Ripresentiamo on-line la sintesi dei discorsi pronunciati al Convegno della Diocesi di Roma
svoltosi nei giorni 11-15 giugno 2007 che ha avuto per tema: Gesù è il Signore. Educare alla fede,
alla sequela, alla testimonianza.
Tale sintesi è già apparsa sulla rivista Catechisti nella città, nn.66-67
(maggio-ottobre) 2007, a cura dell’Ufficio catechistico e Servizio per il catecumenato della Diocesi di
Roma. I testi integrali dei discorsi sono disponibili on-line sul sito www.vicariatusurbis.org
Il Centro culturale Gli scritti (21/10/2007)
«Gesù è il Signore» è la confessione comune della Chiesa, il
fondamento sicuro di tutta la vita della Chiesa. Da queste parole si è sviluppata tutta la confessione del
Credo Apostolico, del Credo Niceno.
Il papa ha voluto subito indirizzare lo sguardo al fondamento teologico del tema del convegno, rileggendo i testi
biblici i quali raccontano l’annunzio che Gesù è il Signore (At 2,36; Fil 2,11; 1Cor 16,22; 1Cor
12,3; Rm 10,9; 1Cor 8,5-6). Ha invitato poi a riscoprire come il Credo detto degli Apostoli -il Simbolo di fede di
origine romana del quale, secondo la tradizione, ognuno dei dodici apostoli scrisse una articolo, in realtà
composto tra la fine del II ed il III secolo– ed il Credo niceno-costantinopolitano siano veramente una sintesi
di tutta la storia della salvezza.
Il papa ha proseguito indicando la significatività dell’umanità e della divinità del
Signore:
Fin dall’inizio, i discepoli hanno riconosciuto in Gesù risorto colui che è nostro fratello in
umanità, ma fa anche tutt’uno con Dio; colui che con la sua venuta nel mondo e in tutta la sua vita, la
sua morte e risurrezione ci ha portato Dio, ha reso in maniera nuova e unica Dio presente nel mondo, colui dunque che
dà significato e speranza alla nostra vita: in lui incontriamo infatti il vero volto di Dio, ciò di cui
abbiamo realmente bisogno per vivere.
Benedetto XVI ha proseguito affrontando il tema della chiesa, per indicare che essa, indissolubile dal Cristo,
è il luogo voluto dal Signore per poterlo conoscere ed amare. Ancor più essa è la madre che ci
genera nella fede cristiana:
La Chiesa, corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo, è quella compagnia affidabile nella quale siamo
generati ed educati per diventare, in Cristo, figli ed eredi di Dio.
Nella seconda e più lunga parte del suo discorso, il papa ha affrontato direttamente il tema
dell’educazione alla fede cristiana. L’ha inserito innanzitutto nella problematica attuale che vede un
grande disagio della società in genere, della scuola e della stessa famiglia dinanzi alla
responsabilità educativa. Benedetto XVI ha voluto mostrare come questa emergenza sia espressione di una
mentalità e di un atteggiamento culturale:
L’esperienza quotidiana ci dice che educare alla fede non è un’impresa facile. Oggi, in
realtà, ogni opera di educazione sembra diventare sempre più ardua e precaria. Si parla perciò
di una grande “emergenza educativa”, della crescente difficoltà che s’incontra nel
trasmettere alle nuove generazioni i valori-base dell’esistenza e di un retto comportamento, difficoltà
che coinvolge sia la scuola sia la famiglia e si può dire ogni altro organismo che si prefigga scopi
educativi. Possiamo aggiungere che si tratta di un’emergenza inevitabile: in una società e in una
cultura che troppo spesso fanno del relativismo il proprio credo - il relativismo è diventato una sorta di
dogma - in una simile società viene a mancare la luce della verità, anzi si considera pericoloso
parlare di verità, lo si considera “autoritario”, e si finisce per dubitare della bontà
della vita – è bene essere uomo? è bene vivere? - e della validità dei rapporti e degli
impegni che costituiscono la vita.
Educare, infatti, non è semplicemente trasmettere delle metodologie, tacendo dei valori e dei fondamenti.
L’how to do non è sufficiente alla passione educativa:
Come sarebbe possibile, allora, proporre ai più giovani e trasmettere di generazione in generazione
qualcosa di valido e di certo, delle regole di vita, un autentico significato e convincenti obiettivi per
l’umana esistenza, sia come persone sia come comunità? Perciò l’educazione tende ampiamente
a ridursi alla trasmissione di determinate abilità, o capacità di fare, mentre si cerca di appagare il
desiderio di felicità delle nuove generazioni colmandole di oggetti di consumo e di gratificazioni effimere.
