo libro non è certo scritto contro tale esegesi (p.19).
Il metodo storico-critico non può esaurire però il compito dell’interpretazione, specialmente
per chi vede nei testi biblici l’unica Sacra Scrittura e la ritiene ispirata da Dio. Questo metodo ha infatti
dei limiti intrinseci, il primo dei quali è che esso, in quanto metodo storico, “deve lasciare la parola
nel passato”, collocandola nella situazione e nell’ambiente in cui è stata scritta. Presuppone
inoltre “l’uniformità del contesto in cui sono inseriti gli eventi della storia, e quindi deve
trattare le parole che ha di fronte come parole umane” (pp.12-13). Specialmente oggi questo limite diventa
pesante, perché molti esegeti assoggettano la Bibbia al criterio della cosiddetta visione moderna del mondo,
secondo la quale Dio non può agire nella storia e quindi tutto ciò che riguarda interventi di Dio deve
essere collocato nell’ambito di ciò che è soggettivo (p.58). Un terzo limite è che il
metodo storico-critico vede i singoli libri della Scrittura nel loro momento storico e li suddivide ulteriormente
secondo le loro fonti, ma l’unità di tutti questi scritti come “Bibbia” non gli può
risultare come un vero e proprio dato storico. In concreto, questo metodo ci impegna in una discussione senza fine,
che raramente può andare al di là di ipotesi sempre provvisorie (p.13).
Per la sua stessa natura, dunque, un tale metodo porta in sé un’intrinseca apertura verso metodi
complementari: nella parola del passato si può percepire infatti la domanda circa il suo oggi, nella parola
dell’uomo risuona qualcosa di più grande, i singoli testi biblici rimandano in qualche modo al processo
vitale dell’unica Scrittura, che si attua in essi. Alla luce dei due documenti della Pontificia Commissione
Biblica sull’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993) e sul popolo ebraico e le sue Sacre Scritture
nella Bibbia cristiana (2001), J. Ratzinger fa riferimento al metodo della “esegesi canonica”, che
intende leggere i singoli testi biblici nel complesso dell’unica Scrittura (cfr Dei Verbum, 12):
l’esegesi moderna ha mostrato infatti come le parole trasmesse nella Bibbia divengano Scrittura attraverso un
processo di sempre nuove riletture dei testi antichi che, in una situazione nuova, vengono ripresi e compresi in modo
nuovo. L’unità della Scrittura è sì un dato teologico e non direttamente storico, che
però non viene attribuito solo dall’esterno a un insieme eterogeneo di scritti. In particolare, chi
osserva questo processo – certamente non lineare, spesso drammatico e tuttavia in progresso – a partire
da Gesù Cristo può riconoscere che nell’insieme c’è una direzione e che
l’Antico e il Nuovo Testamento sono intimamente collegati tra loro: l’ermeneutica cristologica
dell’intera Scrittura presuppone una scelta di fede e non può derivare dal puro metodo storico, ma
questa scelta ha dalla sua anche “una ragione storica” (pp.14-15).
In questa prospettiva possiamo, per così dire, intuire anche storicamente il significato
dell’ispirazione biblica. L’autore non parla come un soggetto privato chiuso in se stesso. Parla in una
comunità viva e all’interno di un movimento storico che non è fatto solo da lui e nemmeno dalla
sola comunità, ma in cui opera una superiore forza guida. I libri della Scrittura rimandano dunque a tre
soggetti che interagiscono tra loro: il singolo autore o gruppo di autori, il popolo di Dio a cui essi appartengono,
che è a sua volta un più profondo “autore” delle Scritture, e finalmente Dio stesso che
parla attraverso gli uomini e la loro umanità (pp.16-17).
Il libro Gesù di Nazaret presuppone pertanto l’esegesi storico-critica e si serve dei suoi
risultati, ma vuole andare oltre, applicando i nuovi criteri metodologici e mirando a un’interpretazione
propriamente teologica, che richiede la fede ma non rinuncia affatto alla serietà storica, pur non entrando di
per sé nella disputa che è propria della ricerca storico-critica (p.19 e p.409). Padre Raniero
Cantalamessa (in Avvenire del 13 maggio 2007) osserva che proprio in virtù di questa impostazione il
libro del Papa potrà essere più duraturo di molte altre indagini su Gesù di Nazaret.
J. Ratzinger riconosce espressamente che queste scelte metodologiche determinano la strada della sua interpretazione
della figura di Gesù nel Nuovo Testamento. In concreto ciò significa che egli ha “fiducia nei
Vangeli”, certamente dando per scontato quanto il Concilio e l’esegesi moderna dicono sui generi
letterari e su altre caratteristiche dei Vangeli stessi. Egli fa dunque il tentativo di presentare il Gesù dei
Vangeli come il Gesù reale, il “Gesù storico” in senso vero e proprio (pp.17-18). Mons.
Gianfranco Ravasi, nel recentissimo “Dialogo in Cattedrale” con Giuliano Ferrara, ha d’altronde
osservato giustamente che non tutto il reale è “storico” nel senso di accertabile con la critica
storica e perciò la storiografia attuale ricorre sempre più all’aiuto di altre discipline, come
la psicologia, la sociologia e la stessa teologia (cfr Avvenire del 14 novembre 2007).
