Una introduzione alla Deus Caritas est per i giovani di Roma: l'unità dell'amore nella creazione e nella storia della salvezza
di S.E.mons.Rino Fisichella

Ripresentiamo on-line la riflessione che S.E.mons.Rino Fisichella ha tenuto per i giovani della Diocesi di Roma il 29 novembre 2006 come meditazione introduttiva alla Lettera Enciclica del Papa Benedetto XVI, Deus Caritas est. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line del testo.

Il Centro culturale Gli scritti (13.12.2006)


Il mistero richiede intelligenza

"L'arte delle arti è l'arte dell'amore. La natura stessa e Dio artefice della natura ne hanno riservato a sé l'insegnamento. Perché l'amore, che è suscitato dal Creatore della natura, se la sua purezza naturale non è intorbidata da affetti estranei, insegna se stesso: ma solo a quanti si lasciano ammaestrare da lui, ammaestrare da Dio. L'amore, infatti, è una forza dell'anima, che la conduce come per un peso naturale al luogo e al fine che le è proprio. Sì: ogni creatura, sia spirituale che corporea, ha un luogo ben preciso cui è naturalmente condotta e un certo qual peso naturale da cui è condotta"[1].

Il testo con cui introduciamo alcune riflessione sull'amore, come un pallido commento all'enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est, appartiene a Guglielmo di St Thierry (Liegi 1085-Signy 1148). Monaco benedettino diventa abate di St Thierry nei pressi di Reims; è contemporaneo di Abelardo, ma è meno conosciuto di lui, nonostante diverse sue opere siano dedicate all'amore.

Il pensiero di questo monaco è centrato sul tema della fede e dell'amore come le due forme mediante le quali si conosce il mistero di Dio, il mistero dell'uomo e la sua vocazione a una vita di comunione con il Padre. Sostiene il St Thierry che vi sono delle tappe, delle "età" che permettono di verificare il proprio cammino di fede e amore e quando questo giunge al suo compimento allora non si vive più solamente con Dio, ma si vive come Dio. Forse, proprio per questa sua concezione e per il lungo cammino spirituale che aveva compiuto, l'abate quattro anni prima della morte lasciò la carica che ricopriva e si rinchiuse nella certosa in una piena solitudine, dedito solo alla preghiera e allo studio da cui scaturì anche Natura e grandezza dell'amore a cui appartiene il testo iniziale.

Siamo partiti da questo, perché ritroviamo la sintesi del tema che ci è stato affidato per questa catechesi: l'amore naturale non è contrapposto a quello spirituale, né l'amore per la creatura deve oscurare quello per Dio; al contrario. Se si pone ascolto alla natura e a Dio si scoprirà che l'amore è unico, e la fonte è solo quella di colui che ama e ha impresso questo amore nel cuore di ogni creatura fatta a sua immagine e somiglianza.

D'altronde una delle peculiarità che Benedetto XVI espone nella sua enciclica è proprio questa: eros e agape non sono in contrapposizione, ma uno si muove verso l'altro per permettere di cogliere la grandezza del mistero che ognuno porta impresso in sé ma che è necessario cogliere come dono gratuito e non come conquista e possesso[2]. L'amore –ci ricorda l'abate di St Tierry- è "arte", "forza", ha uno "scopo" e un "fine", ma per cogliere la pienezza del suo significato non è possibile fermarsi al sentimento; esso richiede che ci si ponga in "ascolto" e si abbia il desiderio di essere "ammaestrati" da lui.

Per comprendere l'amore, insomma, bisogna amare; ma per amare è necessario scegliere di abbandonarsi liberamente al mistero che l'amore significa senza trattenerlo nelle secche della nostra determinazione. Bisogna lasciarsi condurre da lui e non fissare noi la meta; il suo fine gli è connaturale con il suo stesso essere e non possiamo essere noi, quindi, a estraniarlo da se stesso orientandolo verso altre mete che rischiano di distruggerlo.

Per cogliere l'amore, pertanto, è necessario avere un'intelligenza più profonda della sua verità. Non ci è permesso fermarci al sentimento, che lo trattiene in sé per poco; è necessario preparare il terreno perché si esprima con il suo stesso linguaggio, insegnando a noi come coglierlo, comprenderlo e viverlo[3]. Con ragione poteva sostenere sant’Agostino: "Amare altro non è che desiderare una cosa per se stessa… l'amore è uno slancio, ma non c'è slancio se non verso qualcosa. Quando cerchiamo che cosa sia da amare, cerchiamo quale sia l'oggetto verso cui conviene muoversi. Pertanto bisogna amare l'amore… Che cosa deve dunque amare l'amore se non ciò che non può venire a mancare finché si ama? Questa cosa non è altro che l'identità di avere e conoscere. Chi non ama non possiede ciò che si deve amare!"[4].

