Manzoni: la storia, la morale, il racconto ne I Promessi sposi e La colonna infame.
Conferenza di Vincenzo Lavenia

Mettiamo a disposizione on-line la trascrizione della conferenza su Alessandro Manzoni del ciclo “Leggere i classici” - organizzato dall’Associazione Guido Sacchi-Il piacere d’imparare e dal Centro culturale L’Areopago - tenuta dal prof.Vincenzo Lavenia il 24 febbraio 2006.
Il prof. Lavenia si è formato e svolge la sua attività di ricerca alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Si occupa di storia moderna, e in particolare di storia dell’Inquisizione romana, di storia della teologia e di storia del diritto tra Cinque e Seicento. Ha scritto anche di storia della stregoneria e di storia del concetto di “guerra giusta” e di “guerra santa”. E’ redattore delle riviste “Il ponte” e “Novecento”. Per i tipi de Il Mulino di Bologna ha pubblicato L’infamia e il perdono, Tributi, pene e confessione nella teologia morale della prima età moderna (2004).

Il Centro culturale Gli Scritti


Ringrazio molto il Centro Culturale “L’Areopago” e l’Associazione “Guido Sacchi – Il piacere d’imparare” istituita in memoria di Guido, per l’invito a parlare con voi. La scelta del tema dell’incontro ha comportato per me qualche problema. Non credo infatti che Guido amasse Manzoni; non era tra i suoi autori preferiti, per quanto mi ricordi. Per di più alla Scuola Normale, dove abbiamo studiato negli stessi anni, Manzoni è considerato (c’è un mio collega tra il pubblico che potrà confermarlo), un letterato mediocre, noioso e scolastico, di cui si capisce poco la grandezza. Alla fine, come vedete, ho scelto comunque Manzoni soprattutto perché volevo un autore cattolico al modo di Guido: cattolico e illuminato. Volevo un autore che fece del cattolicesimo (cattolicesimo acquisito dopo una conversione; diciamo così ‘non primigenio’) una via per accostarsi al mondo e al nodo della verità (era questo il problema che assillava Manzoni: la verità, e la sua comunicazione a un pubblico vasto). E volevo un autore che avesse trattato il problema della giustizia in un secolo, il Seicento, che è stato il terreno sul quale io, che faccio ricerca storica, e Guido, fine interprete di testi letterari, ci incontravamo. Poco prima di mancare Guido mi disse che voleva studiare le censure dell’Indice e dell’Inquisizione romana (il mio campo di indagine) alla letteratura italiana: un tema che ha una tradizione di studi che risale a un vecchio testo di un critico letterario di nome Sorrentino. Il suo volume uscì negli anni Trenta, sotto il fascismo; dopo di allora la questione della censura si è affacciata più volte all’attenzione del mondo della ricerca, senza però che nessuno sia stato capace di portare a termine un’interpretazione complessiva del problema, neppure dopo l’apertura degli archivi voluta da papa Wojtyla nel 1998. Ecco, Guido avrebbe voluto farci una ricerca che, come altri suoi progetti, non ebbe il tempo di avviare. Sono convinto che sarebbe stato un gran bel lavoro, e che lui avesse la sensibilità più adatta per trattare di quel tema. Prendete quello che dirò adesso come un omaggio all’amicizia, ai lumi e alla religione di Guido.

Dato che Manzoni si studia nelle scuole, credo di potere dare per scontati alcuni presupposti di ciò di cui parlerò, e di poter andare direttamente al nocciolo della questione. Manzoni scoprì presto di non amare la lirica; a un certo punto l’abbandonò perché gli interessava altro. Manzoni si diede alla prosa e scelse il genere del romanzo: un genere che in Italia ha avuto e ha una certa ‘sfortuna’ perché la tradizione letteraria italiana è prevalentemente poetica e lirica. Dunque Manzoni fece una scelta precisa: scrivere un romanzo. Adesso potrà sembrarci un’operazione facile, tanto più che siamo in un’epoca di decadenza della poesia, seppellita, mi dicono gli amici letterati, dalla musica leggera. E tuttavia al tempo di Manzoni quella scelta di campo fu coraggiosa. Certo, nel XVIII secolo, prima che Manzoni ponesse mano alla sua storia milanese, esistevano già alcuni esempi di romanzo in lingua italiana; ma la scrittura della vicenda di Renzo e Lucia segnò comunque uno scarto e l’adozione in Italia del genere nuovo del romanzo storico. Adozione, non invenzione: perché la letteratura italiana, dopo il Cinquecento, non inventò più nulla, e anzi si provincializzò. Quale scarto con il passato medievale e rinascimentale, quando l’Italia potè vantare la cattedrale teologica di Dante, la lirica di Petrarca, Boccaccio e la nascita della novellistica urbana, il poema di Ariosto e il realismo di Machiavelli! A partire dagli anni Venti del Seicento, dopo il Marino che Guido studiava, gli italiani cessarono quasi di inventare. Per di più un pubblico per il romanzo mancò a lungo anche dopo Manzoni; e questo spiega perché i letterati italiani abbiano continuato a scrivere (e spesso maluccio) pochi romanzi - e a scriverne di poco romanzeschi. La tradizione italiana era, ed è rimasta fino a tempi recenti, una tradizione aulica destinata a un pubblico ristretto.
Da Milano, che di tutte le città italiane del tempo era la meno provinciale, Manzoni si pose il problema del romanzo e fu costretto a mettersi in sintonia con i dibattiti contemporanei che appassionavano altri paesi europei. Basti ricordare dove nacque il romanzo: in Inghilterra, tra Sei e Settecento. Londra era diventata la città più popolosa d’Europa; i suoi abitanti compravano i primi giornali; la rivoluzione industriale, a metà del XVIII secolo, scardinava i modi tradizionali del vivere rurale e commerciale. Nasceva un pubblico che non si accontentava più del teatro e del melodramma, che fino al Settecento fu anch’esso un fenomeno letterario di corte. Un pubblico che voleva storie con gente comune. La letteratura scritta, per la prima volta, si pose il compito di superare un pubblico ristretto, e lo fece inventando il romanzo moderno. Vi si raccontavano storie ordinarie (ma con trame rocambolesche), e si mischiavano toni alti e toni bassi, argomenti seri e argomenti ‘medi’, ‘commedia’ (si sarebbe detto con la teoria classica dei generi) e ‘tragedia’. Insomma, il romanzo divenne la forma di comunicazione più adatta a un pubblico esteso che aumentava con il relativo avanzare dell’alfabetizzazione e dell’urbanesimo; con la maggiore disponibilità di tempo libero. Era il pubblico di una nazione sviluppata e unificata.