Già nella Premessa del libro J. Ratzinger propone inoltre, sinteticamente, la sostanza della sua
argomentazione: il Gesù dei Vangeli è una figura storicamente sensata e convincente, molto più
logica e comprensibile anche dal punto di vista storico delle ricostruzioni puramente storico-critiche. Infatti
soltanto se già in lui era accaduto qualcosa di straordinario, che superava radicalmente le speranze e le
attese di quell’epoca, si spiegano la crocifissione e l’efficacia che Gesù ha avuto in tutta la
storia successiva. Del resto, solo vent’anni dopo la morte di Gesù, nell’inno a Cristo della
Lettera ai Filippesi (2,6-11), troviamo già una cristologia pienamente sviluppata. Come si è potuto
arrivare a questo? Non certo per l’azione di formazioni comunitarie anonime, che ben difficilmente avrebbero
potuto essere così creative, convincere gli altri ed imporsi. Anche dal punto di vista storico è assai
più logico che la grandezza si collochi all’inizio e che la figura stessa di Gesù abbia fatto
saltare tutte le categorie disponibili e abbia potuto essere compresa soltanto a partire dal mistero di Dio.
Credere che questo uomo era Dio e che abbia voluto far conoscere ciò velatamente nelle parabole, e poi sempre
più chiaramente, va certamente al di là delle possibilità del metodo storico, ma se, alla luce
di questa convinzione di fede, si leggono i testi con il metodo storico e con la sua apertura a ciò che lo
supera, i testi stessi si aprono e mostrano una figura degna di fede. Diventano chiari, allora, anche la ricerca
complessa intorno alla figura di Gesù presente negli scritti del Nuovo Testamento e il profondo accordo di
questi scritti, nonostante tutte le loro diversità (pp.18-19).
Questo libro costituisce in realtà un grande tentativo di allargare gli spazi della razionalità
storica, come altrove J. Ratzinger-Benedetto XVI cerca di allargare gli spazi della razionalità delle scienze
empiriche. Anche in questo caso non si giunge a una certezza razionale autosufficiente, ma a quella che il Papa
chiama “l’ipotesi migliore”: le premesse della fede – i praeambula fidei – non
si possono dimostrare infatti mediante una ragione rigorosamente indipendente dalla fede stessa, come d’altra
parte la fede non è un puro paradosso, che possa sussistere soltanto in una totale indipendenza dalla ragione
(cfr la mia relazione dello scorso anno sulla teologia di Benedetto XVI). Tenere unite ragione e fede, qui in
concreto fede e ragione storica, rappresenta in realtà un atteggiamento più aperto, e anche più
consapevolmente critico, rispetto a coloro che ritengono valida e seria soltanto un’indagine puramente
razionale riguardo a Gesù, magari dando implicitamente per presupposto che Dio non esista o comunque non possa
intervenire nella storia.
Il Gesù di Nazaret non è però soltanto un tentativo di mostrare l’identità
del Cristo della fede con il Gesù della storia. E’ anche, e non meno, un grande approfondimento del
significato teologico di Gesù, o più semplicemente del suo significato per la nostra fede, secondo due
direttrici: quella della valorizzazione delle ricchezze spirituali della sua figura e del suo messaggio, alla luce
del Nuovo Testamento letto insieme all’Antico e di tutta la grande tradizione cristiana, e quella
dell’attualizzazione del messaggio di Gesù in rapporto alla presente situazione storica, con i suoi
interrogativi e le sue istanze.
Come è noto, il Papa mette questo libro nelle nostre mani non come “un atto magisteriale”, ma
unicamente come espressione della sua ricerca personale del volto del Signore, chiedendo soltanto
“quell’anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione” (p.20).
Vediamo dunque anzitutto come J. Ratzinger fonda e concretizza nell’esame dei testi dei
Vangeli la sua argomentazione circa l’identità tra il Gesù storico e il Cristo della fede.
Il corpo del libro si compone di dieci grandi eventi della vita di Gesù o contenuti della sua predicazione,
seguendo un ordine per quanto possibile cronologico. Prima però una breve Introduzione offre uno
sguardo sintetico sul mistero di Gesù, mettendo a fuoco il suo rapporto con Dio, a partire dalla promessa del
Deuteronomio (18,15) di un profeta come Mosè, che parlava con Dio faccia a faccia. Il Vangelo di Matteo
presenta Gesù proprio come questo nuovo Mosè (pp.88-89 e 92). In realtà però Mosè
non poté vedere il volto di Dio, ma soltanto le sue spalle (Es 33,23), mentre il Figlio unigenito, che
è nel seno del Padre, è l’unico che ha veramente visto Dio (Gv 1,18) e perciò
può rivelarlo pienamente. Solo partendo da qui si può davvero capire, secondo J. Ratzinger, la figura
di Gesù del Nuovo Testamento (pp.21-28).
Il filo dell’argomentazione si dipana tra i due grandi poli della tradizione sinottica e di quella giovannea.
Un primo dato certo è che Gesù ha una precisa collocazione temporale all’interno della storia,
come è sottolineato dalle indicazioni di Luca (3,1-2) riguardo al battesimo di Giovanni: perciò la sua
attività non è affatto qualcosa di mitico (pp.30-31).
Riguardo ai Sinottici, la tesi fondamentale di Ratzinger è che già in essi la
“cristologia”, cioè il mistero del Figlio come rivelatore del Padre, è presente in tutti i
discorsi e in tutte le azioni di Gesù. Viene rovesciata così la tesi di Harnack – molto influente
a partire dagli anni '30 anche sull’esegesi cattolica – che l’annuncio di Gesù sarebbe un
annuncio sul Padre, di cui il Figlio non farebbe parte (pp.28 e 74).
Concentriamo la nostra attenzione su questo aspetto del libro, esaminando prima il Vangelo del regno, poi le
antitesi del Discorso della montagna, quindi il rapporto di Gesù con i discepoli e la confessione di Pietro, e
finalmente le parabole e i detti sul “Figlio dell’uomo”, dove è approfondita la questione
dell’attesa prossima del regno escatologico.