Un ulteriore brano del nostro abate di St Thierry, seguace di sant’ Agostino, ci riporta a questa ulteriore considerazione: "La vista, naturale luce dell'anima per la visione di Dio, è la carità. In questa vista due sono gli occhi, sempre palpitanti in una sorte di tensione naturale verso la visione della luce che è Dio: l'amore e la ragione. Se uno dei due opera senza l'altro non avanza di molto. Invece possono molto se si soccorrono a vicenda, se diventano un solo occhio… Ed essi si affaticano grandemente ciascuno a suo modo, per il fatto che uno dei due, la ragione, non può vedere Dio se non in ciò che egli non è, mentre l'amore non acconsente a riposare se non in ciò che egli è. Cosa c'è infatti che con tutti i suoi sforzi la ragione possa comprendere o trovare, di cui osi dire: questo è il mio Dio? Può trovare ciò che è unicamente nella misura in cui trova ciò che non è. La ragione ha certi suoi cammini sicuri, sentieri diritti sui quali procede; l'amore per contro avanza di più grazie a ciò che ha smarrito, apprende di più per la sua ignoranza. La ragione sembra avanzare verso ciò che è passando attraverso ciò che non è; l'amore si rallegra di smarrirsi in ciò che è, lasciando da parte ciò che non è. La ragione possiede una maggior sobrietà, l'amore conosce una maggior beatitudine. Ma se, come ho detto, si soccorrono a vicenda, se la ragione istruisce l'amore e l'amore illumina la ragione, se la ragione si converte in amore e l'amore acconsente a lasciarsi trattenere entro i confini della ragione, allora possono fare qualcosa di grande"[5].

Amare come una creatura

E' importante, da parte nostra, a questo punto, entrare all'interno del mistero dell'amore non solo per comprendere se davvero siamo capaci di amare, ma soprattutto per verificare in quale modo l'amore si esprime e come vuole porci alla sua sequela per imprimere in noi la vera felicità che non conosce tramonto.

Il nostro punto di partenza, sarà l'analisi dell'amore creato, quello che il Creatore ha impresso in ognuno; è questo il punto fondamentale per accedere alla comprensione dell'amore rivelato da Gesù Cristo, espressione culminante dell'amore che siamo chiamati a fare nostro.
La conosciuta pagina della Genesi viene in aiuto per entrare nel merito e descrivere alcune note fondamentali di questo amore [6].

L’autore sacro narra della tristezza di Adamo, dopo la sua creazione, per lo stato di solitudine in cui versava. A nulla servì la sua superiorità sugli animali; il fatto che Dio li conducesse a lui per sottometterli alla sua forza e ricevere da lui il nome, che sarebbe rimasto per sempre, non toglieva ad Adamo il desiderio di avere qualcuno con cui dialogare.

Dio allora fece scendere su di lui il sonno e dal suo costato creò Eva, la madre di tutti i viventi. Al suo risveglio, Adamo scoprì qualcosa che prima gli era impossibile; finalmente davanti a sé aveva la donna, carne della sua carne e osso delle sue ossa (Gen 2,23). Di fronte a Eva, Adamo capisce chi è; la scoperta della sua identità non è in un riferimento estraneo alla sua natura, ma conforme a ciò che egli ha scoperto in se stesso. Eva diventa la risposta al desiderio di Adamo di non voler restare solo.

Dio non ha creato l’uomo per la solitudine, ma per la relazione perché nella scoperta dell’altro rinvenisse il senso più profondo di sé. Non riuscirò mai a comprendere fino in fondo i versi del poeta Rainer Maria Rilke quando dice: "Amare è, per lungo spazio e ampio fino entro il cuore della vita, solitudine, più intensa e approfondita solitudine per colui che ama"[7]. Il cerchio di solitudine si spezza, Adamo inizia a parlare e nel comprendere se stesso in relazione con Eva sa che non potrà mai dominarla, perché anch’essa è creatura uscita direttamente dalle mani di Dio.

Plasticamente, il testo sacro dice che Adamo non dà il nome a Eva; questo è riservato a Dio, come per Adamo. Questi arriverà a chiamarla solo “donna”, madre di tutti i viventi. L’uguaglianza tra i due si fonda nell’atto creativo di Dio che in ambedue pone l’immagine e la somiglianza con sé. Eva e Adamo diventano l’uno per l’altro dono di Dio; per questo i due capiscono che la loro esistenza sarà composta in un'unità tale da formare “una sola carne”. È richiesto loro di lasciare il padre e la madre per creare una nuova realtà che appare ai loro occhi come forma di vita creata esclusivamente per loro.

Non c’è ripetizione alcuna in ciò che dovranno essere; il progetto di Dio su ognuno di loro singolarmente e nell’unità della carne è un progetto di salvezza che li porta a un futuro carico di senso.
Ciò che balza evidente in questa pagina oltre al fatto del dono è, anzitutto, l'incontro tra l'uomo e la donna. L'amore nasce da un incontro; esso si arricchisce nella misura in cui questo momento permane come l'espressione fondante della relazione.