Quando Manzoni scriveva, l’Italia non era né unificata né dotata di una grande capitale. La più grande città era Napoli: serbatoio di antico regime lontanissimo dai modelli di Londra e della stessa Parigi. Manzoni, dunque, si pose come primo problema quello della lingua in cui scrivere un romanzo per il pubblico italiano, e si scontrò con l’evidenza di una tradizione letteraria troppo alta ed elitaria per il racconto moderno di vicende ‘comuni’. Pensate alla lingua di Foscolo, pensate al neoclassicismo. Manzoni fece perciò quello che Dante aveva fatto cinque secoli prima: inventò, per la seconda volta, l’italiano scritto. Ci sarà un terzo momento in cui il nostro paese reinventerà la sua artificialissima lingua, nata sulla pagina e a lungo estranea alle masse, e sarà l’avvento della RAI, negli anni Cinquanta del Novecento: con “Lascia o Raddoppia”, i teleromanzi e i telegiornali (non più con la pagina letteraria) l’italiano divenne davvero la lingua unificata di una nazione unificata già da un secolo. Del resto, il buon Manzoni aveva fatto, nell’Ottocento, quel che aveva potuto e fin dove aveva potuto: trasformare un italiano alto, aulico, in una lingua comprensibile per tutti, o, per meglio dire, per tutti coloro che lo potevano comprendere. Va ricordato, infatti, che lo stesso pubblico ‘ideale’ di Manzoni corrispondeva comunque a fascia ben ristretta della popolazione italiana.

Con la lingua, la seconda questione che si pose Manzoni fu un problema schiettamente illuministico e religioso insieme: il problema della verità. Questo spiega perché il suo romanzo non poteva che essere storico. Il genere del romanzo ha i suoi sottogeneri, ovviamente; e il sottogenere che trionfava all’inizio dell’800 era quello del romanzo storico, appunto, in un secolo in cui la Storia divenne l’asse centrale della cultura occidentale. Lo divenne, va ricordato, per reazione alla Rivoluzione francese, di cui Manzoni era stato un moderato simpatizzante, perché l’universalismo rivoluzionario (l’idea di esportare ovunque e allo stesso modo i valori di libertà, uguaglianza e fraternità) si era rivelato, soprattutto dopo l’avvento di Napoleone, un modo per giustificare la conquista di popoli stranieri. Idee nate per liberare erano diventate, come spesso è accaduto nella storia umana, parte di un giogo che aveva oppresso la Germania, la Spagna e la stessa Italia. Quando il regime di Napoleone collassò, i paesi dell’Europa cominciarono a riscoprire le proprie tradizioni nazionali, in opposizione all’illuminismo e all’idea, piuttosto astratta, che la cultura dei lumi potesse unificare e superare facilmente i confini statuali. Ciò comportò un ritorno alla Storia, che ebbe come risvolto una rivalutazione del medioevo che l’illuminismo, al contrario, aveva condannato come epoca oscura (epoca di superstizioni e di completo dominio della Chiesa). L’Ottocento finì così per riabilitare la religione e il cristianesimo, non solo come fattore d’ordine ma anche come elemento di identità storica nazionale. Nacquero inoltre le filosofie della Storia (Hegel, ma non solo) e si affinò la tecnica degli storici di mestiere. Si cominciò, per esempio, ad andare negli archivi e a scrivere libri di storia in cui la prova documentaria, magari citata a pie’ di pagina, divenne sempre più centrale (si pensi all’opera di Ranke). Insomma, l’Ottocento, almeno fino agli anni Cinquanta, fu il secolo della Storia e, insieme, del romanzo storico. E’, questa, una delle due facce (la più ‘sobria’) del fenomeno romantico (l’altra è quella lirica e titanica). Ma va ricordato che Manzoni fu romantico fino a un certo punto.

I romanzi storici ebbero fortuna e pubblico molto vasti. Quando Manzoni si apprestava a raccontare la storia della peste di Milano, i romanzi di Walter Scott (ambientati nel medioevo inglese) erano tradotti in tutta Europa perché i lettori potessero appassionarsi alle gesta dei cavalieri. Manzoni, tuttavia, non voleva scrivere una storia di eroi: voleva scrivere una storia ‘dal basso’, primo fattore che rivela, io credo, quanto la religione abbia contato nelle sue scelte letterarie. Il cristiano Manzoni evita così i cavalieri e rompe con la tradizione italiana; sceglie di raccontare la storia di due contadini e di non di ambientarla, come avveniva in altri esempi di romanzo europeo, nel mitico medioevo cristiano. Perché, è lecito chiedersi? Perché, anzitutto, lo interessava ragionare della decadenza dell’Italia: si poteva forse scegliere un’età, il medioevo, in cui l’Italia fu all’apice della ricchezza e della cultura per ragionare di decadenza? Non era meglio guardare alla dominazione spagnola e al Seicento, tanto più che l’Italia, a contrario della Francia e dell’Inghilterra, non poteva inventarsi un’epopea nazionale?
Nacque così, per tappe, la storia degli sposi le cui nozze furono ostacolate: come ricorderete, il testo ebbe tre stesure, l’ultima del 1840; la Colonna infame tre pure, l’ultima del 1842. E tuttavia Manzoni non si limitò a scrivere: aveva, infatti, fin troppa consapevolezza di ciò che faceva come letterato. L’operazione di Manzoni - questo si vuole dire - fu allo stesso tempo un’operazione di scrittura e di riflessione sulla scrittura. Non è un caso che ci abbia lasciato un’opera che fu pubblicata nel 1845 ma che, come spesso accadde in Manzoni (che era solito arrovellarsi, cancellare e riscrivere molte volte le stesse pagine), risaliva – almeno come progetto - a molti anni prima. Si tratta dell’opera Del romanzo e in genere de' componimenti misti di storia e invenzione. In quelle pagine Manzoni si pose il problema di come scrivere un romanzo e tentò di focalizzare il nodo del rapporto tra invenzione e vero, specie nel romanzo storico. Per Manzoni, infatti, scrivere era uno sforzo tanto più morale quanto meno si inventava. Un paradosso, quasi, per un letterato! Nel corso della sua vita di uomo e di scrittore Manzoni cancellò l’iniziale cotta per le ‘favole’ fino a far coincidere il proprio lavoro con quello di uno storico di professione. Manzoni, insomma, parte da lirico e muore da storico, scrivendo veri e propri libri di storia e ponendosi questioni di storia (il ruolo dei longobardi in Italia, per esempio). E’ come se, nel corso della sua vita, Manzoni abbia voluto approdare a una completa e sofferta soppressione della letteratura.
Se il suo problema fu quello di stabilire i confini morali, oltre che estetici, dell’invenzione letteraria, ciò era tanto più controverso affrontando il nodo della natura del romanzo storico, che aveva pretese di vero. Cosa inventare e cosa non inventare, come descrivere una storia, come aderire al vero e nello stesso tempo conservare la struttura letteraria, che è una struttura di invenzione? Riecheggiando Vico, Manzoni scrisse: «la letteratura nacque, in epoca primitiva, come storia» (cito appunto dal testo del 1845). L’Iliade e l’Odissea erano la storia dei greci: nessuno, leggendole, si poneva il problema di distinguere il vero e il falso. Dopo di allora la poetica letteraria aveva invece contemplato una netta distinzione tra il vero e il falso, tra finzione e storia. Nel corso dei secoli i due elementi si erano divaricati fino quasi a confliggere. Il cruccio di Manzoni fu di capire come fare a reincollare due piani che si erano scollati in oltre due millenni di letteratura occidentale. La soluzione, a suoi occhi, era l’adozione del genere del romanzo storico. Ma si trattava, scrisse, di un genere comunque precario, perché il conflitto tra vero e invenzione vi si risolveva solo in apparenza. Manzoni infatti sentì tutta l’impossibilità di unire letteratura e storia, e lo dimostrò nella scrittura stessa del suo romanzo, a cui fece seguire un’appendice non di finzione: la Colonna infame. Manzoni ritenne i due testi un’opera unica; ma in verità con la Colonna egli seppe praticare un genere del tutto nuovo, in Italia e forse anche all’estero: il genere del libro-inchiesta, come indagine giudiziaria e storica con tanto di fonti riportate.