Contenuto centrale e pervasivo della predicazione di Gesù è certamente che il regno di Dio è
vicino, mentre l’asse della predicazione post-pasquale è la cristologia. Perciò Bultmann sostiene
che il Gesù storico non fa parte della teologia del Nuovo Testamento e già prima Loisy affermava che
Gesù annunciò il regno di Dio ed è venuta la Chiesa (pp.70-71). Premesso che la questione
fondamentale è il rapporto tra il regno e Gesù, prima che il rapporto tra il regno e la Chiesa,
Ratzinger ripercorre il succedersi delle interpretazioni del regno, criticando fortemente in particolare quella
secolarista e “politica”, principalmente cattolica, che finisce con l’escludere proprio Dio dal suo
regno (pp.71-78). Precisa poi che il significato del regno di Dio è la signoria attuale di Dio: Gesù
annuncia semplicemente che Dio esiste ed opera; l’aspetto nuovo del suo annuncio è esattamente
l’“adesso”, il regno presente. L’interpretazione di questo “adesso” come attesa
ravvicinata del regno escatologico non convince, perché forza e seleziona i testi. In realtà
Gesù stesso è “il regno in mezzo a noi” (Lc 17,20-21; cfr 11,20), la nuova vicinanza
del regno è egli stesso: infatti attraverso la sua presenza e la sua attività Dio è entrato qui
e ora nella storia in modo completamente nuovo, come colui che opera. Perciò il tempo è compiuto
(Mc 1,15) e questo è a titolo speciale il tempo della conversione e della penitenza, ma anche della
gioia. A partire da questo dato centrale si ricongiungono i diversi aspetti, apparentemente contraddittori,
dell’annuncio di Gesù sul regno (pp.81-86). Viene capovolta così l’interpretazione di
Bultmann.
Uno dei capitoli più ampi del libro è quello dedicato al Discorso della montagna. Nella sua seconda
parte, intitolata “La Torah del Messia”, partendo dalle celebri antitesi “Fu detto –
ma io vi dico”, l’attenzione si concentra sul rapporto tra la Torah di Mosè e quella di
Gesù, chiarendo anzitutto la fedeltà di Gesù alla fede di Israele: “Non pensate che io sia
venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento” (Mt
5,17-19). Emerge tuttavia, anzitutto dalla serie delle antitesi, una novità radicale: l’io di
Gesù risalta in un grado che nessun maestro della Legge poteva e può permettersi. Le folle lo
percepiscono, tanto che il popolo “si spaventò” (e non semplicemente “rimase stupito”)
per il suo modo di insegnare: non insegnava infatti come i rabbini, ma come uno che ha autorità (Mt
7,28-29 e parall.). Così facendo, o Gesù profanava la maestà di Dio, che ha dato la Torah
a Mosè, o invece egli è davvero all’altezza di Dio (pp.125-129).
A questo punto Ratzinger si confronta molto attentamente con il libro del rabbino americano Jacob Neusner Un
rabbino parla con Gesù, ripubblicato ora in italiano dalle edizioni San Paolo. Si tratta di un grande
studioso, ebreo osservante e amico dei cattolici e degli evangelici, che immagina di prendere posto in mezzo ai
discepoli sulle “montagne” della Galilea, di ascoltare Gesù e di parlare con lui, per poi
confrontare la sua parola con le parole dell’Antico Testamento e delle tradizioni rabbiniche fissate nella
Mishnah e nel Talmud. Neusner è toccato dalla grandezza di Gesù, mostra per lui rispetto
e amore, sempre riprende a parlare con lui, ma alla fine decide di non seguirlo, per rimanere fedele a quello che
chiama l’“Israele Eterno”. Il punto decisivo è che secondo Neusner Gesù non ha
tralasciato nulla della Legge, ma vi ha però aggiunto un’unica cosa, “se stesso”: questa
centralità dell’io di Gesù nel suo messaggio, che imprime a tutto una direzione nuova, è
il motivo principale per cui questo rabbino decide di non seguirlo. Egli cita le parole di Gesù al giovane
ricco: “Se vuoi essere perfetto, va, vendi tutto quello che hai e seguimi” (Mt 19,21): la
perfezione, l’essere santo come Dio è santo, richiesta dalla Torah, adesso consiste nel seguire
Gesù (pp.129-132).
Questa convinzione comune di Ratzinger e Neusner riguardo al posto decisivo e centrale rivendicato da Gesù,
che si pone “all’altezza di Dio”, viene quindi mostrata anzitutto riguardo all’osservanza del
sabato (terzo comandamento), che è al cuore del contrasto tra Gesù e l’Israele del suo tempo.
Gesù non dà del sabato un’interpretazione semplicemente “liberale” e antropocentrica
– sebbene affermi che “il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il
sabato” (Mc 2,27) – ma teologica e alla fine cristologica (“il Figlio dell’uomo
è signore del sabato”: Mt 12,4-8 e parall.) (pp.132-138). Analogamente, riguardo al quarto
comandamento “Onora tuo padre e tua madre”, nel quale Neusner vede giustamente il cuore
dell’ordinamento sociale e della coesione di Israele, la risposta di Gesù quando gli dicono che sua
madre e i suoi fratelli stanno fuori e cercano di parlargli, “Chi è mia madre e chi sono i miei
fratelli… chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli…” (Mt
12,46-50), implica la trasformazione dell’“Israele Eterno” in una comunità che ha al suo
centro Gesù e il suo rapporto con Dio (pp.140-144).