E' facile immaginare lo sguardo di Adamo ed Eva: è lo stesso, immutato sguardo che dura fino ad oggi. Gli occhi si fissano, uno cerca nell'altra il mistero della propria vita. Ognuno di loro comprende che chi gli sta dinanzi è veramente la persona che cercava da sempre. L'attimo con il quale lo sguardo coglie la profondità dell'altro e percepisce che lo ama ha in sé la duplice connotazione. E', anzitutto, un atto che coinvolge il cuore, perché esso sa, ha la certezza che sta amando.

E', comunque, anche un atto in cui la ragione non è esclusa; se ne fa, infatti, una ragione per spiegare a se stesso che la persona amata è ormai parte della sua vita, è compimento di un cammino che pone fine alla solitudine. Diceva Pascal: "Il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce". E' profondamente vero; sono le ragioni del cuore, ma pur sempre "ragioni" che devono essere offerte alla ragione perché dia successivamente sostegno all'emozione del cuore.

Una terza nota caratteristica di questo amore è il rispetto. Non ci sarebbe amore se l'uno non guardasse in profondità la necessità dell'altro e non esprimesse il suo impegno perché il bene della persona amata possa essere raggiunto. Come dice la semantica latina respicere indica un "rivolgersi" verso la persona per "guardarla", per "prendersi cura", per "darsi pensiero", per "desiderarla"… insomma, per guardare nel suo intimo e vedere di cosa ha veramente bisogno. Non una necessità passeggera, ma il suo vero bene, ciò che le permette di essere veramente se stessa, di raggiungere il suo fine e il suo scopo. L'amore si trasforma in una ricerca del bene per la persona amata.

In questo senso, Benedetto XVI nella sua enciclica Deus Caritas est scrive pensieri facilmente condivisibili da tutti: "La scoperta dell'amore diventa ora scoperta dell'altro, superando il carattere egoistico prima chiaramente dominante. Adesso l'amore diventa cura dell'altro e per l'altro. Non cerca più se stesso, l'immersione nell'ebrezza della felicità, cerca invece il bene dell'amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca" (Dce 6).

In questo orizzonte possiamo rileggere il bel brano di Paolo agli Efesini, là dove descrive l'amore tra il marito e la moglie. Mentre al marito viene chiesto di amare la propria moglie come se stesso, alla donna l’apostolo chiede di “rispettare” il proprio marito. A prima vista, potrebbe sembrare un’umiliazione della sposa, mentre nulla è più distante dal pensiero di Paolo in una simile interpretazione. Alla sposa è chiesto di saper guardare in profondità, perché possa compiere sempre ciò che è il bene del proprio sposo.

In altre parole, si è dinanzi a un’ulteriore esplicitazione dell’amore; esso non è solo donazione dell'uno verso l'altra, ma anche ricerca sincera di tutto ciò che permette il bene e la realizzazione della persona amata. È il richiamo all’attenzione perenne che si ha verso la persona amata, perché mai sia sottratta alla sfera di un progresso reale per la sua vita e, quindi, nella realizzazione di sé.

Una simile presentazione, comunque, non può cedere alla poesia. Deve essere capace anche di guardare in faccia alla realtà, per triste che sia. La pagina della Genesi continua il suo racconto, mostrando immediatamente che questo amore porta con sé anche il limite. Esso si manifesta nella mancanza di responsabilità per l'altro e nel tradimento. Davanti all'albero della vita, del bene e del male, Eva si lascia incantare dal serpente e ne mangia il frutto, offrendolo anche ad Adamo.

Il desiderio di sapere non è tolto all'uomo e non è questo il significato del testo; ciò che viene compiuto è la disobbedienza per l'arroganza di porsi al posto del creatore. Quando l'amore guarda solo a se stesso tende ad escludere per rinchiudere nella vera solitudine del possesso individualistico. La conseguenza è immediata: davanti alla richiesta di spiegazioni, Adamo incolpa subito Eva e questa, a sua volta, il serpente.

Ci sono due tratti in questa scena che meritano la nostra attenzione: da una parte, Adamo ed Eva non assumono la responsabilità nei confronti del proprio atto; dall'altra, ognuno tende a salvarsi per sé senza comprendere che quando si ama si assume in sé la colpa dell'altro. Questa dimensione diventa ben evidente se si considera che Gesù, l'innocente, si lascia inchiodare sull'albero della croce, assumendo in sé il peccato dell'umanità.

In questo atto si vede l'originalità e la profondità dell'amore cristiano; dalla croce, nuovo albero davanti a cui si deve scegliere se essere obbedienti o meno, scaturisce la vera vita perché lì l'amore si rende evidente come offerta gratuita e puro dono che non chiede il contraccambio.

A partire da qui, la storia sembra diventare quasi il teatro su cui il tradimento sembra emergere come l'espressione più comune. Caino metterà a morte il fratello Abele e si aprirà una lunga serie di omicidi che perdura intatta fino ai nostri giorni. Il desiderio di possedere e di emergere offuscano la capacità di potersi donare e ne scaturisce la forma omicida del tradimento. L'amore, cioè passa nelle mani di un altro, lo si consegna a uno sconosciuto e si perde la fedeltà. La fides, come fiducia si spezza, perché il tradimento non sopporta la sincerità e fugge da ogni forma di impegno. La tristezza prende il sopravvento e ti impedisce di continuare a sperare.

