Tacet. Elogio del buon tacere
di Giovanni Pozzi

Ripresentiamo on-line, per il progetto Portaparola, uno degli ultimi scritti dello studioso di letteratura italiana padre Giovanni Pozzi. Così introduce il testo Avvenire di martedì 15 agosto 2006:

«Tacet». Si intitola così uno degli ultimi scritti di padre Giovanni Pozzi, il filologo cappuccino svizzero che fu allievo e poi sedette sulla cattedra di Gianfranco Contini a Friburgo. Si tratta di una plaquette stampata da Adelphi nel dicembre 2001 in 500 copie numerate e rimasta fuori commercio, una sorta di «testamento spirituale» del grande studioso della letteratura mistica e del barocco, scomparso nel 2002. Nel volumetto (di cui in questa pagina proponiamo un ampio stralcio) padre Pozzi esamina dapprima la ricerca di solitudine degli eremiti, che si risolve nell'«invenzione» della cella e tuttavia non dà soluzione al dualismo più intimo: quello tra parola e silenzio. Il quale viene composto soltanto nel libro: laddove cioè la parola può essere silenziosa. Solo «la cella e il libro - conclude lo studioso, adombrando in realtà la propria esperienza stessa - sono le stanze della solitudine e del silenzio».

Il Centro culturale Gli scritti (10/09/2006)


Per ascoltare occorre tacere. Non soltanto attenersi a un silenzio fisico che non interrompa il discorso altrui (o se lo interrompe, lo faccia per rimettersi a un successivo ascolto), ma a un silenzio interiore, ossia un atteggiamento tutto rivolto ad accogliere la parola altrui. Bisogna far tacere il lavorio del proprio pensiero, sedare l'irrequietezza del cuore, il tumulto dei fastidi, ogni sorta di distrazioni. Nulla come l'ascolto, il vero ascolto, ci può far capire la correlazione fra il silenzio e la parola.
È l'analogo della musica. La si ascolta pienamente quando tutto tace intorno a noi e dentro di noi. Modo più perfetto, a occhi chiusi. Guardare l'orchestra o il pianista, osservare il sincronismo tra l'agitarsi del maestro, il va e vieni degli archi e la curva della melodia, rispettivamente fra il rituale muoversi del busto, lo scorrere delle mani sulla tastiera e la cascata delle note, amplifica la partecipazione allo spettacolo, ma smorza l'incanto dei suoni. Ce l'offre intiero l'organo quando canta in chiesa. Lo si ascolta senza nulla vedere di ciò che produce il suono. Esce da un grembo oscuro e, nell'immobile oscurità delle volte, ci avvolge come un sudario.
L'oscurità è tanto lontana dalla nostra esperienza giornaliera quanto il silenzio. Una volta, per illuminare, ci volevano gesti non ovvi, non facili; oggi basta uno scatto. Veniva una luce debole e tremula, oggi fissa e invadente. Di notte, non solo le città sono un agglomerato di bagliori, ma anche i luoghi solitari sono trapunti di luci che disegnano strade e case. Anche il luogo del silenzio assoluto, il firmamento, è velato dalla coltre di luce artificiale che annuvola il cielo stellato. Ci appariva come la più armonica unione di opposti: quanto più colpiva l'occhio con l'acutezza dello scintillare, tanto più si straniava dall'orecchio con l'arcano d'un assoluto tacere.

Caduto il contrasto, cade anche l'intermittenza di luce e oscurità. Questa non interrompe l'attività dell'uomo, non lo prepara al sonno. L'alternanza di giorno e notte, connaturale alla vita, si è attenuata. Tale e quale la corrispettiva di parole e silenzio. Viviamo in un'epoca in cui il silenzio è stato bandito. Il mondo è oppresso da una pesante cappa di parole, suoni e rumori. Credevano i babilonesi che gli dèi avessero inviato sulla terra il diluvio perché infastiditi dal chiacchiericcio degli uomini. Oggi manderebbero ben altro che diluvi. Una volta si percepivano solo le parole del vicino. Poca distanza bastava per sottrarsi al fastidio d'un ascolto indesiderato; oggi ci arrivano le parole dagli antipodi.
Il grembo del silenzio notturno è rotto dal fragore delle macchine. Costretti a passare una notte in luogo isolato, ci si alza irrequieti; il silenzio diventa un incubo nel sonno. Spaventa la pace della montagna, del bosco; e vi si va con la radio; spaventa la quiete dell'appartamento, e la si accende. Il silenzio infastidisce a tal punto che, dove sia imposto di tacere, si crea un rumore. Se nel corso di un discorso pubblico o di una liturgia s'impone una pausa di silenzio, immancabilmente uno si mette a tossire, una fa scricchiolare il banco, uno sfoglia le carte sottomano, una apre la borsetta. L'uomo aveva tratto dall'alternanza di giorno e notte, parola e silenzio i simboli che gli permettevano di definire fatti interiori; oggi non agiscono più. La nostra esistenza si è impoverita per non sapere tradurre in figure interiori quelle esperienze primordiali.
L'apice del silenzio di ascolto si ha quando la parola stessa si presenta silenziosa senza perdere alcunché della sua vitalità: nella lettura. È l'incontro di una parola senza suono con un destinatario senza voce, in perfetta solitudine. Il lettore è solitario perché, mentre legge, crea col libro un rapporto esclusivo. Due lettori affiancati che leggono ciascuno per conto suo lo stesso libro sono solidali con esso e non reciprocamente. Il lettore è silenzioso perché la lettura, com'è praticata ordinariamente nell'età moderna, esclude la pronuncia anche mormorata. Comporta non solo l'ascolto più intenso che si possa immaginare, ma anche il più libero, perché non costretto dall'emissione vocale altrui: libero nelle soste, nei ritorni, nei ripercorsi e tuttavia totalmente vincolato alla parola così com'è fissata sulla pagina.
Se la stampa è fedele all'originale dell'autore, la parola di lui, non pronunciata, non giace morta sulla pagina. La scrittura incorpora i suoni e i sensi come una donna incinta da lui fecondata. Il lettore ne sente i sobbalzi vitali negli accenti, nei corsi ritmici, nelle rime e assonanze. Le forme stesse dei caratteri, se correttamente aggraziate, assecondano la vita silenziosa lì deposta. Tutta la mente, tutte le facoltà si concentrano su quell'andirivieni destrorso dell'occhio di rigo in rigo. Quando il raccoglimento gli fa cadere il libro di mano, lo lascia cadere senza rimpianto, perché al silenzio dell'ascolto è subentrato in lui il silenzio del ricordo di ciò che ha letto.