Così sia i genitori sia gli insegnanti sono facilmente tentati di abdicare ai propri compiti educativi e di
non comprendere nemmeno più quale sia il loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. Ma proprio
così non offriamo ai giovani, alle nuove generazioni, quanto è nostro compito trasmettere loro. Noi
siamo debitori nei loro confronti anche dei veri valori che danno fondamento alla vita
Il papa ha subito aggiunto che l’attuale difficoltà educativa manifesta, però, in positivo il
desiderio reale e profondo di una maturazione:
Ma questa situazione evidentemente non soddisfa, non può soddisfare, perché lascia da parte lo scopo
essenziale dell’educazione, che è la formazione della persona per renderla capace di vivere in pienezza
e di dare il proprio contributo al bene della comunità. Cresce perciò, da più parti, la domanda
di un’educazione autentica e la riscoperta del bisogno di educatori che siano davvero tali. Lo chiedono i
genitori, preoccupati e spesso angosciati per il futuro dei propri figli, lo chiedono tanti insegnanti che vivono la
triste esperienza del degrado delle loro scuole, lo chiede la società nel suo complesso, in Italia come in
molte altre nazioni, perché vede messe in dubbio dalla crisi dell’educazione le basi stesse della
convivenza. In un simile contesto l’impegno della Chiesa per educare alla fede, alla sequela e alla
testimonianza del Signore Gesù assume più che mai anche il valore di un contributo per far uscire la
società in cui viviamo dalla crisi educativa che la affligge, mettendo un argine alla sfiducia e a quello
strano “odio di sé” che sembra diventato una caratteristica della nostra civiltà.
Ecco allora l’invito del vescovo di Roma alla sua diocesi: lavorare con i giovani e per loro.
Proprio questa è la sfida decisiva per il futuro della fede, della Chiesa e del cristianesimo ed è
quindi una priorità essenziale del nostro lavoro pastorale: avvicinare a Cristo e al Padre la nuova
generazione, che vive in un mondo per gran parte lontano da Dio.
Benedetto XVI ha, quindi, mostrato come l’educazione dei giovani non possa essere unidimensionale, ma, proprio
perché vuole aver cura della persona, debba considerarne tutti gli aspetti costitutivi. L’opera
educativa ha bisogno, innanzitutto – ha spiegato il papa – della preghiera, perché essa esprime il
primato della grazia, dell’opera di Dio:
Per l’educazione e formazione cristiana è decisiva anzitutto la preghiera e la nostra amicizia
personale con Gesù: solo chi conosce e ama Gesù Cristo può introdurre i fratelli in un rapporto
vitale con Lui. Perciò le nostre comunità potranno lavorare con frutto ed educare alla fede essendo
esse stesse
autentiche “scuole” di preghiera, nelle quali si vive il primato di Dio.
Alla preghiera si deve aggiungere la condivisione della vita con coloro che si è chiamati ad educare, in
particolare dei giovani:
L’educazione inoltre, e specialmente l’educazione cristiana, l’educazione cioè a plasmare
la propria vita secondo il modello del Dio che è amore (cfr 1Gv 4,8.16), ha bisogno di quella vicinanza che
è propria dell’amore. Soprattutto oggi, quando l’isolamento e la solitudine sono una condizione
diffusa, alla quale non pongono un reale rimedio il rumore e il conformismo di gruppo, diventa decisivo
l’accompagnamento personale, che dà a chi cresce la certezza di essere amato, compreso ed accolto. In
concreto, questo accompagnamento deve far toccare con mano che la nostra fede non è qualcosa del passato, che
essa può essere vissuta oggi e che vivendola troviamo realmente il nostro bene.
È l’intera comunità cristiana ad essere chiamata a questo compito. L’attenzione ai giovani
non può essere delegato ad altri:
Così i ragazzi e i giovani possono essere aiutati a liberarsi da pregiudizi diffusi e possono rendersi
conto che il modo di vivere cristiano è realizzabile e ragionevole, anzi, di gran lunga il più
ragionevole. L’intera comunità cristiana, nelle sue molteplici articolazioni e componenti, è
chiamata in causa dal grande compito di condurre le nuove generazioni all’incontro con Cristo.
Primi responsabili nella comunità sono coloro che hanno chiamato alla vita i figli, cioè le loro stesse
famiglie. Insieme ad esse, lo sono i padrini e le madrine dei ragazzi. In particolare le parrocchie e la catechesi
devono valorizzare di più le loro figure ed instaurare un rapporto significativo con loro, dedicandovi energie
ed attenzione:
E’ del tutto evidente che nell’educazione e nella formazione alla fede una missione propria e
fondamentale ed una responsabilità primaria competono alla famiglia. I genitori infatti sono coloro attraverso
i quali il bambino che si affaccia alla vita fa la prima e decisiva esperienza dell’amore, di un amore che in
realtà non è soltanto umano ma è un riflesso dell’amore che Dio ha per lui. Perciò
tra la famiglia cristiana, piccola “Chiesa domestica” (cfr Lumen gentium, 11), e la più grande
famiglia della Chiesa deve svilupparsi la collaborazione più stretta, anzitutto riguardo all’educazione
dei figli. Tutto quello che è maturato nei tre anni che la nostra pastorale diocesana ha dedicato
specificamente alla famiglia va dunque non solo messo a frutto ma incrementato ulteriormente. Ad esempio, i tentativi
di coinvolgere maggiormente i genitori e gli stessi padrini e madrine prima e dopo il battesimo, per aiutarli a
capire e ad attuare la loro missione di educatori della fede, hanno già dato risultati apprezzabili e meritano
di essere continuati e di diventare patrimonio comune di ciascuna parrocchia. Lo stesso vale per la partecipazione
delle famiglie alla catechesi e a tutto l’itinerario di iniziazione cristiana dei fanciulli e degli
adolescenti.