Questa prospettiva dell'amore creato come ci viene presentato dal libro della Genesi, comunque, ha già un senso più completo di quanto gli antichi filosofi andavano descrivendo. Potremmo ritornare con la mente al mito antico con il quale si cercava di spiegare l'origine dell'amore tra gli uomini. Le riflessioni più significative dell’antichità sul tema dell’amore risalgono certamente a Platone e Aristotele; fino ad oggi, quelle pagine costituiscono un punto di riferimento imprescindibile per chi volesse comprendere la genesi del concetto e il suo sviluppo filosofico.

Certamente, non sono stati loro i primi a parlare dell’amore; Empedocle ed Esiodo, già tempo prima, avevano lasciato pensieri memorabili circa il binomio amore-odio; alcuni dei loro pensieri mostrano quanto Eros fosse il vero dominatore del cuore e della saggezza umana e divina, mentre l’odio da parte sua sembrava regnare, assoggettando le genti alla violenza. È fuori dubbio, comunque, che va a Platone il merito di avere percepito il meglio della saggezza greca riguardo a questo tema. Sono ben noti i tre dialoghi dove il filosofo tratta dell’amore: Liside, Simposio e Fedro costituiscono una triade importante per accedere a una corretta interpretazione del suo pensiero.

Una visione sintetica la si può ritrovare facilmente nel Simposio, nel famoso discorso di Socrate, dove si lascia trasparire che l’amore svolge nello stesso tempo una funzione mediatrice e di sintesi. Esso partecipa del buono e del male, della bellezza e della bruttezza, della saggezza e dell’ignoranza, della mortalità e dell’immortalità. In una parola, Amore è un demone, qualcosa che sta appunto in mezzo alle coppie di contrari.

Riprendere tra le mani il racconto del mito permette di cogliere più facilmente la tesi del filosofo: “Quando nacque Afrodite gli dei tennero un banchetto e fra gli altri, vi partecipò anche Poro (Espediente), figlio di Metidea (Sagacia). Ora, quando ebbero finito, arrivò Penia (Povertà) che si teneva vicino alla porta per mendicare qualcosa, visto che vi era stata gran festa. Poro, intanto, ubriaco di nettare, inoltratosi nel giardino di Giove, si addormentò sotto il peso del bere. A quel punto Penia, meditando se contro le sue miserie le sarebbe riuscito di avere un figlio da Poro, gli si sdraiò accanto e rimase incinta di Amore. Proprio così, Amore divenne compagno e seguace di Afrodite, perché fu concepito nel giorno della sua nascita; ecco perché per sua natura è amante del bello, in quanto anche Afrodite è bella. Dunque, come figlio di Poro e di Penia, ad Amore è capitato questo destino: anzitutto è sempre povero e, conforme alla natura della madre, ha sempre la miseria in casa. Ma da parte di padre è coraggioso, audace e risoluto, intento tutta la vita a filosofare”[8].

Nel suo coraggio, l’amore greco ha sempre bisogno di qualcosa che gli manca; sarà di volta in volta la bellezza, la bontà o la sapienza. Insomma, per usare le parole di Platone, amore è “desiderio di possedere il bene per sempre”[9], è tensione verso l’immortalità perché si scopre sempre legato alla povertà di questo mondo che è il suo stesso limite.

Farà da eco a questa concezione, Aristotele nella sua Etica Nicomachea dove si delineano i tre gradi dell’amicizia; quanto emerge è lo stretto legame che intercorre tra l’amore, la giustizia e la solidarietà[10]. La saggezza greca aveva posto le basi per identificare la grandezza e il limite dell’amore naturale; era necessaria la sapienza della rivelazione biblica per sviluppare e finalizzare il concetto verso un suo compimento definitivo, oltre la contraddizione personale, per renderlo universale.

Amare da credente

In questo orizzonte è possibile compiere un passo ulteriore e entrare così nel merito della concezione cristiana dell'amore. Non si sbaglia ritenendo che davanti alla domanda: “Cos’è l’amore?”, la risposta più diretta da parte di tutti sia: “Dare tutto se stesso, dare la vita per la persona amata”. Risposta certamente coerente anche se incompleta. Se da una parte, infatti, evidenzia il dramma della sua verità: quello di offrire la propria vita; dall'altra mostra non solo il lungo cammino che si è chiamati a percorrere per verificare la propria coerenza, ma soprattutto che questo amore deve essere "per sempre". Se non si aggiunge questa piccola condizione del "per sempre", l'amore rimane sotteso a qualcosa di provvisorio e non permette di avere certezza su cui stabilire il rapporto di reciprocità.