Ma torniamo al romanzo e a Manzoni: un cattolico influenzato dai Lumi e dal giansenismo, e sposato a una ex calvinista. Date queste premesse biografiche, la spiritualità di Manzoni non poteva che essere segnata da Sant’Agostino e da una sorta di pessimismo antropologico. Un radicale pessimismo antropologico, per la verità: gli uomini, riteneva Manzoni, sono votati al male perché marchiati dal peccato originale. La storia, dunque, non può che essere una sequela di crudeltà e di insensatezze, interrotta, qua e là, da barlumi di Vero. E’ soltanto attraverso il rapporto fiduciario con Dio, infatti, che si può superare l’insensatezza della storia e della città terrena, agitata dalla tentazione del male. Se si guarda attentamente alla trama del romanzo, il pessimismo di Manzoni cova sotto traccia nell’intera vicenda degli sposi promessi, al punto che si potrebbe interpretare l’opera come un romanzo della follia umana. Gli uomini compiono il male gli uni contro gli altri in continuazione; e la Storia appare una sequela di accanimenti insensati, arbitrari; una catena di soprusi destinati a sopraffare soprattutto i più deboli di ogni tempo.
Tuttavia il cattolico Manzoni vedeva ciò che un calvinista, forse, non saprebbe vedere: il riscatto della carità, elemento che rompe il pessimismo antropologico che sottende a tutti i Promessi Sposi. L’immagine pessimistica e la tragedia della follia e della carità che Manzoni mette in scena nel romanzo precipita nei capitoli dedicati alla peste (XXXI-XXXIV). Sono pagine piuttosto note, in cui la grande storia si intreccia con tenere vicende umane, diversamente dalle parti dedicate all’avvio della guerra dei Trent’anni e alla disputa per il possesso del Monferrato, prima e ampia digressione storica in un romanzo di finzione. I capitoli della peste prendono il via con la descrizione dell’arrivo del morbo a Milano. Ebbene, se rileggete quelle pagine vedrete che si tratta quasi di un crescendo rossiniano: man mano che si va avanti, la vicenda si accelera. La peste infatti penetra lentamente, con un solo morto, e si diffonde tra la perplessità e il troppo buon senso di coloro che avrebbero dovuto governare la struttura di polizia sanitaria dello Stato di Milano. E’ come se oggi, dato l’allarme per l’aviaria, i ministri e i nostri medici ci tranquillizzassero lasciando che la pandemia si diffonda. La peste dunque penetra, e man mano che avanza è come se la follia stessa penetrasse nel corpo sociale; è come se l’umana tela dei rapporti sociali e religiosi, di carità e di semplice buon vicinato, si sfasciasse nel panico generale. Segue una seconda follia: la follia della classe politica; e qui Manzoni rivela tutta la sua adesione alla tradizione cattolica: una tradizione fatta di diffidenza nei confronti della politica e della capacità degli uomini di riformarsi attraverso il governo civile. Voltate le spalle ai Lumi, in Manzoni la politica sembra incapace di tenere a bada la bestia umana, che, complice la peste, può scatenarsi in una città abbandonata. La gente inizia così a rubare, a non seppellire i cadaveri, a non avere pudore dei morti decomposti, a non sapere più reggere le strutture ospedaliere. Manzoni scrive che solo la carità dei cappuccini e degli ordini religiosi riuscì a evitare la catastrofe di una città la cui umanità appariva completamente dilaniata. Ai capitoli XXXI e XXXII segue quello in cui don Rodrigo muore con in mano il crocifisso: una pausa finzionale, edificante e terribile, che si prolunga fino al XXXIV capitolo, aperto dall’arrivo di Renzo a Milano. Egli cerca Lucia e torna così una seconda volta sul luogo che aveva lasciato dopo il drammatico assalto ai forni, dopo il suo primo contatto con la grande storia (che nel palcoscenico della grande città, e con il contorno della folla, amplifica, evidentemente, i suoi esiti di follia). Il disfacimento è all’apice, e Manzoni non risparmia alcun colore della tavolozza per dipingerlo; non risparmia né i toni dell’alto, né quelli del basso, alternando superbe scene elegiache e quadri di ‘commedia’ per tutto il capitolo. Io ho scelto di leggere con voi due brani: uno alto, per l’appunto, e uno basso. Quello alto è ovviamente il quadretto della madre di Cecilia, che certamente molti di voi ricorderanno dalle letture fatte a scuola.

Promessi Sposi, dal capitolo XXXIV
Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla ne1 sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno; della madre, ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo, apri una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò:
- promettetemi di non levarle un filo d'intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo e di metterla sotto terra così. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole: - addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri -. Poi voltatasi di nuovo al monatto, - voi -, disse, passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola.
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.
Signore! - esclamò Renzo: - esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza.