Se la situazione delle famiglie, spesso, è difficile, proprio l’amore per i propri figli diventa una
risorsa ed una possibilità di cammino:
Sono molte, certamente, le famiglie impreparate a un tale compito e non mancano quelle che sembrano non
interessate, se non contrarie, all’educazione cristiana dei propri figli: si fanno sentire qui anche le
conseguenze della crisi di tanti matrimoni. Raramente si incontrano però genitori del tutto indifferenti
riguardo alla formazione umana e morale dei figli, e quindi non disponibili a farsi aiutare in un’opera
educativa che essi avvertono come sempre più difficile. Si apre pertanto uno spazio di impegno e di servizio
per le nostre parrocchie, oratori, comunità giovanili, e anzitutto per le stesse famiglie cristiane, chiamate
a farsi prossimo di altre famiglie per sostenerle ed assisterle nell’educazione dei figli, aiutandole
così a ritrovare il senso e lo scopo della vita di coppia.
La pastorale giovanile ha specificamente bisogno di educatori e catechisti, nel momento in cui l’adolescenza
porta naturalmente al distacco dalla famiglia. La comunità cristiana deve far nascere queste vocazioni, a
servizio delle nuove generazioni:
Man mano che i ragazzi crescono aumenta naturalmente in loro il desiderio di autonomia personale, che diventa
facilmente, soprattutto nell’adolescenza, presa di distanza critica dalla propria famiglia. Si rivela allora
particolarmente importante quella vicinanza che può essere assicurata dal sacerdote, dalla religiosa, dal
catechista o da altri educatori capaci di rendere concreto per il giovane il volto amico della Chiesa e l’amore
di Cristo. Per generare effetti positivi che durino nel tempo, la nostra vicinanza deve essere consapevole che il
rapporto educativo è un incontro di libertà e che la stessa educazione cristiana è formazione
all’autentica libertà... Come ho detto al Convegno ecclesiale di Verona, “un’educazione vera
ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che
mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di
grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare
consistenza e significato alla stessa libertà” (Discorso del 19 ottobre 2006). Quando avvertono di
essere rispettati e presi sul serio nella loro libertà, gli adolescenti e i giovani, pur con la loro
incostanza e fragilità, non sono affatto indisponibili a lasciarsi interpellare da proposte esigenti: anzi, si
sentono attratti e spesso affascinati da esse. Vogliono anche mostrare la loro generosità nella dedizione ai
grandi valori che sono perenni e costituiscono il fondamento della vita.
Il giovane non cerca solo esperienze, ma è desideroso di capire, di sciogliere i nodi dei suoi perché,
di comprendere cosa sia affidabile e significativo nella vita. La catechesi deve recuperare così il suo
spessore contenutistico e non vivere solo di emozioni e di occasioni:
L’educatore autentico prende sul serio la curiosità intellettuale che esiste già nei fanciulli
e con il passare degli anni assume forme più consapevoli. Sollecitato e spesso confuso dalla
molteplicità di informazioni e dal contrasto delle idee e delle interpretazioni che gli vengono continuamente
proposte, il giovane di oggi conserva tuttavia dentro di sé un grande bisogno di verità: è
aperto quindi a Gesù Cristo che, come ci ricorda Tertulliano (De virginibus velandis, I,1), “ha
affermato di essere la verità, non la consuetudine”. E’ nostro compito cercare di rispondere alla
domanda di verità ponendo senza timori la proposta della fede a confronto con la ragione del nostro tempo.
Aiuteremo così i giovani ad allargare gli orizzonti della loro intelligenza, aprendosi al mistero di Dio, nel
quale si trova il senso e la direzione dell’esistenza, e superando i condizionamenti di una razionalità
che si fida soltanto di ciò che può essere oggetto di esperimento e di calcolo. E’ quindi molto
importante sviluppare quella che già lo scorso anno abbiamo chiamato “pastorale
dell’intelligenza”.