Morta nel silenzio dell'ascolto, la parola rigermoglia nel silenzio fervido che l'avvolge. Assimilata e ricreata attraverso la meditazione, si delinea come un essere nuovo. Se il grano non muore non fa frutto. La morte del seme è la vita della pianta. E proprio la pianta, unico essere della natura che sia insieme silenzioso e animato, si offre a noi come l'immagine più consona di ciò che accompagna le pause dopo la lettura. Silenziosa e piena di vita, la pianta fa uscire dal seno del seme la foglia, e il fiore che si esibisce in un trionfo di forme e colore, e il frutto generoso di succhi e dolcezze.
Tale è la parola meditata dopo esser stata letta. Una speculazione che ha attraversato il cristianesimo da Origene a noi ha collocato al seguito della lectio la meditatio, e dopo questa l'oratio. Lì qualificata come divina, e perciò ristretta all'ambito di un parlare a Dio, la giuntura vale per ogni discorso umano agganciato alla lettura.
Dal bulbo della lectio nasce lo stelo della meditatio, sulla cui cima si apre il giglio dell'oratio in forma di parole ricordate, ricombinate, rielaborate, reinventate, ricopiate (lo spirito alto e puro copia, il mediocre imita). Non fa differenza se si svela nella sonorità della pronuncia o nel raccoglimento della scrittura, perché ambedue sono ugualmente figliate dalla memoria. Anzi la seconda più assomiglia alla madre.

La scrittura si depone nel silenzio quanto la lettura, ma con un moto inverso: l'una attinge dall'alfabeto il senso e lo affonda nello spirito; l'altra ve lo estrae e lo effonde sulla pagina tracciandone il sentiero. È un cammino silenzioso. L'inchiostro gocciola senza gemere, la penna scorre sul liscio del foglio senza grattare. Riempita la pagina, le curve e le aste dei caratteri disegnano sul bianco del foglio armonici contorni come quelli dei fiori sul piano dell'aiuola a formare un tutt'uno solitario. Emanano il senso come quelli il profumo.
È un incanto esiliato dalle macchine scrivane, con il loro ticchettio oscillante. Opera delle dita mosse da mani inerti e fisse, e non dalla mano intera che avanza con passo sincrono col corso della parola, il testo scritto a macchina esce al mondo per operazione cesarea e non per parto naturale. Tanto più nella nuova rappresentazione elettronica, che rompe il legame tradizionale fra il supporto e la scrittura, inseparabili finora.
La stabilità stessa del testo si dilegua, la compattezza si frantuma. La ricezione dell'ascolto è simultanea alla riproduzione del messaggio senza intervallo di memoria, le dita non mediano, dominano. I caratteri non rappresentano più il silenzio eloquente del testo impresso sulla pagina bianca, ma la loquacità muta della folla metropolitana.

Incrociarsi senza salutarsi, stiparsi senza toccarsi, fissarsi con sguardo fuggitivo, incontrarsi senza un legame in una solitudine di massa irrequieta, tale è la sorte della parola ballerina sullo schermo. Potrà ancora l'anima dimorare nelle stanze della quiete? E, come Maria, nel silenzio del fiat mihi concepire e generare la Parola? Potrà l'uomo accedere ai percorsi della lectio e dell'oratio per salire alla vetta della contemplatio? (...)
La cella e il libro sono le stanze della solitudine e del silenzio. Della solitudine, la cella, non casupola di frasche nel deserto, né carcere murato, ma collocata al centro dell'uomo: il cuore che mai non dorme, vigile nell'ascolto, metafora assoluta dell'abitacolo e metonimia dell'intera persona umana. Una cella segreta dove, al dire di Angela da Foligno, «sta tutto il bene che non è qualche bene; quel così tutto bene che non è nessun altro bene» (Memoriale, IX, 400).
Del silenzio, il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell'oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace.


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