Grazie anche alla bella lettura che ne è stata fatta, si può ricavare davvero tutta l’intensità lirica del brano (che si chiude appunto con una lirica). Ma non è solo lirica quella che abbiamo ascoltato: si tratta, infatti, di una vera e propria sacra rappresentazione, di un compianto della Madonna-Cecilia (due madri). Non deve sorprendere, in un autore di inni sacri e di testi di religione (uno dedicato alla messa). L’episodio della madre di Cecilia è un intervallo di fede, un’apparizione della stessa madre di Dio, in una sequela di follia che riparte esattamente dal punto in cui finisce il brano che abbiamo letto. Renzo cammina per le strade di Milano e, in conseguenza di una delle sue tante mosse ingenue o maldestre, viene scambiato per un untore, inseguito subito da una folla inferocita convinta che stia avvelenando Milano e pronta a linciarlo. Manzoni descrive allora il salvataggio di Renzo; un atto di bene che, come spesso accade tra gli uomini, avviene attraverso il male (le vie della Provvidenza sono infatti oscure). Renzo accosta un carro di passaggio guidato da monatti; e poiché anch’essi lo ritengono un untore, e dunque per un poco di buono che ha il merito di favorire i loro guadagni (più morti, più gente da seppellire, più lavoro), decidono di salvarlo. Renzo salta sul loro carro e il racconto assume allora un tono opposto rispetto al brano della madre di Cecilia:

Promessi Sposi, dal capitolo XXXIV
- Bravo! bravo! - esclamarono, a una voce, i monatti, alcuni de' quali seguivano il convoglio a piedi, altri eran seduti sui carri, altri, per dire l'orribil cosa com'era, sui cadaveri, trincando da un gran fiasco che andava in giro. - Bravo! bel colpo!
- Sei venuto a metterti sotto la protezione de' monatti; fa conto d'essere in chiesa, - gli disse uno de' due che stavano sul carro dov'era montato.
I nemici, all'avvicinarsi del treno, avevano, i più, voltate le spalle, e se n'andavano, non lasciando di gridare: - dagli! dagli! all'untore! - Qualcheduno si ritirava più adagio, fermandosi ogni tanto, e voltandosi, con versacci e con gesti di minaccia, a Renzo; il quale, dal carro, rispondeva loro dibattendo i pugni in aria.
- Lascia fare a me, - gli disse un monatto; e strappato d'addosso a un cadavere un laido cencio l’annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche, l'alzò come una fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo, gridando: - aspetta, canaglia! - A quell'atto, fuggiron tutti, inorriditi; e Renzo non vide più che schiene di nemici, e calcagni che ballavano rapidamente per aria, a guisa di gualchiere.
Tra i monatti s'alzò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un – uh! - prolungato, come per accompagnar quella fuga.
- Ah ah! vedi se noi sappiamo proteggere i galantuomini? disse a Renzo quel monatto: - val più uno di noi che cento di que' poltroni.
- Certo, posso dire che vi devo la vita, - rispose Renzo: - e vi ringrazio con tutto il cuore.
- Di che cosa? - disse il monatto: - tu lo meriti: si vede che sei un bravo giovine. Fai bene a ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro, che non vaglion qualcosa, se non quando son morti;
che, per ricompensa della vita che facciamo, ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la morìa, ci voglion fare impiccar tutti. Hanno a finir prima loro che la morìa; e i monatti hanno a restar soli, a cantar vittoria, e a sguazzar per Milano.
- Viva la morìa, e moia la marmaglia! - esclamò l'altro; e, con questo bel brindisi, si mise il fiasco alla bocca, e, tenendolo con tutt'e due le mani, tra le scosse del carro, diede una buona bevuta, poi lo porse a Renzo, dicendo: - bevi alla nostra salute.
- Ve l'auguro a tutti, con tutto il cuore, disse Renzo: - ma non ho sete; non ho proprio voglia di bere in questo momento.
- Tu hai avuto una bella paura, a quel che mi pare, disse il monatto: - m'hai aria d'un pover'uomo; ci vuol altri visi a far l'untore.
- Ognuno s'ingegna come può, - disse l'altro.
- Dammelo qui a me, - disse uno di quelli che venivano a piedi accanto al carro, - ché ne voglio bere anch'io un altro sorso, alla salute del suo padrone, che si trova qui in questa bella compagnia... lì, lì, appunto, mi pare, in quella bella carrozzata.
E, con un suo atroce e maledetto ghigno, accennava il carro davanti a quello su cui stava il povero Renzo. Poi, composto il viso a un atto di serietà ancor più bieco e fellonesco, fece una riverenza da quella parte, e riprese: - si contenta, padron mio, che un povero monattuccio assaggi di quello della sua cantina? Vede bene: si fa certe vite: siam quelli che l'abbiam messo in carrozza, per condurlo in villeggiatura. E poi, già a loro signori il vino fa subito male: i poveri monatti han lo stomaco buono.
E tra le risate de' compagni, prese il fiasco, e l'alzò; ma, prima di bere, si voltò a Renzo, gli fissò gli occhi in viso, e gli disse, con una cert'aria di compassione sprezzante: - bisogna che il diavolo col quale hai fatto il patto, sia ben giovine; ché, se non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un bell'aiuto -. E tra un nuovo scroscio di risa, s'attaccò il fiasco alle labbra.
- E noi? eh! e noi? - gridaron più voci dal carro ch'era avanti. Il birbone, tracannato quanto ne volle, porse, con tutte e due le mani, il gran fiasco a quegli altri suoi simili, i quali se lo passaron dall'uno all'altro, fino a uno che, votatolo, lo prese per il collo, gli fece fare il mulinello, e lo scagliò a fracassarsi sulle lastre, gridando: - viva la morìa! - Dietro a queste parole, intonò una loro canzonaccia; e subito alla sua voce s'accompagnaron tutte l'altre di quel turpe coro. La cantilena infernale, mista al tintinnìo de' campanelli, al cigolìo de' carri, al calpestìo de' cavalli, risonava nel voto silenzioso delle strade, e, rimbombando nelle case, stringeva amaramente il cuore de' pochi che ancor le abitavano.

Il brano è davvero sinistro: una specie di trionfo della morte con tanto di carro funebre. Un macabro carnevale descritto in un tono che fa abbassare il registro romanzesco per tentare una realistica messa in scena di classi sociali e umane infime. Non possiamo dire che la mimesi sia del tutto riuscita (non poteva anche per ragioni di lingua letteraria); ma certo Manzoni prova a rappresentare l’abisso dopo aver messo in scena il sublime. Ecco, questa è la grandezza del romanzo: all’interno di un solo capitolo quadri di carità e di umana follia. Verità, insomma.