Amare come equivalente del "dare la vita" e del "per sempre", proviene dalla rivelazione di Gesù Cristo che ha offerto la sua vita per tutti gli uomini, morendo in croce una volta per tutte e, proprio per questo il suo atto permane unico e permanente nella storia. Quanto questa concezione sia unica e originale lo mostra l'attenta lettura del Nuovo Testamento. La rivelazione cristiana trova il suo punto culminante nell’espressione: “Dio è amore” (1Gv 4,8.10).

Per la prima e unica volta in tutta la sacra Scrittura, l'autore sacro sembra voler dare una definizione di Dio che non lasci spazio ad altre ulteriori formule. Diverse di queste sono facilmente riscontrabili nei vari testi del Nuovo Testamento; espressioni quali: “Io sono la luce” (Gv 9,5), “Io sono la verità” (Gv 14,6), “Io sono la vita” (Gv 11,25), portano con sé delle caratteristiche proprie di Dio. In questo caso, tuttavia, l’autore sacro intende fissare lo sguardo direttamente sulla natura stessa di Dio, sulla sua essenza, su ciò che lo qualifica come Dio. Un’analisi dettagliata mostrerebbe il profondo intento rivelativo che l’espressione possiede e la grande valenza significativa che vi è sottesa. Un rapido sguardo al testo, comunque, permette di introdursi più facilmente al suo contenuto.

Tutta la prima lettera di s. Giovanni sembra tendere a questo versetto e, per paradossale che possa sembrare, l’intero Nuovo Testamento assume una luce nuova a partire da questa espressione: «Dio è amore... e in questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi». Per due volte in brevissimo spazio (vv 8.10), l’evangelista ripete: “Dio è amore” e pone questo come fondamento dell’esistenza personale di ognuno; aggiunge, infatti: “Chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio” (v. 7).

L’essenza del Dio di Gesù Cristo, quindi, consiste nell’essere amore. Chi si apre ad esso e si lascia plasmare, riceve una vita nuova, quella che permette di essere generati da Dio, di entrare in relazione con lui e vivere della sua stessa vita. Questa vita di comunione, comunque, non è unidirezionale da Dio verso l’uomo; l’evangelista attesta che l’amore si sviluppa in una reale forma di reciprocità: “Dio è amore e chi rimane nell'amore rimane in Dio e Dio in rimane lui” (v. 16). Come dire: chi è amato da Dio diventa capace, a sua volta, di amarlo e di corrispondere al suo amore con quel germe di vita nuovo deposto in lui a motivo della fede.

L’evangelista, comunque, non si ferma a definire l’essenza di Dio; egli permette di compiere un passo ulteriore identificando anche la maniera con cui Dio ama. Se Dio è amore, infatti, ciò significa che ama; ma come ama Dio lo può rendere manifesto solo Dio. Ne deriva che il suo modo di amare diventa non solo il vero archetipo di ogni amore, ma anche il paradigma su cui coniugare ogni amore che voglia essere degno di questo nome. Viene ancora una volta in aiuto l’evangelista Giovanni quando nel suo vangelo indica esplicitamente questo modo di amare: “Dio infatti ha così amato il mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16).

Questo versetto rappresenta un testo chiave di tutto il Nuovo Testamento. Se si considera il suo contesto immediato, si nota che Gesù, rispondendo all’obiezione di Nicodemo sulla possibilità di rinascere di nuovo, dice: “Nessuno è salito al cielo se non il figlio dell’uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto così è necessario che il figlio dell’uomo sia innalzato da terra perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (3,13-15).

L’immagine del serpente innalzato da Mosè nel deserto dopo il tradimento del popolo, è assunto da Gesù per spiegare il senso della sua morte. Egli dovrà essere “innalzato” sulla croce perché attraverso la sua morte, la salvezza promessa potrà essere finalmente realizzata. In questo contesto, il senso del nostro versetto acquista il valore di spiegazione (è introdotto da un “infatti”) e, soprattutto, diventa più chiaro il significato del verbo “dare” il Figlio da parte del Padre.

Una particolarità sintattica permette di interpretare l’uso del verbo “dare” (edwken) in modo assoluto; vale a dire: dare tutto in maniera piena e totale[11]. Potremmo tradurre letteralmente il testo facendone emergere il senso sottostante: Dio ama in questo modo: mandando a morte il suo unico figlio! Come si nota, il senso del verbo “dare” possiede una totalità di donazione che non conosce confronto; l’incarnazione del Figlio, la sua attività terrena, la passione e la morte, tutto è un dono con il quale il Padre rivela il suo modo di amare. Insomma, Dio sa amare solo così: dando tutto se stesso, senza nulla chiedere in contraccambio. Una modalità di amore unica che solo Dio poteva porre nel mondo, dando così inizio a una nuova espressività dell’amore tra gli uomini.

“Dio è amore”, comunque, permette di accedere ad un’ulteriore novità che costituisce il paradosso della fede cristiana. L’amore di Dio, infatti, non è un’idea astratta né un sentimento più o meno generico; esso si incarna in una persona che lo rende evidente in tutta la sua vita e nella sua morte. L’amore ha un volto: Gesù di Nazareth. È in forza di questa identificazione che si possono comprendere alcune espressioni di Gesù che, altrimenti, risuonerebbero come offensive nei confronti degli uomini per la loro tracotanza e la superbia che rivestono: “Il Padre vi ama, perché voi mi amate” (Gv 16, 27), “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13, 34).