Di fatto Gesù raccoglie intorno a sé una nuova famiglia, quella dei suoi discepoli, che nasce dalla
comunione con lui, dalla preghiera di Gesù, dal suo dialogo con il Padre. Lo mostrano la scelta e la chiamata
dei Dodici (Mc 3,13-19; cfr Lc 6,12-16), il loro “stare” con Gesù per giungere a una
conoscenza profonda di lui, impossibile per coloro che lo vedevano solo “dall’esterno”, e quindi il
loro essere inviati per portare il suo messaggio a Israele e al mondo e per scacciare i demoni, ossia liberare il
mondo dalle potenze del male. E’ importante qui il simbolismo del numero dodici e anche del numero settanta, o
settantadue (Lc 10,1-20): questi numeri alludono a Israele e anche al mondo. La nuova comunità che si
raccoglie intorno a Gesù è dunque tendenzialmente universale, e al contempo non amorfa ma strutturata
(la struttura fondamentale sono appunto i Dodici), sempre in virtù del suo rapporto con Gesù
(pp.203-217).
Ratzinger approfondisce questo rapporto soprattutto trattando della confessione di Pietro. Essa avviene in un
tornante decisivo del ministero di Gesù, la sua partenza verso Gerusalemme e verso la croce dopo la
predicazione in Galilea. Secondo tutti e tre i Sinottici subito dopo la confessione di Pietro Gesù annuncia la
sua passione e aggiunge che chi intende seguirlo deve essere disponibile al medesimo destino. Poco dopo, inoltre, ha
luogo l’esperienza della trasfigurazione, nella quale di nuovo emerge il nesso tra la gloria di Gesù e
la sua passione. Le due domande: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” e “Voi chi
dite che io sia?” presuppongono che vi siano due conoscenze di Gesù, una “esterna”, non
necessariamente falsa ma inadeguata, l’altra più profonda, che può crescere solo nel rapporto
diretto e prolungato con Gesù. Ratzinger esamina questi testi dal punto di vista non dell’ecclesiologia
ma della cristologia e mostra come siano vani i tentativi di ricostruire storicamente le parole originali di Pietro e
di attribuire tutto il resto a sviluppi successivi. In realtà dietro alla confessione di Pietro stanno
esperienze straordinariamente forti, come quella della pesca miracolosa dopo la quale Pietro si getta ai piedi di
Gesù e dice “Signore, allontanati da me che sono un peccatore” (Lc 5,8), o quella della
tempesta sedata, dove i discepoli sulla barca si gettano ai piedi di Gesù, in un gesto che esprime insieme
paura ed adorazione, e riconoscono “Tu sei veramente il Figlio di Dio” (Mt 14,33).
In realtà i discepoli hanno riconosciuto che Gesù non rientrava in nessuna delle categorie consuete,
che egli era qualcosa di più e di diverso da “qualcuno dei profeti”. Non riuscirono ad esprimere
tutto ciò in una risposta perfetta, ma utilizzarono le parole di promessa dell’Antica Alleanza: Cristo,
Figlio di Dio, Signore. Questa esperienza del Gesù terreno fatta dai discepoli, nella quale essi avvertivano
che egli sembrava mettersi sullo stesso piano del Dio vivente ed essere intimamente unito a lui, è il nucleo
da cui scaturisce la fede post-pasquale in lui, altrimenti inspiegabile. Era questo l’elemento che pervadeva il
suo intero messaggio e ne costituiva l’aspetto nuovo e veramente distintivo (pp.344-352).
La principale difficoltà che l’esegesi storico-critica oppone a questa presentazione di Gesù e
del suo messaggio è, ormai da più di un secolo, quella dell’attesa imminente della venuta del
regno di Dio, nella quale sarebbero vissuti Gesù e i suoi discepoli. Ratzinger ne tratta soprattutto parlando
della natura e dello scopo delle parabole: secondo questa interpretazione tutte le parabole intenderebbero, in ultima
istanza, annunciare l’imminenza temporale del regno escatologico. Ma questa tesi fa violenza alla
varietà dei testi. Vi è senza dubbio un orientamento delle parabole verso il regno di Dio, ma si tratta
del regno che viene e che verrà nella persona di Gesù (escatologia che “si realizza” in lui
e attraverso di lui), secondo quello che abbiamo già visto essere l’orientamento costante della sua
predicazione. L’attesa immediata della fine del mondo, certamente presente nella primitiva ricezione del
messaggio di Gesù, come emerge dal Nuovo Testamento, non è dunque in realtà il tema autentico e
centrale del suo messaggio (pp.223-225).
Questa questione viene ripresa esaminando il titolo che Gesù, e praticamente egli solo, usa più di
frequente quando parla di sé: “Figlio dell’uomo”. Contro la tendenza assai diffusa
nell’esegesi storico-critica a separare tra loro i vari gruppi di detti sul Figlio dell’uomo e a
considerare come risalenti a Gesù solo pochi di essi, come Luca 12,8-9 e 17,24-25, nei quali il Figlio
dell’uomo venturo sembrerebbe essere diverso da Gesù, Ratzinger sottolinea come le parole sul Figlio
dell’uomo, e in particolare l’unità interna tra la kénosis vissuta da Gesù e
la sua venuta nella gloria, siano in piena sintonia con l’elemento nuovo, “autenticamente gesuano”,
che costituisce l’aspetto essenziale della sua figura e del suo messaggio e che non può essere stato
creato successivamente ma può risalire soltanto a lui. Come ha visto l’esegesi più antica,
proprio la fusione tra la visione del Figlio dell’uomo di Daniele e il Servo di Dio sofferente del
Deutero-Isaia è l’elemento nuovo e specifico dell’idea che Gesù aveva del Figlio
dell’uomo ed è anche il fulcro della sua personale autocoscienza, che si esprime anzitutto
nell’unione con Dio nella preghiera (vedi il capitolo sul Padre nostro) e nell’offerta di sé
secondo la volontà del Padre (pp.369-384).