Ma i capitoli sulla peste sono, come dicevo, anche i capitoli in cui precipita il problema di Manzoni: il nodo della verità e del rapporto fra finzione e storia. Egli chiude così il XXXII capitolo ponendosi il problema di come descrivere un fatto attraverso l’oggettività delle fonti. Si pone cioè un problema che è schiettamente storico, di verità documentata passo passo. Un romanziere può anche pennellare, limitarsi a rappresentare un secolo per come vuole immaginarlo. Manzoni invece si pose il problema di dire esattamente la verità come davanti a un tribunale. Il romanzo, del resto, attinge a una cronaca secentesca: quella stilata da Ripamonti per raccontare Milano all’epoca di Federico Borromeo, di cui era storico diciamo ‘ufficiale’. I tratti agiografici di Borromeo, evidenti nel romanzo, riprendono in qualche modo da quelli della cronaca. Ma Manzoni seppe andare al di là di una sola fonte, per stilare una vera e propria storia della paura delle unzioni (limite estremo di follia in cui precipitano il malgoverno, il collasso del sistema sanitario, le ruberie e i soprusi, l’incapacità della giustizia terrena e la stessa cecità umana). Una storia che trabordò dai capitoli XXXI e XXXII dei Promessi Sposi per divenire un’opera a sé. La storia di un processo e della colonna infame di Milano.

La peste del 1630, in Italia e non solo in Italia, ripropose un timore che era già comparso all’altezza della prima grande peste dell’età moderna (quella del 1576): la credenza nelle unzioni. Vi ricordere, almeno da Boccaccio, della prima peste nera del 1348: ebbene, già a quel tempo si parlò di avvelenamenti di pozzi. Due secoli dopo la paura fu ancora più forte: la voce che, in qualche modo, il morbo si diffondesse per la volontà criminale di alcuni uomini e donne fu quasi unanime. Oggi, nell’era degli antibiotici, sappiamo che si trattava di contagio; e tuttavia anche in quel tempo non mancavano le conoscenze mediche e le strutture sanitarie in grado di arginare l’epidemia. Inoltre non mancarono quanti, ragionevolmente, sospettarono che si trattasse non di veleni, ma di contagio. Eppure la paura dilagò quasi senza contromisure. Perché, potremmo chiederci? Perché le unzioni erano una variante della credenza nella stregoneria diabolica, dell’idea che esistessero persone che attraverso un patto con il diavolo, talvolta adorato nei sabba raggiunti dopo un volo notturno, assumevano poteri di maleficio capaci di danneggiare i loro simili. La credenza nelle streghe e la loro caccia, che tutti pensano risalire al medioevo, in realtà furono fenomeni della prima età moderna, esplosi (pensate un po’) nell’epoca del Rinascimento. All’altezza del 1630 si toccava il culmine dei roghi, anche se in quegli anni se ne accesero pochissimi in Italia (merito questo dell’Inquisizione romana, che smise di dare credito alla accuse senza tuttavia mai sconfessare la credenza). Con la peste il bersaglio non furono le presunte streghe, ma un genere maschile: quello degli untori, appunto, che, come le maliarde (ma non necessariamente con mezzi diabolici) maleficiavano e avvelenavano le città. Di fronte al collasso della capacità di governo di Milano il bisogno di individuare capri espiatori fu molto forte. Lo è sempre, quando le autorità civili o religiose devono coprire i loro fallimenti, o quando si deve spiegare l’inspiegabile; quando si deve calmierare una paura. Ebbene, le autorità di Milano non fecero nulla per sconfessare una credenza che si diffuse dal basso e arrivò fino ai vertici. Frutto della convenienza o della credulità, o dell’una e dell’altra, la paura negli untori coprì del tutto l’ipotesi che la peste derivasse da contagio, con esiti assai funesti.

I capri espiatori, infatti, ebbero un volto quando una mattina due donne si affacciarono dal balcone di casa e videro un commissario della sanità di Milano che stava ispezionando delle pareti, forse proprio per accertare se c’erano o non c’erano unzioni (vittima egli stesso della credenza per cui avrebbe patito). Bene, le donne diffusero subito la diceria, diventata ben presto fama, che l’uomo stesse avvelenando Milano. Si chiamava Guglielmo Piazza, arrestato poco dopo quando la voce arrivò a un magistrato. Tradotto in carcere, Piazza viene torturato. Oggi, pur in un’epoca di ritorno alla tortura (negli ultimi anni è diventato di moda per gli occidentali ricorrere alla tortura), ciò può apparire efferato; e tuttavia la tortura nel sistema giudiziario dell’epoca (nella “procedura inquisitoria”, che risaliva al diritto romano, ma venne perfezionata dall’Inquisizione papale a partire dalla sua nascita, e poi adottata anche nel sistema penale secolare) era altra cosa da come potremmo intenderla noi: un castigo applicato al di fuori delle regole. Il sistema giudiziario dell’epoca, infatti, prevedeva questo: che per essere mandata a morte, per meritare giuridicamente la pena capitale, una persona indiziata per via della fama doveva essere inchiodata soprattutto da due prove: la testimonianza identica di due testimoni “contestes” (cioè che riferivano la stessa cosa) e la confessione dell’accusato. Bisognava confessare e sottoscrivere la confessione, senza la quale non si poteva essere mandati a morte perché non esisteva la prova ‘regina’ della colpevolezza. Per avere la confessione dell’imputato, dunque, si applicava la tortura, che non era, ripeto, una pena, ma parte della procedura penale inquisitoria (cioè mossa da un ufficio giudiziario). La tortura aveva tuttavia le sue regole: il diritto dell’epoca, infatti, non ammetteva che si potesse essere squassati a totale arbitrio del giudice (salvi, è ovvio, i casi di violazione della corretta procedura). Il sistema di tortura più frequente era quello della fune, con la quale l’imputato veniva sollevato e strattonato a forza con le braccia legate dietro. Ma ciò poteva avvenire soltanto per un tempo limitato, con una serie di ripetizioni previste dal diritto, e consultati i medici. L’orrore, ecco il punto, aveva una sua codificazione.