Amatevi come io vi ho amato… Se queste parole sono state conservate nel corso dei secoli e sono state accolte come cariche di senso è perché ognuno vede in quell’uomo Dio stesso; non potrebbe essere altrimenti. Questo amore si esprime in primo luogo con i tratti dell'amicizia. C'è un amore dell'amicizia che è profondo, che è vero amore e che abilita e prepara a un amore ancora più profondo nella donazione unica di sé.

Questo amore (φιλία) è ciò che permette a Gesù di chiamare i suoi discepoli "miei amici" e non più "servi"; si realizza un amore di condivisione dei propri progetti e delle proprie ansie, dei desideri e delle paure, dei segreti e dei sentimenti più profondi mediante i quali ognuno si sente compreso immediatamente, senza aver bisogno di parlare e nell'amico trova la fiducia che lo sostiene nel cammino della vita per andare oltre la solitudine imposta dall'egoismo.

L'amore più grande, comunque, nella sua espressione culminante diventa evidente nella morte di Gesù; qui infatti, Dio rivela il suo modo di donarsi. Fuori da questo orizzonte, la morte risulterebbe un atto di violenza contro un innocente; potrebbe al massimo suscitare compassione, ma non verrebbe mai assunta come normativa per gli uomini che chiedono di dare senso alla contraddizione della morte. È la rivelazione che presenta la passione e la morte di Gesù come la forma ultima dell’amore di Dio nella sua volontà di salvare l’umanità. Questa permane come il paradosso insostituibile della rivelazione cristiana contro cui ogni pensiero va a scontrarsi se non accoglie in sé la logica dell’amore.

Per comprendere questo mistero dobbiamo lasciarci condurre dalla sapienza dei santi e di quanti hanno avuto il dono di entrare in profondità per la loro semplicità di vita (cfr Lc 10,21). Giuliana da Norvich. Questa donna, poco più che trentenne, “semplice e illetterata”, colpita da grave malattia che la condusse in fin di vita, nel corso di una settimana, ricevette 16 visioni che rivelavano il senso dell’amore di Cristo. Nelle sue parole ritroviamo l’originalità e la profondità del mistero: “Dal primo momento in cui ebbi queste rivelazioni, spesso desiderai sapere che cosa intendesse nostro Signore. Più di quindici anni dopo, mi fu data in risposta una comprensione spirituale e mi fu detto: Bene, vorresti sapere, dunque, cosa ha inteso il tuo Signore e conoscere il senso di questa rivelazione? Sappilo bene: amore è ciò che lui ha inteso. Chi te lo rivela? L’amore. Che cosa ti rivela? Amore. Perché te lo rivela? Per amore. Rimani salda nell’amore e lo conoscerai sempre più a fondo. Ma in lui non conoscerai mai cose diverse da questa, per l’eternità... Così imparai che nostro Signore significa amore. E io vidi, con assoluta certezza in questa visione e in tutto il resto, che Dio, prima ancora di crearci, ci ha amati di un amore che non è mai venuto meno né mai svanirà. E in questo amore egli ha fatto tutte le sue opere; e in questo amore ha fatto in modo che tutte le cose risultino utili per noi, e in questo amore la nostra vita dura per sempre. Nella nostra creazione abbiamo avuto un inizio, ma l’amore nel quale ci ha creati era in lui da sempre, senza principio. In questo amore noi abbiamo il nostro principio e tutto questo noi lo vedremo in Dio, senza fine”. Allora il nostro buon Signore mi domando: “Sei contenta che io abbia sofferto per te?” Io dissi: “Sì, buon Signore, e ti ringrazio moltissimo; sì, buon Signore, possa tu essere benedetto”. Allora Gesù disse: “Se tu sei appagata, io sono contento. L’aver sofferto la passione per te è per me una gioia, una felicità, un gaudio eterno; e se potessi soffrire di più lo farei... E in queste parole “se potessi soffrire di più lo farei”, io vidi veramente che tutte le volte che potrebbe morire, egli morirebbe e l’amore non lo lascerebbe mai tranquillo fino a che non lo avesse fatto... Nel nome di questo amore egli disse con molta dolcezza queste parole “se potessi soffrire di più, soffrirei di più”. Egli non disse: “Se fosse necessario soffrire di più”, ma “Se io potessi soffrire di più”, perché anche se non fosse necessario, ed egli potesse soffrire di più, lo farebbe”[12].