L’educatore mostra così l’abitabilità intellettuale della fede, mentre testimonia insieme
della propria gioia di essere coinvolto personalmente nella fede cristiana. Essere testimoni non significa,
innanzitutto, essere moralmente coerenti, ma essere conquistati da un altro, il Signore, verso il quale si tende e
che si propone agli altri:
Il lavoro educativo passa attraverso la libertà, ma ha anche bisogno di autorevolezza. Perciò,
specialmente quando si tratta di educare alla fede, è centrale la figura del testimone e il ruolo della
testimonianza. Il testimone di Cristo non trasmette semplicemente informazioni, ma è coinvolto personalmente
con la verità che propone e attraverso la coerenza della propria vita diventa attendibile punto di
riferimento. Egli non rimanda però a se stesso, ma a Qualcuno che è infinitamente più grande di
lui, di cui si è fidato ed ha sperimentato l’affidabile bontà. L’autentico educatore
cristiano è dunque un testimone che trova il proprio modello in Gesù Cristo, il testimone del Padre che
non diceva nulla da se stesso, ma parlava così come il Padre gli aveva insegnato (cfr Gv 8,28).
La catechesi, ha continuato il Santo Padre, deve coinvolgere gli stessi giovani nella gioia di divenire a loro volta
annunziatori, altrimenti li renderebbe sterili e passivi:
La testimonianza attiva da rendere a Cristo... riguarda... gli stessi ragazzi e giovani... La consapevolezza di
essere chiamati a diventare testimoni di Cristo non è pertanto qualcosa che si aggiunge dopo, una conseguenza
in qualche modo esterna alla formazione cristiana, come purtroppo spesso si è pensato e anche oggi si continua
a pensare, ma al contrario è una dimensione intrinseca ed essenziale dell’educazione alla fede e alla
sequela, così come la Chiesa è missionaria per sua stessa natura (cfr Ad gentes, 2). Fin
dall’inizio della formazione dei fanciulli, per arrivare, con un cammino progressivo, alla formazione
permanente dei cristiani adulti, bisogna quindi che mettano radici nell’animo dei credenti la volontà e
la convinzione di essere partecipi della vocazione missionaria della Chiesa, in tutte le situazioni e circostanze
della propria vita: non possiamo infatti tenere per noi la gioia della fede, dobbiamo diffonderla e trasmetterla, e
così rafforzarla anche nel nostro cuore.
Ambiente decisivo per il cammino educativo è la scuola, della quale la fede deve tornare ad interessarsi, per
poter servire i giovani:
Nell’educazione alla fede un compito molto importante è affidato alla scuola cattolica. Anche le
scuole statali, secondo forme e modi diversi, possono essere sostenute nel loro compito educativo. La sana
laicità della scuola, come delle altre istituzioni dello Stato, non implica infatti una chiusura alla
Trascendenza e una falsa neutralità rispetto a quei valori morali che sono alla base di un’autentica
formazione della persona. Un discorso analogo vale naturalmente per le Università.
Benedetto XVI ha poi invitato la diocesi a non dimenticare nell’azione educativa l’orizzonte sociale nel
quale vivono le giovani generazioni:
Oggi più che nel passato l’educazione e la formazione della persona sono influenzate da quei messaggi
e da quel clima diffuso che vengono veicolati dai grandi mezzi di comunicazione e che si ispirano ad una
mentalità e cultura caratterizzate dal relativismo, dal consumismo e da una falsa e distruttiva esaltazione,o
meglio profanazione, del corpo e della sessualità. Perciò, proprio per quel grande
“sì” che come credenti in Cristo diciamo all’uomo amato da Dio, non possiamo certo
disinteressarci dell’orientamento complessivo della società a cui apparteniamo, delle tendenze che la
animano e degli influssi positivi o negativi che essa esercita sulla formazione delle nuove generazioni. La presenza
stessa della comunità dei credenti, il suo impegno educativo e culturale, il messaggio di fede, di fiducia e
di amore di cui è portatrice sono in realtà un servizio inestimabile verso il bene comune e
specialmente verso i ragazzi e i giovani che si stanno formando e preparando alla vita.
Benedetto XVI ha poi toccato in conclusione un altro tema che aveva nel cuore, quello delle vocazioni:
In maniera sempre delicata e rispettosa, ma anche chiara e coraggiosa, dobbiamo rivolgere un peculiare invito alla
sequela di Gesù a quei giovani e a quelle giovani che appaiono più attratti e affascinati
dall’amicizia con Lui. In questa prospettiva la Diocesi destinerà qualche nuovo sacerdote specificamente
alla cura delle vocazioni, ma sappiamo bene che in questo campo sono decisivi la preghiera e la qualità
complessiva della nostra testimonianza cristiana, l’esempio di vita dei sacerdoti e delle anime consacrate, la
generosità delle persone chiamate e delle famiglie da cui esse provengono.
La testimonianza del prof.Nembrini ha preso le mosse dal racconto della propria vita di figlio,
perché si è educati, prima di divenire educatori:
Per poter parlare della mia esperienza di padre e di insegnante devo partire dalla mia esperienza di figlio,
perché non posso non riconoscere che io ho visto per la prima volta cosa fosse l’educazione con mio
papà e mia mamma. Sono il quarto di dieci figli e l’immagine che ho del mio povero papà è
quando, nella stanzetta dove dormivamo, si inginocchiava in mezzo alla stanza e incominciava a dire il Padre Nostro.