Durante la tortura Piazza, a cui viene promessa l’impunità, si pente e si dice colpevole, cominciando a fare i nomi dei presunti complici (era previsto infatti che sotto tortura si potesse, in alcuni casi, chiedere dei complici). Coinvolge così un barbiere di nome Mora, che viene arrestato subito anche perché la sua, in tempi di contagio, appariva una professione sospetta (la parola ‘barbiere’ indicava allora il mestiere di una specie di medico di primo livello, un po’ infermiere, un po’ chirurgo, un po’ dentista, un po’ ortopedico, un po’ farmacista votato a intrugliare pozioni). Mora viene a sua volta arrestato e torturato e anch’egli spiffera i nomi di altri presunti complici, tra i quali è un cavaliere spagnolo (occorreva uno straniero per un complotto degno di questo nome). Si chiamava Padilla ed era figlio del governatore di una piazza militare. Viene arrestato anch’egli, ma, al contrario degli altri, salva la pelle perché di classe sociale superiore, e quindi in grado di pagarsi un buon avvocato (anche oggi, quelli che vengono condannati alla pena di morte, nei paesi dove vige questa barbarie, sono spesso i poveri). Altri imputati sono i Migliavacca, padre e figlio, che ci rimettono le penne, con tanto di confisca dei beni. La casa di Piazza, uomo immeritevole di pietà, viene demolita e sulle sue macerie viene eretta una colonna in memoria del complotto: un monumento, insomma, come dal XX secolo in poi siamo abituati a farne in onore del milite ignoto o dei nostri morti più illustri. La colonna di Piazza non era però una stele che monumentalizzava una memoria esemplare, ma triste. Per questo a Milano fu subito conosciuta come la “colonna infame” che dannava la memoria degli untori.

Padilla, come ho detto, salvò la pelle perché l’avvocato riuscì a smontare il meccanismo con cui i giudici erano giunti a moltiplicare il numero degli accusati. Mentre la peste cominciava a diminuire e cessava l’emergenza di trovare e punire untori, fatti fuori i primi quattro, cinque imputati, la macchina processuale si raffreddava. L’avvocato seppe approfittarne, dopo avere ottenuto copia degli atti di un processo che seppe volgere a vantaggio del suo iberico cliente. Quegli atti sono oggi scomparsi, ma sopravvive proprio la copia appartenuta all’avvocato di Padilla, su cui si basa la ricostruzione di tutte le storie del caso. Nel Settecento essa fu riscoperta da un mezzo parente di Manzoni. Si tratta di Pietro Verri, celebre illuminista italiano, fondatore di una rivista letteraria e autore un libro intitolato Osservazioni sulla tortura. In quel testo, in cui si servì anche degli atti del processo agli untori, egli sostenne una tesi semplice e lineare: che gravi errori giudiziari come quello di un secolo e mezzo prima si spiegavano solo con il fatto che si applicava la tortura, che portava inevitabilmente a confessioni false ed estorte e alla chiamata di correo verso innocenti. Aboliamo l’istituto, scrisse con illuministica fiducia, e avremo abolito anche il male. Nel frattempo il suocero di Manzoni, Cesare Beccaria, scriveva uno dei testi più fortunati dell’illuminismo: il trattato Dei delitti e delle pene, in cui sostenne che, insieme con la tortura, era bene cancellare anche la pena di morte. Entrambi i nobili milanesi centrarono i loro obiettivi: sotto l’illuminato dominio austriaco, infatti, ottennero l’uno, Verri, l’abolizione della tortura (e la demolizione della colonna infame, che viene ancora descritta da Parini in una delle sue odi), e l’altro, Beccaria, l’abolizione della pena di morte dall’ordinamento giuridico dell’Austria asburgica e dell’Austria italiana.

Le Osservazioni sulla tortura, che apparvero nel 1777, precedono di circa mezzo secolo la prima stesura dei Promessi Sposi e la seconda della Colonna infame. La prima, infatti, era stata stilata come appendice al Fermo e Lucia, cioè insieme con il primo progetto di romanzo. Manzoni, allora, scrisse un’appendice storica che negli anni seguenti avrebbe rifatto due volte, fino alla versione del 1842 che intitolò, semplicemente, Storia della colonna infame. L’uscita del testo, pubblicato per molto tempo insieme con il romanzo, veniva annunciata già in un passo dei Promessi Sposi del 1840. Se si legge un brano dello stesso capitolo insieme con l’incipit della Colonna si capisce quanto i due testi siano legati, quasi come siamesi.

Promessi Sposi, dal capitolo XXXI
Nessuno scrittore d'epoca posteriore s'è proposto d'esaminare e di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicché l'idea che se ne ha generalmente, dev'essere, di necessità, molto incerta, e un po' confusa: un'idea indeterminata di gran mali e di grand'errori (e per verità ci fu dell'uno e dell'altro, al di là di quel che si possa immaginare), un'idea composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo, cioè senza intelligenza di causa e d'effetto, di corso, di progressione. Noi, esaminando e confrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni stampate, più d'una inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane) documenti, come dicono, ufiziali, abbiam cercato di farne non già quel che si vorrebbe, ma qualche cosa che non è stato ancor fatto. Non intendiamo di riferire tutti gli atti pubblici, e nemmeno tutti gli avvenimenti degni, in qualche modo, di memoria. Molto meno pretendiamo di rendere inutile a chi voglia farsi un'idea più compita della cosa, la lettura delle relazioni originali: sentiamo troppo che forza viva, propria e, per dir così, incomunicabile, ci sia sempre nell'opere di quel genere, comunque concepite e condotte. Solamente abbiam tentato di distinguere e di verificare i fatti più generali e più importanti, di disporli nell'ordine reale della loro successione, per quanto lo comporti la ragione e la natura d'essi, d'osservare la loro efficienza reciproca, e di dar così, per ora e finché qualchedun altro non faccia meglio, una notizia succinta, ma sincera e continuata, di quel disastro.

Uniamo adesso ciò che nelle scuole viene di solito diviso:

Colonna infame, dall’introduzione
Ma dalla storia, per quanto possa esser succinta, d'un avvenimento complicato, d'un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini, devono necessariamente potersi ricavare osservazioni più generali, e d'un'utilità, se non così immediata, non meno reale.
Anzi, a contentarsi di quelle sole che potevan principalmente servire a quell'intento speciale, c'è pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma falsa, prendendo per cagioni di esso l'ignoranza de' tempi e la barbarie della giurisprudenza, e riguardandolo quasi come un avvenimento fatale e necessario; che sarebbe cavare un errore dannoso da dove si può avere un utile insegnamento. L'ignoranza in fisica può produrre degl'inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s'applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all'efficacia dell'unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell'esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate; e dal non dimenticar questa dipende il giudicar rettamente quell'atroce giudizio. Noi abbiam cercato di metterla in luce, di far vedere che que' giudici condannaron degl'innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell'efficacia dell'unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com'ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d'ingegno, e ricorrere a espedienti, de' quali non potevano ignorar l'ingiustizia.