Alla luce di questo brano, si comprende meglio la parola di Gesù: “Tutto ciò che è tuo è mio” (Gv 17,10); il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono Amore di totale autodonazione come positiva forma dell’amore che nella libertà accoglie senza pretendere di voler essere l’altro. In quanto questo amore è “infondato”, cioè senza motivo, e solo frutto di sé nella libertà della donazione, esso possiede il suo senso plausibile e la sua credibilità piena[13], soprattutto perché si rivela come un amore che non è offerto solo a una cerchia di amici né a quanti erano nel giusto, ma è donato per coloro che rifiutano l’amore e ne negano l’esistenza.

Il testo di Paolo, possiede in questo contesto tutta la sua valenza di drammaticità: “Infatti mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempio stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.”(Rm 5, 6-8). Questo amore, che non può essere misurato da niente e nessuno se non dall’amore del Padre, permane come l’intima essenza del Dio rivelato da Gesù Cristo; è amore di libertà che chiama alla condivisione piena come forma di salvezza.

Se tutto si fermasse alla morte in croce, avremmo certo raggiunto uno stadio altissimo della speculazione. Con ragione l’evangelista Marco pone sulle labbra del centurione –segno del non credente- l’attestazione di fede: “Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio” (Mc 15,39), perché aveva visto Gesù morire “in quel modo”, dando cioè tutto se stesso.

La morte di Cristo, invece, cambia il significato della morte dell’uomo e indica la nuova strada che si è chiamati a percorrere. È sempre l’apostolo Paolo che attesta: “La morte è stata ingoiata per la vittoria” (1 Cor 15,54). Il non senso della morte, dunque, viene superato dalla morte per amore, la quale libera la morte dalla “corruzione” per renderla un “passaggio” che conduce alla vera vita. Il tema caro al Cantico dei Cantici, trova qui il suo riscontro concreto. L’efficacia dell’amore che va oltre la morte perché la vince, provoca e coinvolge l’uomo a un processo di fede che richiede la conversione per approdare a un nuovo senso della morte.

Un bel testo del vescovo Baldovino di Canterbury (1190) aiuta ad entrare maggiormente all’interno di questa attualizzazione: “Forte è la morte perché è capace di privarci del dono della vita. Forte è l’amore, che è capace di ricondurci a un uso migliore della vita. Forte è la morte, che è in grado di spogliarci del vestito di questo corpo. Forte è l’amore, che è capace di strappare le nostre spoglie alla morte e restituircele. Forte è la morte a cui nessun uomo è in grado di resistere. Forte è l’amore al punto da trionfare su di essa, spuntarne il pungiglione, smorzarne la forza, vanificarne la vittoria… “Forte come la morte è l’amore, perché l’amore di Cristo è la fine della morte. Perciò dice: Io sono la tua fine, o morte; io sarò il tuo flagello, o inferno (cfr Os 13,14). L’amore che portiamo a Cristo, infatti, anch’esso è forte come la morte, perché deve essere una specie di morte, in quanto è distruzione della vecchia vita, abolizione dei vizi e abbandono delle opere morte. Sia questo amore una specie di contraccambio a Cristo, anche se dobbiamo ammettere che sarà sempre impari al suo amore per noi e come una sua sbiadita immagine. Egli, infatti, ci ha amato per primo e con l’esempio del suo amore è diventato per noi come un richiamo per renderci conformi alla sua immagine, spogliarci dell’uomo terreno e rivestirci dell’uomo celeste. Come ci ha amati così dobbiamo amarlo. Ci ha lasciato un esempio perché seguiamo le sue orme (cfr 1 Pt 2, 21). Per questo dice: “Mettimi come sigillo suo cuore” (Ct 8, 6). Come se dicesse: Amami come io ti amo. Abbimi nella tua mente, nei tuoi ricordi, nei tuoi lamenti, nei tuoi gemiti. Non dimenticarti, o uomo, che da me viene tutto quello che sei. Ricorda come ti ho preferito a tutte le altre creature, a quale dignità ti ho innalzato, come ti ho coronato di gloria e di onore, come ti ho fatto poco meno degli angeli e tutto ho posto sotto i tuoi piedi (cfr Sl 8, 6-7). Ricordati non solo quanto ti ho donato, ma quante cose terribili e immeritate ho sofferto per te. Solo allora potrai capire quanto sei ingiusto verso di me, privandomi del tuo amore. Chi infatti ti ama come ti amo io? Chi ti ha creato, se non io? Chi ti ha redento, se non io?”[14].

Per concludere

Dinanzi alla comprensione dell'amore cristiano ognuno, credente e non credente è chiamato ad interrogarsi per comprendere dove trova fondamento questa forma di amore. Quando si afferma che la cosa più importante nella vita è “amare”, si attesta una grande verità. Bisogna, però, essere capaci di assumere le conseguenze di questa affermazione. È necessario ammettere e capire che cosa sia l’amore! Ora, su quale metro si potrà misurare l’amore se non su quello che Dio ha rivelato nella vita di Gesù Cristo? L’amore non è una realtà di cui possiamo disporre a nostro piacimento; è vero il contrario. Noi dobbiamo essere disposti ad essere mossi dall’amore e a vivere in esso…

Alla fine, resta solo l'insoddisfazione di aver voluto dire tutto e anche di più, mentre dobbiamo accontentarci di essere soltanto balbuzienti quando parliamo dell'amore. Solo una piena e grande fedeltà ci permetterà di capire come l'amore si realizza e cosa chiede in cambio. L'amore si nutre di fedeltà e questa mostra il vero volto dell'amore; non c'è alternativa.