Questo era mio padre: uno che guardava una cosa più grande di lui e ci invitava ad andargli dietro senza
bisogno di dircelo. Era uno che, quando sono diventato più grande e tornavo a casa a tarda ora per i mille
impegni che c’erano, lo trovavo sempre in piedi, perché non è mai in vita sua andato a letto se
non dopo aver chiuso la porta alle spalle dell’ultimo figlio rientrato.
C’è un momento in cui si capisce cosa voglia dire esser guardati dai figli che ci interrogano sulla
felicità:
Un pomeriggio me ne stavo tranquillamente in casa con il mio primo figlio Stefano, che poteva avere 4 o 5 anni,
correggendo i temi come ogni insegnante di italiano ed ero talmente assorto nel mio lavoro che non avevo notato che
Stefano si era avvicinato al mio tavolo e in silenzio mi stava guardando. Non chiedeva nulla di particolare, non
aveva bisogno di nulla, solo osservava suo padre al lavoro. Ricordo che quel giorno, nell’incrociare lo sguardo
di mio figlio, mi folgorò questa impressione: che lo sguardo di mio figlio contenesse una domanda
assolutamente radicale, inevitabile, cui non potevo non rispondere. Era come se guardandomi chiedesse: papà,
assicurami che valeva la pena venire al mondo. Questa, mi sono detto, è la domanda dell’educazione e da
quel momento non ho più potuto neanche entrare in classe e incrociare lo sguardo dei miei alunni e non
sentirmi rivolta questa domanda: quale speranza ti sostiene?
L’adulto è responsabile nell’introdurre il giovane alla realtà. Non basta che sia
competente su singoli aspetti, egli è chiamato a mostrare l’intimo significato della realtà nella
sua interezza:
Dante nel Paradiso, interrogato da San Pietro sulla fede, si sente chiedere: “Quella cara gioia sopra la
quale ogni virtù si fonda, dimmi, donde ti venne?” Perché io potevo desiderare, bambino, di
essere come mio papà? Perché presentivo, sapevo che mio papà sapeva le cose che nella via
è importante sapere. Sapeva del bene e del male, della verità e della menzogna, della gioia e del
dolore, della vita e della morte. Cioè senza discorsi e senza prediche mi introduceva ad un senso ultimamente
positivo dell’esistenza, di tutti gli aspetti della vita. Era la testimonianza vivente di una Verità
conosciuta. Se l’educazione, come dice don Giussani nel Rischio Educativo è “introduzione alla
realtà totale, cioè alla realtà fino all’affermazione del suo significato”, bene mio
papà faceva esattamente questo. E questo, mi pare, è proprio ciò che manca ai giovani oggi: sono
cresciuti senza che venisse loro offerta questa “ipotesi esplicativa della realtà” e perciò
paurosi, trovandosi di fronte a tutto perennemente indecisi, e tristi, e perciò così spesso violenti.
Perché, lo sappiamo bene noi adulti: non si può rimanere a lungo tristi senza diventare cattivi. Ma
rendiamoci conto che la tristezza dei figli è figlia della nostra, la loro noia è figlia della nostra.
Ecco, mio padre, lo dico volutamente con un paradosso, ci ha educati perché non aveva il problema di educarci,
di convincerci di qualcosa. Lo desiderava, certo, certo pregava per questo, ma era come se ci sfidasse: “Io
sono felice, vedete la mia vita, vedete se trovate qualcosa di meglio e decidete”. Perseguiva tenacemente la
sua santità, non la nostra. Sapeva che santi a nostra volta lo saremmo potuti diventare solo per nostra libera
scelta.
Quando sopraggiunge la crisi che, spesso, accompagna il crescere, l’educatore deve essere il testimone della
misericordia:
Questa identificazione dell’educazione con la misericordia porta con sé alcune conseguenze che mi
sembrano decisive:
- Che l’educazione non poggia su tecniche psicologiche o pedagogiche
o sociologiche. E’ l’offerta della propria vita alla vita dell’altro.
E’ l’offerta di una proposta di vita esistenzialmente significativa
e convincente che ha le sue radici nella esperienza lieta e certa del testimone.
Se per educare fossero bastate le parole sarebbero piovuti Vangeli, invece Lui
è venuto, compagno della nostra povera esistenza.
- Se è così, l’azione missionaria del cristiano e della
Chiesa tutta non può che consistere in una coraggiosa testimonianza della
fede là dove gli uomini vivono, dove i giovani consumano la loro giovinezza,
in primis la scuola. Non si può più immaginare di svolgere l’azione
pastorale in ambiti chiusi, diversi dai luoghi di studio e di lavoro, e di divertimento,
ma bisognerà ricominciare a incontrare i nostri fratelli uomini là
dove essi vivono i loro interessi, i loro affetti, la loro intelligenza e operosità.
Una fede che non si dimostrasse pertinente alla vita reale, che non si mostrasse
capace di esaltare l’io, il cuore e l’attesa del singolo, non potrà
mai suscitare curiosità e interesse e desiderio di seguire.