Questa è la figura di Gesù che, secondo J. Ratzinger, emerge dall’analisi storico-esegetica e al
contempo teologica dei Vangeli sinottici. Gesù stesso è al centro, nella sua dedizione al Padre e
unità con il Padre; egli ci chiama a seguirlo e a fondare su di lui la nostra vita: così troviamo la
salvezza ed entriamo nel regno.
Il Gesù dei Sinottici è dunque assai meno diverso e lontano dal Gesù di
Giovanni di quello che comunemente si pensi. Passiamo ora all’esame della tradizione giovannea. Ratzinger
dedica la prima parte del capitolo sulle grandi immagini giovannee (l’acqua, la vite e il vino, il pane, il
pastore) a una lunga e impegnativa “introduzione alla questione giovannea”. Certo, mentre nel Gesù
dei Sinottici il mistero della sua unità con il Padre, pur essendo sempre presente e determinando tutto,
rimane anche nascosto sotto la sua umanità (in questo senso la cristologia dei Sinottici può dirsi
“implicita”), in Giovanni la divinità di Gesù appare in modo non velato, particolarmente
nelle dispute con le autorità giudaiche, che anticipano il processo di Gesù davanti al Sinedrio, non
menzionato come tale in questo Vangelo. Perciò la ricerca critica moderna ritiene che Giovanni rappresenti una
cristologia molto sviluppata e non possa costituire una fonte per la conoscenza del Gesù storico – fatto
salvo il racconto della passione, oltre a qualche singolo particolare –. E’ certo però, grazie al
ritrovamento di alcuni papiri egiziani, che questo Vangelo fu scritto entro il secolo I, sia pure verso la sua fine.
E’ inoltre ormai insostenibile la tesi di Bultmann di un’origine gnostica dei suoi orientamenti decisivi,
che vanno ricercati invece nell’Antico Testamento e nel giudaismo dell’epoca di Gesù, forse nella
cerchia dell’aristocrazia sacerdotale di Gerusalemme, secondo l’ipotesi formulata da Martin Hengel
(pp.257-261). Quanto alla discussione sull’autore, Ratzinger propende per una soluzione che rimanda
originariamente all’Apostolo Giovanni e poi a Giovanni il Presbitero, che avrebbe avuto una funzione essenziale
nella stesura definitiva del testo e avrebbe sempre considerato se stesso come l’amministratore
dell’eredità ricevuta dall’Apostolo (pp.261-266).
Così si è già compiuto un passo decisivo riguardo all’attendibilità storica del
quarto Vangelo: dietro al testo vi è, in ultima istanza, un testimone oculare e la stessa redazione è
avvenuta nella cerchia dei suoi discepoli, con l’apporto determinante di un discepolo a lui familiare. Alla
tesi che non si tratterebbe di un ricordo “storico” degli avvenimenti passati, bensì di
un’interpretazione nella luce del Paraclito che guida verso la verità, Ratzinger oppone che è
importante la verità di quanto viene ricordato e che questa verità non può lasciare indietro la
dimensione storica: altrimenti si ricadrebbe nello gnosticismo. Certo, i discorsi di Gesù trasmessi in
Giovanni non sono trascrizioni delle sue stesse parole, ma pretendono di trasmettere correttamente
l’autocoscienza di Gesù. In realtà nessuno più di Giovanni ha sottolineato la dimensione
del “veramente accaduto”, di cui egli stesso si pone come “testimone” (cfr 1Gv 1,1-2).
Si tratta di un ricordo molto personale (cfr Gv 19,35), e però non puramente privato: è
“un ricordo nel e con il noi della Chiesa”. E’ inoltre un ricordo da cui emerge il senso dei fatti,
la loro dimensione interiore, quel senso che non fu colto all’inizio ma soltanto in seguito, nella luce della
risurrezione sotto la guida dello Spirito (cfr Gv 2,22; 12,16). Ratzinger sottolinea l’analogia con
ciò che dice Luca sul ricordare della Madre di Gesù (Lc 2,19.51) e nota come qui si esprime
“anche qualcosa di essenziale circa il concetto di ispirazione”, per concludere con chiarezza che
possiamo usare tranquillamente il quarto Vangelo come fonte su Gesù: in esso incontriamo l’autentica
figura di Gesù e i contenuti decisivi del suo messaggio (pp.266-275). Si tratta di una posizione coraggiosa e
oggi controcorrente, ma solidamente argomentata.
Quanto ai contenuti di Giovanni, sono particolarmente importanti per il tema Gesù della storia-Cristo della
fede le pagine dedicate a “Il Figlio” ed a “Io sono”, nel capitolo finale che riguarda le
affermazioni di Gesù su se stesso. Per il titolo “Il Figlio”, senza aggiunte, si precisa che esso
ha una provenienza e un senso molto diversi da quelli di “Figlio di Dio”, derivante dalla teologia
politica dell’antico Oriente e poi ampiamente usato nell’Antico Testamento e applicato a Gesù nel
Nuovo Testamento. L’espressione “Il Figlio” ricorre invece principalmente sulle labbra di
Gesù, frequentemente nel Vangelo di Giovanni e anche nell’esclamazione di giubilo tramandataci da Matteo
11,25-27 e Luca 10,21-22 – un testo giovanneo nella cornice della tradizione sinottica –: “Ti
benedico, o Padre,… perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai
rivelate ai piccoli… Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e
nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”. Viene espressa qui
un’unità profonda del Figlio con il Padre, che riguarda la conoscenza reciproca ma anche la loro
volontà e finalmente il loro stesso essere. Questa esclamazione di giubilo in certo modo contiene già
tutta la teologia giovannea del Figlio, nella quale il Padre è colui che ha dato ogni cosa al Figlio e proprio
così lo ha reso Figlio, uguale a se stesso, mentre l’essere Figlio è conoscenza del Padre e
unità nel volere con il Padre. In realtà il titolo “Il Figlio”, al quale corrisponde
l’appellativo “Abbà”, trova la sua collocazione nella preghiera di Gesù,
diversa dalla nostra in quanto è il dialogo di amore in Dio stesso, quel dialogo che è Dio.