Ritornano con tutta la loro carica di provocazione le parole del santo vescovo Agostino: "Abita nell'amore ed esso abiterà in te. Resta nell'amore e lui resterà in te. Fratelli miei. Ma uno ama ciò che non vede? Ma perché quando si intessano le lodi dell'amore vi sollevate, applaudite e gioite? Cosa vi ho mostrato? Qualche bel colore? Vi ho posto dinanzi oro o argento? Ho tolto gemme da un forziere? Ho mostrato qualcosa di simile ai vostri occhi? O forse il mio volto si è mutato parlandovi? Certo non vedete nulla. Come vi piace ciò che lodate, così vi piaccia conservarlo nel cuore… Se vi piace l'amore lo avete, lo possedete: non c'è bisogno che commettiate un furto, non c'è bisogno di comprarlo, è gratuito. Tenetelo saldo, abbracciatelo: nulla è più dolce. Se quando ne parliamo è tanto bello, come sarà quando lo avremo?"[15].


Note

[1] Guglielmo di Saint Thierry, Natura e grandezza dell'amore, 1,1-2, Magnano 1990.

[2] "Nel dibattito filosofico e teologico queste distinzioni spesso sono state radicalizzate fino al punto di porle tra loro in contrapposizione: tipicamente cristiano sarebbe l'amore discendente, oblativo, l'agape appunto; la cultura non cristiana, invece, soprattutto quella greca, sarebbe caratterizzata dall'amore ascendente, bramoso e possessivo, cioè dall'eros. Se si volesse portare all'estremo questa antitesi, l'essenza del cristianesimo risulterebbe disarticolata dalle fondamentali relazioni vitali dell'esistere umano e costituirebbe un mondo a sé, da ritenere forse ammirevole, ma decisamente tagliato fuori dal complesso dell'esistenza umana. In realtà eros e agape — amore ascendente e amore discendente — non si lasciano mai separare completamente l'uno dall'altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell'unica realtà dell'amore, tanto più si realizza la vera natura dell'amore in genere. Anche se l'eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente — fascinazione per la grande promessa di felicità — nell'avvicinarsi poi all'altro si porrà sempre meno domande su di sé, cercherà sempre di più la felicità dell'altro, si preoccuperà sempre di più di lui, si donerà e desidererà «esserci per» l'altro. Così il momento dell'agape si inserisce in esso; altrimenti l'eros decade e perde anche la sua stessa natura. D'altra parte, l'uomo non può neanche vivere esclusivamente nell'amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere" Dce 7. Cfr pure "in fondo l'«amore» è un'unica realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta in volta, l'una o l'altra dimensione può emergere maggiormente. Dove però le due dimensioni si distaccano completamente l'una dall'altra, si profila una caricatura o in ogni caso una forma riduttiva dell'amore" Dce 8.

[3] "Nello sviluppo di questo incontro si rivela con chiarezza che l'amore non è soltanto un sentimento. I sentimenti vanno e vengono. Il sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la totalità dell'amore. Abbiamo all'inizio parlato del processo delle purificazioni e delle maturazioni, attraverso le quali l'eros diventa pienamente se stesso, diventa amore nel pieno significato della parola. È proprio della maturità dell'amore coinvolgere tutte le potenzialità dell'uomo ed includere, per così dire, l'uomo nella sua interezza. L'incontro con le manifestazioni visibili dell'amore di Dio può suscitare in noi il sentimento della gioia, che nasce dall'esperienza dell'essere amati. Ma tale incontro chiama in causa anche la nostra volontà e il nostro intelletto" Dce 17.

[4] Agostino, Questioni diverse 83 35,1

[5] Guglielmo di Saint Thierry, Natura e grandezza dell'amore, 21,1-8

[6] Cfr Dce n. 11.

[7] R. M. Rilke, Lettera a un giovane poeta, 14 maggio 1904; anche se l'espressione molto forte sembra poi addolcirsi quando continua dicendo: "L'amore in questo consiste, che due solitudini si custodiscano, delimitino e salutino a vicenda"… come dire, forse, che in quel saluto vengono ad essere superate?

[8] Platone, Simposio, 203b-d.

[9] Ibidem, 206°.

[10] Cfr Aristotele, Etica Nicomachea, VIII-IX.

[11] Cfr R. Schnackenburg, Il Vangelo di Giovanni, I, Brescia 1973, 564-569.

[12] Julian of Norwich, Revelations of divine Love, 97.

[13] Idem, Teodrammatica II, 246; Solo l’amore è credibile, 85.

[14] Baldovino di Canterbury, Trattati, 10; PL 204, 513-514.

[15] Agostino, In 1 Joh 7,10.


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