- Il problema coi figli o con gli alunni non può essere farli diventare cristiani, farli pregare, farli
andare in Chiesa. Se ti poni così sentiranno questo come una pretesa da cui difendersi e da cui prendere le
distanze.
Tutto il segreto dell’educazione mi pare che sia questo: i tuoi figli ti guardano! Quando giocano non
giocano mai soltanto; qualsiasi cosa facciano in realtà con la coda dell’occhio ti guardano sempre, e
che ti vedano lieto e forte davanti alla realtà è l’unico modo che hai di educarli.
Lieto e forte non perché sei perfetto (tanto non lo crederanno mai, e come è patetico e triste il
genitore che cerca di nascondere ai figli il proprio male) ma perché sei tu il primo a chiedere e ad ottenere
ogni giorno di essere perdonato.
Così tra l’altro con loro sei libero, anche di sbagliare, libero dall’angoscia di dover far
vedere una coerenza impossibile, perché il tuo compito di padre è semplicemente quello di guardare un
ideale grande, sempre, e loro ti tentano, loro tendono l’elastico, ti mettono alla prova sempre: sono tutti
figliol prodighi.
E’ quella che nel Rischio educativo si chiama “funzione di coerenza ideale” è la grande
funzione educativa: che tu stai, che tu resti, resti lì, e magari loro si allontanano e di sottecchi guardano
sempre se tu sei al tuo posto, se tu hai una casa, se tu sei una casa, e torneranno, anche quando fanno le cose
peggiori. Questa solidità, questa certezza che hai tu e che vivi tu con i tuoi amici e con tua moglie,
è l’unica cosa di cui hanno bisogno i figli per essere educati, è l’unica cosa che anche
senza saperlo ci chiedono, e su questa testimonianza poggia la loro speranza. Si tratta di scommettere tutto sulla
loro libertà.
Rileggendo la parabola del padre e dei suoi due figli, il prof.Nembrini ha sottolineato come sia importante abitare
la casa della propria vita di fede con gioia per non farla trovare deserta quando il giovane avrà deciso di
tornarvi:
Pensate alla parabola del figliol prodigo: noi siamo sempre tentati di trattenerli in casa, e invece loro vogliono
andare, misurarsi con tutto il reale, e noi a volerli tenere sotto una campana di vetro. Abbiamo paura della loro
libertà, perché è uno strappo, una ferita che sanguina. Oppure confondiamo la
responsabilità con il nostro diventare come loro: lascio anch’io la casa con te, così magari ti
tengo d’occhio da vicino. Ma che disperazione per i nostri figli se, volendo tornare un giorno a casa,
scoprissero che non hanno più dove tornare, non hanno più chi li aspetti, chi li perdoni!
Infine, ha parlato dello slancio missionario della fede che costruisce, insieme ad altri cristiani, un mondo
abitabile, nel quale la fede è una realtà presente:
Una volta mio figlio Andrea mi ha detto (era in prima liceo), serissimo: “Ma papà, noi siamo una
famiglia normale?” Perché tutto fuori di qui dice il contrario: scuola, TV, amici. Allora ho capito che
sentiva una estraneità tra l’insegnamento in casa e la vita, la vita nel mondo normale. Si trattava di
fargli veder un altro “mondo”, un altro mondo in questo mondo. Ho capito che mi chiedeva di fargli vedere
che la cosa funzionava davvero, che c’erano amici, famiglie, realtà, movimenti, chiese, oratori,
parrocchie missioni da cui poter capire e stare certo che quando fosse stato chiamato a sfidare il mondo avrebbe
avuto ragioni sufficienti da portare, tutto il peso e la forza di tanti testimoni; che sarà un modo
minoritario, quello che vive in un certo modo, ma che sia un mondo vero, famiglie vere, amici veri, case
vere.
Il cardinal vicario, nelle riflessioni conclusive del Convegno, ha sottolineato innanzitutto la
centralità della fede che riconosce Gesù come Signore, invitando la diocesi a valorizzare il libro
Gesù di Nazaret, scritto dal papa, come strumento prezioso per il cammino della chiesa di Roma:
Il primo punto è la forte affermazione iniziale del tema del Convegno: «Gesù è il
Signore». Il Papa è partito da lì e ha sottolineato che questa è la confessione
fondamentale e comune della Chiesa, guidata dallo Spirito Santo, è il fondamento sicuro di tutta la sua vita.
Il Papa ci ha anche detto che a questo scopo ha pensato di scrivere un libro che aiuti a conoscere
Gesù.
Intendiamo porre il libro del Papa al centro dell’attenzione della Diocesi nel prossimo anno pastorale.
Quest’anno potremmo concentrarci su due aspetti che stanno al cuore del libro del Papa. Il primo è
costituito da quella che, con una formula classica, veniva chiamata «L’essenza del cristianesimo».