Il “dare” del Padre, inoltre, raggiunge la creazione: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo
Figlio unigenito” (Gv 3,16) e si compie nell’amore del Figlio che ama i suoi fino alla fine
(Gv 13,1). Il mistero trinitario dell’amore che si delinea nel titolo “Il Figlio” è
pertanto una cosa sola con il mistero di amore nella storia che si compie nella Pasqua di Gesù
(pp.384-395).
Da ultimo il libro tratta dell’affermazione “Io sono”, che ricorre in Giovanni sia in una forma
pura e semplice sia unita ad espressioni figurate come “la luce del mondo”, “il pane della
vita” ecc. Significativi sono soprattutto i testi in cui Gesù afferma semplicemente “Io
sono” discutendo con i giudei circa la propria identità e il proprio rapporto con Dio: “Se infatti
non crederete che io sono, morirete nei vostri peccati” (Gv 8,24; cfr 8,28 e 8,58). In questi passi
l’“Io sono” rimanda al celebre racconto del roveto ardente (Es 3,14), con la risposta di Dio
a Mosè che chiedeva il suo nome: “Io sono colui che sono” (cfr anche Is 43,10-11:
“Io, io sono Jahve, fuori di me non v’è salvatore”). Quando Gesù dice
“Io sono”, riprende questo significato e lo riferisce a se stesso: in lui è presente in persona il
mistero dell’unico Dio, egli e il Padre sono una cosa sola (Gv 10,30). Il suo essere è infatti
interamente relazionato al Padre, consiste nel rapporto con il Padre. E questo essere Figlio diventa riconoscibile
sulla croce: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che io sono” (Gv
8,28): nell’“Io sono” di Gesù risiede la nostra salvezza (pp.395-401).
Abbiamo terminato così l’esame del Gesù di Nazaret quanto al Gesù storico e alla
sua identità con il Cristo della fede della Chiesa. Per riassumere il risultato raggiunto può essere
utile un paragone con un tema che questo libro affronta solo “lateralmente”, in funzione dei suoi
obiettivi principali: il tema dei miracoli di Gesù. Sebbene buona parte degli studiosi non sia incline ad
ammettere la possibilità stessa di veri e propri miracoli, man mano che sono progredite le ricerche
storico-critiche si è dovuto giungere alla conclusione che gli eventi ritenuti miracolosi dagli evangelisti,
dalle folle e da Gesù stesso fanno parte del tessuto quotidiano del ministero di Gesù e sono da esso
inseparabili. Analogamente, possiamo sintetizzare il frutto delle analisi di J. Ratzinger affermando che il rapporto
unico di Gesù con il Padre e il suo porsi come colui nel quale si incontra Dio e si viene salvati è il
dato saliente che pervade già la tradizione sinottica e poi quella giovannea, solo alla luce del quale
diventano comprensibili la figura storica di Gesù e poi la realtà del cristianesimo nella storia.
Naturalmente questo primo volume del Gesù di Nazaret, non trattando ancora della passione e della
risurrezione, non può portare queste analisi al loro pieno compimento. Già ottiene però un
risultato fondamentale: nel Gesù “pre-pasquale” troviamo la radice che, attraverso l’evento
della risurrezione, genererà la fede pasquale e raggiungerà la sua formulazione dogmatica
nell’homooúsios (consustanziale) del Concilio di Nicea. Davvero dunque il Gesù terreno
è, identicamente, il Cristo della fede della Chiesa.
L’obiettivo che abbiamo perseguito finora ci ha portato ad un esame parziale e fortemente
selettivo dei capitoli del Gesù di Nazaret. Dedicandoci ora, in maniera più succinta, a
considerare il significato che Gesù ha per noi – dimensione che a J. Ratzinger-Benedetto XVI sta
sommamente a cuore – potremo rimediare, almeno in certa misura, a questa lacuna. Come già accennato,
riguardo a tale significato si possono in qualche modo distinguere due aspetti: la valorizzazione delle ricchezze
spirituali della figura e del messaggio di Gesù e la loro attualizzazione in rapporto alla presente situazione
storica.
Quanto al primo aspetto, è importante anzitutto il capitolo dedicato alla preghiera del Signore. Qui, come in
tutto il libro, viene evidenziato non solo che la preghiera è la dimensione base della vita di Gesù
– aspetto sottolineato soprattutto da Luca – ma anche che egli ci introduce in questo suo rapporto
personale con il Padre, fermo restando naturalmente il carattere singolare e unico che tale rapporto assume in lui.
Il Padre nostro, per la sua profondità e al contempo per la sua “vastità”, che comprende
tutto l’esistere umano, non può essere scandagliato con un’interpretazione meramente storica:
occorre che ognuno di noi si lasci guidare dai grandi oranti di tutti i secoli, e soprattutto faccia personalmente
l’esperienza della preghiera, aprendosi sempre di nuovo alla parola che viene a noi dal Figlio (cfr
pp.162-163). Molto pertinente anche l’osservazione circa la novità della mistica cristiana, che deriva
dalla novità stessa della rivelazione. In Gesù Cristo Dio si è rivelato discendendo, fino alla
morte di croce (cfr Fil 2,6-9): perciò anche la nostra ascesa a Dio e unione mistica con lui può
avvenire soltanto nell’accompagnarlo in questa discesa (pp.120-121). Per la dimensione della preghiera e della
ricchezza spirituale basti aggiungere che essa è presente ed emerge nell’intero libro: specialmente da
questo punto di vista il Gesù di Nazaret di J. Ratzinger assomiglia a un grande classico tra i libri
dedicati a Gesù, Il Signore di Romano Guardini.