La parola chiave, nel brano e in tutta l’opera di Manzoni, è ovviamente “verità”; e tuttavia nel racconto delle unzioni il Manzoni illuminista e il Manzoni cristiano non parlano più la stessa lingua. Un illuminista come Verri avrebbe scritto (e scrisse) che la riforma della giustizia umana poteva incidere sulla storia: abolendo l’istituzione della tortura si sarebbe abolito il male di processi costruiti sulla violenza. Il cattolico Manzoni sostiene un punto di vista quasi contrario: perché mai giustificare l’errore umano in presenza di istituzioni malate? Cessa forse la responsabilità personale (potremmo dire, con parole più teologiche, ‘il libero arbitrio’) se in un secolo si agisce con forme giuridiche poco illuminate? Anche nelle epoche più tristi e oscure, fece osservare Manzoni, l’uomo può agire per il bene ed evitare di colpire innocenti. E tuttavia, come poteva intervenire il libero arbitrio nel processo che Verri aveva raccontato per primo? Se la procedura del tempo prescriveva la tortura, come evitare che da essa sortissero accuse contro uomini innocenti? Manzoni studiò il diritto dell’epoca e giunse a sostenere che la tortura poteva e doveva essere applicata diversamente da come avevano fatto, in quel frangente, i giudici milanesi degli untori: dopo aver accumulato indizi a carico valevoli a comminarla; per molto meno tempo; con adeguate garanzie; con il sospetto che la confessione potesse essere falsa; senza dar seguito alla accuse; cercando magari le prove per convalidarle e senza promettere in modo indegno un’impunità che non fu mantenuta. Quei giudici, non tutti i giudici del tempo, avevano sbagliato; quei giudici che avevano agito come se la giustizia umana fosse superiore a quella divina. Dovevano per forza applicare la pena di morte; seguire la vox populi che chiedeva sangue e vendetta in nome di una credenza a cui molti, ma non tutti, davano seguito? Il cristiano Manzoni non ne è convinto e si indigna. Non sono le istituzioni che, nel bene o nel male, mettono al riparo dall’imperativo irriducibile della scelta, supremo dovere dell’anima individuale dotata di libero arbitrio. Manzoni dunque cerca di superare Verri in una questione che assume una piega etica, prima che storica, e per farlo si butta a capofitto nelle fonti secentesche. Immaginatevi Manzoni che prende quasi tutti i trattati di diritto dell’epoca per capire se i giudici degli untori avevano agito in base ai principi probatori del tempo. La risposta che ne cava è che no, non avevano rispettato le regole. Lo smontaggio del processo può apparire noioso e micragnoso come molte cose in Manzoni; ma si tratta di un atto di coraggio che consiste nel dire fino a che punto, nonostante la stoltezza di un’istituzione come la tortura, nonostante la credenza nei venefici, era comunque consentito agire bene e chiudere il processo senza morti innocenti. Il rimando alle fonti è continuo, e si tratta spesso degli stessi documenti già usati da Verri, ma con un di più, in quantità e in qualità.

Per concludere, la Colonna infame non è facile da leggere, ma si tratta di un testo di alto valore che ha avuto una fortuna controversa. Nell’Ottocento finì per essere eclissato dal romanzo e da nuove mode letterarie; nel Novecento riapparve per essere di nuovo sotterrato dalla scuola critica che faceva capo al filosofo Benedetto Croce. Per Manzoni la Storia, come contesto e - per così dire - come ‘spirito dei tempi’, non giustifica tutto; al contrario, per lo storicismo crociano tutto ciò che è stato reale è in qualche modo razionale. Banalizzando, la storia non può che essere quella che è stata, date alcune premesse. Agli occhi di Croce e dei crociani la Colonna apparve così come un’inutile e moralistica declamazione, incapace di calarsi nei tempi che pretendeva di descrivere. Un allievo di Croce, l’archivista Fausto Niccolini, nel 1937 scrisse addirittura un intero libro (Peste e untori nei Promessi Sposi) per ribadire che Manzoni non aveva capito nulla del diritto dell’epoca, e quasi nulla delle carte del processo che aveva letto. Insomma, i singoli giudici non meritavano alcuna postuma condanna, tanto più che erano le procedure il problema. Tornava, insomma, la distinzione, già propria di Verri, tra istituzione e colpa individuale. E tuttavia nel 1937 siamo in pieno fascismo. Non so se Niccolini fosse fascista (non lo era certo Croce); ma possiamo immaginare che il regime non amasse una lettura in cui si ammetteva, dato un ordinamento giudiziario malato, la scelta e la responsabilità individuale, buona magari ad arrestare una macchina infernale applicata per eliminare gli avversari politici...

La fortuna della Colonna è esplosa solo nel secondo dopoguerra, con molte contraddizioni e la solita divisione tra un partito pro e un partito contro. A proclamare la grandezza del testo è stato soprattutto Leonardo Sciascia, che ne curò in prima persona un’edizione nel 1981, dopo aver lavorato alla sceneggiatura di un film tratto dal libro, che circolò poco. Non deve sorprendere che Sciascia amasse tanto il testo manzoniano, dato che rifletteva proprio in quegli anni sugli abusi della legislazione antiterrorismo, che metteva in seria crisi un ordinamento giudiziario garantista come quello italiano. Ma Sciascia era anche ossessionato dal problema della legislazione antimafia, convinto, come fu negli ultimi anni di vita, che le leggi sul pentitismo rischiavano di incriminare ingiustamente persone innocenti. La lettura della Colonna divenne, per Sciascia, un modo di ragionare dell’applicazione della giustizia in Italia; e la fortuna del testo, da allora, è stata legata anche a dibattiti civili di questa natura. La fortuna e la sventura, visto che ad attaccare il moralismo manzoniano è stato, negli stessi anni, un giurista che collabora con il quotidiano «La repubblica», Franco Cordero. In un libro intitolato La fabbrica della peste egli ha ripreso le tesi crociane, sostenendo che Manzoni declama e mira così a salvare le istituzioni condannando gli uomini in nome di una visione della storia che non ha non ha nulla di illuministico e nessuna fede nella riformabilità della storia.