Il libro si occupa molto di questo, chiedendosi qual è il volto di Dio che ci viene rivelato in Gesù
Cristo, il compito e il destino dell’uomo, la nostra speranza come ce la propone Gesù Cristo. Il secondo
aspetto è la credibilità dello stesso cristianesimo, che richiede anzitutto che l’uomo
Gesù di Nazareth, nella sua realtà storica, sia stato effettivamente il Figlio di Dio e abbia avuto
coscienza di esserlo, abbia avuto coscienza della missione che scaturiva da qui per la salvezza
dell’umanità. In concreto il Papa chi ha detto che Gesù Cristo ci ha portato Dio, ha reso, in
maniera nuova e unica, Dio presente nel mondo e così ci ha portato ciò di cui abbiamo realmente bisogno
per vivere.
Questo è il centro propulsore della vita e della crescita della persona cristiana, come della famiglia
cristiana e del popolo cristiano, anzi della crescita dell’uomo in quanto tale e dell’umanità.
Dobbiamo avere il coraggio di dire questo e il coraggio di pensarlo e di crederlo, la gioia di vivere di questo,
perché il fulcro dell’educazione alla fede, in realtà, è anche il fulcro di una educazione
umana piena e autentica.
Ha poi affrontato il tema della vocazione dell’uomo che solo dalla fede riceve luce:
Nell’educare, e per poter educare, dobbiamo avere il senso di questa grandezza della nostra vocazione, di
questa chiamata dagli orizzonti straordinari che viene da Dio in Gesù Cristo e che accomuna e unisce noi
tutti: educatori ed educati. Dentro questo quadro e questa prospettiva diventa evidente la bellezza della vocazione
al sacerdozio e alla vita consacrata, come della vocazione al matrimonio e ad ogni compito e missione di amore, di
dono di sé e di costruzione del bene.
In terzo luogo ha parlato della pastorale integrata, come espressione di testimonianza ecclesiale:
L’attuazione (della pastorale integrata) passa attraverso la convinzione che la nostra crescita personale,
di gruppo, di organizzazione, è direttamente proporzionale alla crescita dei nostri fratelli, delle altre
persone, degli altri gruppi.
In tutto questo è essenziale il senso della Chiesa e dell’appartenenza alla Chiesa, come qualcosa di
condiviso e di comune a noi tutti. In questo abbiamo bisogno di crescere. Il disagio, la spinta alla presa di
distanza, la critica possono avere validi motivi: da quelli più superficiali che si riconducono a
comportamenti di altre persone o anche a nostre difficoltà relazionali, fino a quelli più profondi che
affondano le radici nei limiti e peccati diffusi tra i figli della Chiesa, anche nel campo dell’educazione
delle nuove generazioni.
Tutti questi motivi non possono e non devono però farci perdere di vista, già a livello di quello
che possiamo constatare empiricamente, il grandissimo bene che viene fuori dalla vita e dall’impegno di coloro,
e sono tanti, che si sforzano di seguire il Signore nell’educazione delle nuove generazioni, come nel servizio
ai poveri, nella proposta di una cultura della vita e non della disperazione, e in tutte le altre dimensioni
dell’esistenza e della società. Soprattutto, quei motivi di perplessità e a volte di scandalo non
devono oscurare lo sguardo della fede che vede nella Chiesa il corpo e la sposa di Cristo, il tempio dello Spirito,
il luogo della presenza viva del Dio amico e salvatore dell’uomo.
Ha voluto poi sottolineare gli atteggiamenti dell’educatore emersi nei primi giorni del convegno.
L’educazione è veramente un atto di libertà:
Il prof. Nembrini ci ha messo in guardia da due errori che possiamo commettere per paura dei danni che può
produrre la libertà di coloro che amiamo e che cerchiamo di educare. Il primo errore è quello di
illuderci di fare il loro bene bloccando lo sviluppo della loro libertà. Il secondo errore, oggi assai
più diffuso, è quello di giustificare e avallare le loro scelte, anche quelle sbagliate, per timore di
perdere il loro affetto e la loro fiducia, togliendo così al ragazzo, all’adolescente, al giovane, o
anche all’adulto, quel punto di riferimento di cui ha essenziale bisogno. Pensiamo al rapporto fra un adulto e
il sacerdote di cui ha fiducia.
L’educazione è opera di testimoni, che sono tali perché rimandano ad un Altro:
Il prof. Nembrini ha ripreso al riguardo il concetto di mons. Giussani di “coerenza ideale”, che non
vuol dire coerenza astratta, soltanto affermata e non praticata, ma indica una coerenza che non viene meno a causa
delle nostre infedeltà, perché ha l’onestà e l’umiltà di riconoscere i propri
sbagli e di spingere l’educatore a ricominciare sempre di nuovo, a mettere in pratica per primo quella
conversione che è un carattere essenziale del discepolo di Gesù Cristo, che sa di non essere egli
stesso il Maestro, ma di dover rendere testimonianza all’unico Maestro.
La passione educativa non disgiunge mai la pastorale dell’intelligenza dalla testimonianza personale:
Il Papa ha ripreso quello che aveva raccomandato lo scorso anno riguardo alla pastorale dell’intelligenza...