L’attualizzazione del messaggio di Gesù viene realizzata sotto vari profili, tutti tra loro intimamente
connessi. E’ bene cominciare dalla “grande domanda” che ricorre più volte nel libro: che
cosa Gesù ha portato veramente nel mondo, se non ha portato la pace, il benessere per tutti, un mondo
migliore? La risposta è molto semplice: Dio, Gesù “ha portato Dio” (pp.67; 143-145), quel
Dio che le genti avevano intravisto sotto molteplici ombre e di cui solo Israele aveva in qualche misura conosciuto
il volto. In Gesù, attraverso la Chiesa famiglia dei suoi discepoli, questo Dio fa conoscere il suo volto ad
ogni uomo, e proprio così ci indica la strada che come uomini dobbiamo prendere in questo mondo. “Solo
la durezza del nostro cuore ci fa ritenere che ciò sia poco”. Di più, portando Dio nel mondo,
Gesù compie il grande esorcismo che libera il mondo dal potere del demonio, e mentre lo libera lo
“razionalizza”, lo sottrae al dominio distruttivo dell’irrazionalità. La storia conferma che
dove giunge la luce di Dio il mondo diventa libero, dove invece questa luce è respinta ritorna la
schiavitù (pp.207-212 e anche 241-242). In realtà solo a partire da Dio si può comprendere
l’uomo e solo se l’uomo vive in rapporto con Dio la sua vita diventa giusta: è questo il senso del
Discorso della montagna, che delinea, nel rovesciamento dei falsi valori, un quadro completo della giusta
umanità (p.157; cfr pp.94-98 e 327).
Una seconda attualizzazione del messaggio di Gesù riguarda l’amore del prossimo. Gia nell’Antico
Testamento alla norma fondamentale della Torah sulla fede nell’unico Dio, dalla quale dipende tutto, si
affianca progressivamente la responsabilità per i poveri, le vedove e gli orfani, fino ad assumere, attraverso
gli sviluppi del profetismo, lo stesso rango dell’adorazione dell’unico Dio. Questa responsabilità
si fonde pertanto con l’immagine di Dio e la definisce in modo molto concreto: l’amore di Dio e
l’amore del prossimo non si possono scindere, “la guida sociale è una guida teologica e la guida
teologica ha carattere sociale”. Gesù, a questo livello, non fa niente di inaudito per gli israeliti:
riprende questo dinamismo dell’Antico Testamento e gli dà la sua forma radicale (pp.154-155) – che
in realtà è anche cristologica: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei
fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40) –. Con la parabola del buon
samaritano egli ci mostra però che non si tratta di stabilire chi sia o non sia il mio prossimo: si tratta
invece di me stesso, io devo diventare prossimo, così l’altro – chiunque altro, universalmente
– conta per me come me stesso. L’attualità della parabola è ovvia. Se l’applichiamo
alle dimensioni della società globalizzata, le popolazioni derubate e saccheggiate dell’Africa – e
non solo dell’Africa – ci riguardano da vicino e ci chiamano in causa da un duplice punto di vista:
perché con la nostra vicenda storica, con il nostro stile di vita, abbiamo contribuito e tuttora contribuiamo
a spogliarle e perché, invece di dare loro Dio, il Dio vicino a noi in Gesù Cristo, abbiamo portato
loro il cinismo di un mondo senza Dio (pp.234-236).
La critica di Nietzsche alla “morale del cristianesimo”, con la quale egli intende proprio
l’orientamento di vita indicato dal Discorso della montagna e dalle Beatitudini e che egli accusa di essere
“crimine capitale contro la vita”, quasi fosse una morale ostile alla gioia, una religione
dell’invidia e del risentimento, ha inciso profondamente sulla coscienza moderna e determina in gran parte il
modo in cui oggi si percepisce la vita. Ma le esperienze dei regimi totalitari, e anche l’abuso del potere
economico, che degrada l’uomo a merce, cominciano a farci di nuovo comprendere meglio il senso delle
Beatitudini: esse certo si contrappongono al nostro gusto spontaneo per la vita, esigono conversione, cioè
un’inversione di marcia interiore rispetto alla direzione che prenderemmo spontaneamente. Ma questa conversione
fa venire alla luce ciò che è puro, ciò che è più elevato, e dispone la nostra
esistenza nel modo giusto. In una parola, la vera “morale” del cristianesimo è l’amore, e
questo si oppone all’egoismo, è un esodo da noi stessi, ma proprio in questo modo l’uomo trova se
stesso. Attraverso questo “sentiero di alta montagna” si dischiude a noi la ricchezza della vita, la
grandezza della vocazione dell’uomo (pp.122-125).
Una terza attualizzazione del messaggio di Gesù prende spunto dalla critica del rabbino Neusner, e di molti
altri, secondo la quale nessun ordine sociale potrebbe essere fondato sul Discorso della montagna (p.141). Questo
è certamente vero nel senso che nella nuova e universalistica “famiglia di Gesù” le forme
giuridiche e sociali concrete e gli ordinamenti politici non sono più, e non possono più essere,
fissati come diritto sacrale per tutti i tempi e per tutti i popoli. Decisiva diventa la fondamentale comunione di
volontà con Dio donata a noi per mezzo di Gesù: a partire da essa gli uomini e i popoli sono ora liberi
di riconoscere che cosa, nell’ordinamento sociale e politico, corrisponda a questa comunione di volontà,
per dare poi essi stessi forma agli ordinamenti giuridici. La mancanza di concreti ordinamenti sociali
nell’annuncio di Gesù racchiude dunque – e al tempo stesso nasconde – un processo che
riguarda la storia universale, e che ha avuto luogo soltanto in ambito culturale cristiano: gli ordinamenti politici
e sociali concreti vengono liberati dall’immediata sacralità – da una legislazione basata
direttamente sul diritto divino – e affidati alla libertà dell’uomo che, attraverso Gesù,
è radicata nella volontà del Padre e partendo da lui impara a discernere il giusto e il bene.
Questo fondamentale processo è stato compreso in tutta la sua portata solo nell’età moderna, ma
poi è stato subito interpretato unilateralmente e falsato. La libertà dell’uomo, infatti,
è stata interamente sottratta allo sguardo di Dio e alla comunione con Gesù. La libertà per
l’universalità, e quindi la giusta laicità dello Stato, si è trasformata in qualcosa di
assolutamente profano, in “laicismo”, per il quale l’oblio di Dio e l’esclusivo orientamento
verso il successo sembrano diventati elementi costitutivi. Ma così la ragione dell’uomo perde il suo
punto di riferimento, corre sempre il pericolo dell’offuscamento e della cecità (pp.145-147).
In realtà, già all’interno della Torah si può scorgere un dialogo continuo tra
norme condizionate dalla storia e “metanorme” che esprimono quanto è richiesto perennemente
dall’alleanza con Dio (cioè, come si è visto, l’adorazione dell’unico Dio e la
responsabilità per il prossimo in condizioni di bisogno e debolezza). Gesù si muove su questa stessa
linea, “dinamizzandola” ulteriormente: non formula un ordine sociale, ma sicuramente premette agli
ordinamenti sociali i criteri fondamentali che, tuttavia, come tali non possono trovare piena realizzazione in alcun
ordine sociale. Anche oggi la cristianità deve continuamente rielaborare, riformulare e correggere gli
ordinamenti sociali – una “dottrina sociale cristiana” – di fronte ai nuovi sviluppi e
può trovare nel messaggio di Gesù, radicato nella Torah e nella sua evoluzione mediante la
critica dei profeti, sia l’ampiezza richiesta per i necessari sviluppi storici sia la base stabile che
garantisce la dignità dell’uomo a partire dalla dignità di Dio (pp.154-156).
Questa relazione ha più che altro lo scopo di invitare alla lettura del libro Gesù di Nazaret e
di aiutare a “far sintesi” chi lo abbia già letto. Termino con una considerazione più
personale, che riguarda i rapporti tra la nostra conoscenza di Gesù e la nostra conoscenza di Dio. Nella
relazione dello scorso anno, dedicata alle strutture del pensiero di Benedetto XVI, osservavo che, in concreto, la
via che conduce a Dio è Gesù Cristo: soltanto in lui infatti possiamo conoscere il volto di Dio, il suo
atteggiamento verso di noi e il mistero della sua vita intima, e soltanto nella croce del Figlio –
manifestazione radicale ed estrema dell’amore di Dio per noi – può trovare una risposta,
misteriosa ma convincente, il problema del male e della sofferenza, che è la fonte del dubbio più grave
circa l’esistenza di Dio. Vorrei ora percorrere, per così dire, la strada inversa, mostrando che per
conoscere davvero Gesù Cristo è necessario fare spazio a Dio. Se infatti Dio non c’è, o
comunque non può agire nella storia e manifestarsi personalmente a noi, il Gesù dei Vangeli, in
concreto il Gesù reale e storico, perde consistenza e svanisce inevitabilmente: non solo non potrebbe aver
operato dei miracoli e tanto meno essere risorto dai morti, ma il suo stesso rapporto intimo, anzi unico con Dio e il
suo porsi come colui nel quale si incontra Dio potrebbero essere al massimo una nobile illusione. Nascono da qui le
difficoltà maggiori e più profonde della moderna esegesi storico-critica, che in larga parte è
prigioniera del dogma fondamentale della cosiddetta visione moderna del mondo, secondo il quale Dio non può
affatto agire nella storia. Perciò, come osserva Ratzinger (pp.58-60), la disputa sull’interpretazione
della Bibbia, e in particolare sulla figura di Gesù, è in ultima istanza una discussione su Dio.
Reciprocamente, come notavamo lo scorso anno, la discussione riguardo a Dio si decide concretamente a proposito di
Gesù Cristo.
Non vi è in ciò alcun circolo vizioso, ma il riconoscimento che le due questioni, di Gesù e di
Dio, in concreto sono inseparabili e rimandano l’una all’altra, pur avendo ambiti e procedimenti
distinti. Entrambe inoltre, come è emerso sia dalla relazione di oggi sia da quella dell’anno scorso,
mettono in gioco noi stessi, la nostra libertà e l’atteggiamento che assumiamo, di autosufficienza o
invece di apertura umile (cfr Mt 11,25: “Ti benedico, o Padre,… perché hai tenuto nascoste
queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli”). Per noi, testimoni e annunciatori
di Gesù e del Padre nella luce dello Spirito, si pongono dunque, con una forza e urgenza oggi particolarmente
grandi, la necessità, il compito e anzitutto il dono di rendere ragione a tutti della speranza che è in
noi, simultaneamente riguardo a Dio e a Gesù Cristo, e di cercare di essere anche intellettualmente e
culturalmente idonei a un tale compito.