Vorrei sottolineare un aspetto che mi sembra molto concreto e attuale. I giovani di oggi vivono nel mondo
dell’immediatezza, dei sentimenti immediati, da appagare al più presto, usano il linguaggio di internet
e dei telefonini, ma hanno anche a che fare con la razionalità tecnica e scientifica che, in qualche misura,
imparano a scuola e implicitamente usando il computer: una razionalità molto specialistica, che scompone i
problemi e si interessa delle applicazioni tecnico-pratiche, di ciò che è razionalmente fattibile.
Tutto quello che non rientra in questa razionalità pratica e operativa rimane per loro nel campo
dell’esperienza soggettiva: esperienza personale o anche di gruppo o di massa, come quella dei mega-concerti,
che per loro è molto più importante della razionalità. E’ qualcosa però che vale
per “me”, ma non per “te”, tanto meno vale per “tutti”.
Così i ragazzi portano dentro di loro, senza accorgersene, una frattura fra la loro esperienza e una
razionalità che abbia la pretesa di valere per tutti, come la razionalità tecnico-scientifica. Questa
frattura li rende incapaci di autentiche certezze interiori e quindi di scelte impegnative, e ancor meno capaci di
scelte definitive. In particolare rende loro difficile accogliere la proposta cristiana come vera e valida
oggettivamente, non solo come bella finché corrisponde ai miei gusti e alla mia sensibilità
attuale.
Ecco perché la proposta del Papa di allargare gli spazi della razionalità, da quella
tecnico-pratica a quella che affronta il problema della verità, del vero e del bene, ha una grandissima
valenza educativa. Questa proposta aiuta a superare quella frattura di cui parlavo, aiuta a comprendere che il
bisogno di trovare un senso alla propria vita non è soltanto qualcosa di soggettivo, ma può trovare
risposta aprendoci alla realtà e acquistando la certezza che la realtà stessa ha oggettivamente un
senso e un valore; in ultima analisi quel senso che si trova nel Dio che Gesù Cristo ci ha rivelato.
La stessa cosa è stata detta implicitamente da mons. Giussani affermando che l’educazione è
introduzione al significato della realtà totale. Perciò la pastorale dell’intelligenza non
è qualcosa di aggiunto, di staccato dall’amore, dalla libertà, dalla testimonianza personale.
E’ indispensabile insieme con esse, se vogliamo formare delle persone adulte e dei cristiani ben
radicati.
L’educazione indica che un altro “mondo” è realmente possibile ed abitabile:
Il prof. Nembrini ha concluso il suo intervento parlando della necessità di far vedere agli adolescenti e
ai giovani che esiste quello che egli ha chiamato un altro mondo, oltre a quello piuttosto negativo e ben poco
cristiano dell’esperienza prevalente. Vorrei essere più fiducioso. Vorrei dire anzitutto che questo
altro mondo esiste davvero e per fortuna è più grande e più presente di quello che i mezzi di
comunicazione e anche tante esperienze negative fanno apparire. E’ il mondo della bontà,
dell’amore, della dedizione, del lavoro e della fatica, del sacrificio quotidiano, delle relazioni e degli
affetti normali, generosi e costruttivi. Questo mondo esiste ed è diffuso e in alcune occasioni, come il
“Family Day” – ma questo è solo un esempio che ha fatto colpo perché ha concentrato
in un singolo evento quello che per fortuna è diffuso nella vita – diventa particolarmente
visibile.
La testimonianza attiva del Signore Gesù non si limita certo agli eventi pubblici, attraversa infatti
tutta la vita, passa attraverso quella che a Verona ho chiamato “diaconia delle coscienze”, servizio
delle coscienze, dalla persona alla persona, senza bisogno di speciali occasioni. Avviene infatti nelle circostanze
ordinarie della vita, nella famiglia, nel lavoro, nella scuola, nelle amicizie, ecc., quando cioè prendiamo
sul serio la nostra coscienza cristiana, cerchiamo di vivere coerentemente ad essa e anche di dare le ragioni di
questo nostro modo di vivere. Questo è il servizio o la diaconia che facciamo alla coscienza dei nostri
fratelli e questa è la missione attiva, la testimonianza attiva a Cristo, nella sua forma più
elementare, più semplice ma anche più importante.
E’ vero però che dobbiamo aver cura della dimensione pubblica, per la semplice ragione che non
possiamo disinteressarci, come ha detto il Papa, dell’orientamento complessivo della società a cui
apparteniamo. Questo vale specialmente per l’educazione, perché l’orientamento complessivo della
società esercita un grande influsso sulla mentalità e sui comportamenti delle nuove generazioni. Solo
così l’«altro mondo» di cui ha parlato il prof. Nembrini può prendere coraggio e
cercare di venire maggiormente alla luce. Auspico dunque che il mondo positivo prenda sempre più il coraggio
di venire pubblicamente e comunitariamente alla luce.