Ma c’è anche una fortuna letteraria che ha arriso al testo, se solo si pensa che con la Colonna Manzoni ha inventato un genere nuovo: quello del libro-inchiesta giudiziario e/o storico. Basti guardare all’Affaire Moro o ad altre opere di Sciascia per capire di che si tratta. Anche all’estero sono esistite opere del genere, bene inteso. Per esempio, quando alla fine dell’Ottocento un ufficiale ebreo fu accusato di avere complottato contro la Francia, il romanziere Emile Zola scrisse l’Affaire Dreyfus per discolparlo e per bollare l’antisemitismo del tempo. Ma si trattava di qualcosa di molto diverso dal testo manzoniano: cioè di un pamphlet polemico in cui la parte documentaria non rivestiva un carattere essenziale. Non così nei testi che si sono ispirati a quello di Manzoni, in cui la citazione di lettere, articoli, parti di processo e altri documenti è un elemento integrante dell’inchiesta che si vuole descrivere come atto di denuncia. Si tratta, in qualche modo, di un genere quasi italiano, esemplificato, come dicevo, soprattutto da Sciascia, che ha dedicato un saggio proprio alla Colonna. Nel libro sul caso Moro (che è costruito sulle lettere che lo statista scrisse dalla prigionia) e in altri le citazioni di Manzoni abbondano. Un altro buon esempio (ma si potrebbe trattare di una ripresa inconsapevole) è Il giudice e lo storico, un testo scritto nel 1989 da Carlo Ginzburg, uno storico di professione, per demolire il processo milanese contro Adriano Sofri in nome di una posizione innocentista difesa con lo smontaggio delle carte dei magistrati. L’esempio migliore è tuttavia Corrado Stajano, attuale collaboratore del «Corriere della Sera», che ha scritto vari libri-inchiesta basati su celebri atti giudiziari. Nel lombardo Stajano la riflessione morale e l’affresco storico diventano quasi una sola cosa come già in Manzoni. Se aprite Un eroe borghese, anch’esso del 1989 (un anno che precede di poco Tangentopoli) le prime pagine sono dedicate alla Milano degli anni Ottanta, una Milano corrotta a colpi di tangenti, con una classe politica impazzita, nella quale muore Giorgio Ambrosoli, chiamato a liquidare il Banco Ambrosiano dopo le vicende di Calvi che forse qualcuno di voi ricorderà. Ebbene, Stajano apre il libro con le seguenti parole: «di nuovo la peste, di nuovo i monatti e gli untori, questa volta untori veri, ben reali, che con unzioni parti bianche e parti gialle hanno imbrattato e incrinato le fondamenta della città». La pagina continua a descrivere una Milano appestata, rendendo chiara l’allusione al genere letterario che Stajano usa in Un eroe borghese: quello, appunto, inaugurato dalla Colonna infame. Milanese, illuminista e grande narratore e moralista, Stajano sa riflettere magistralmente sul nodo della scelta morale dei singoli anche in tempi di corruzione e di istituzioni malate, ponendosi come erede di Manzoni.

Chiudo davvero con un’ultima cosa, visto che si è parlato di Carlo Ginzburg, figlio di Natalia e di Leone Ginzburg, antifascista e primo redattore della casa editrice Einaudi. Carlo Ginzburg, negli anni Settanta del Novecento, ha saputo rinnovare anche il genere del libro di storia. Non è stato né l’unico né il primo, beninteso, perché gli storici hanno smesso di fare solo storia militare e politica da molto tempo. Ma lo ha fatto in modo speciale, inaugurando un genere che da allora si chiama microstoria. Un genere molto italiano, ma imitato all’estero, che consiste nella scelta di raccontare un piccolo fatto, una circoscritta regione e assai spesso un singolo processo giudiziario per farne un punto di partenza per l’analisi di temi più grandi o una vicenda emblematica, un frammento di mondo. Questa ricetta è stata applicata da Ginzburg in un libro famosissimo che si chiama Il formaggio e i vermi, apparso per Einaudi nel 1978. Esso descrive un processo aperto dall’Inquisizione contro un mugnaio ‘ateo’ nel Seicento friulano; e tuttavia attraverso la mentalità di questo singolare eretico semianalfabeta Ginzburg sa fare emergere credenze antichissime, analizzate in modo molto fine. Non si tratta, in questo caso, di fare denuncia; ma nel genere della microstoria una qualche eco manzoniana è comunque rintracciabile. Si pensi all’opera di un altro storico che ha praticato il genere, Carlo Maria Cipolla. Una sua opera, manco a dirlo, è dedicata a un singolo anno e a una singola la città: alla peste a Prato nel 1630…

Direi, e mi zittisco, che si può essere d’accordo con Ezio Raimondi, uno dei più grandi interpreti di Manzoni. Nella sua lettura critica dei Promessi sposi che ha per titolo Il romanzo senza idillio (risale a circa trent’anni fa) egli ha scritto: «Nonostante la luce che emana dalla legge morale in varie parti dei Promessi Sposi, il male resta un enigma, segno terribile della libertà dell’uomo». E’ come se tutta la tragedia del libero arbitrio fosse racchiusa in una sola e breve frase: «la sventurata rispose». Il soggetto è Gertrude: una donna rinchiusa in un istituto che non ama, in tempi in cui la donna doveva finire carcerata nel chiostro non per il desiderio di Dio, ma per salvaguardare i patrimoni dei figli maggiori. E tuttavia la sventurata rispose, appunto, passando da vittima dei tempi a carnefice in virtù di un libero arbitrio che non ha saputo usare. E conclude Raimondi «in fondo, implacabile come un teorema calato nell’opacità e nella violenza di un corpo, non è altro che l’agostiniano consentire o dissentire a partire dalla propria volontà». Il romanzo di Manzoni, dice Raimondi, è il poema del consenso e del libero arbitrio; potremmo aggiungere che la Colonna infame è anch’essa una variante sul tema della verità e della scelta degli uomini nella storia della città terrena. Grazie.

DOMANDA: Cosa puo’ fare un operatore della scuola per far amare Manzoni?

RISPOSTA: Anzitutto preferisco non chiamarti “operatore della scuola”, ma “insegnante”: termine e professione nobilissimi. E poi dirti, in poche parole, che penso che il mondo della ricerca non abbia molto da insegnare ai professori di scuola. Per di più io non faccio ricerca letteraria, ma storia, e ti posso dire, anche in virtù di esperienze altrui, che insegnare storia a scuola, quando non si tratti di Hitler, Stalin e altri ammazzamenti novecenteschi, è diventato un serio problema. Dare il senso di una prospettiva storica lunga non è affatto facile. Per Manzoni la sciagura è che ne hanno fatto un monumento della cultura nazionale, una mummia anzi. Io sono convinto che sia stato un bene monumentalizzare Manzoni rispetto ad altre opere della tradizione letteraria italiana, se vuoi il mio modesto avviso. Immagino cosa sarebbe avvenuto se, come invece sarebbe piaciuto a molti retori e professori universitari, avessimo monumentalizzato Gabriele D’Annunzio. Meglio il suicidio! Qual è la differenza fra D’Annunzio e Manzoni, appunto; in cosa consiste lo scarto di valore? Questa sì è una cosa che si potrebbe insegnare a un ragazzo: la differenza fra vero e falso, tra moda e classico. Si può discutere del moralismo manzoniano, si può credere o no in Dio, si può avere fastidio verso il paternalismo conservatore di Manzoni. Si possono prendere i Promessi Sposi, paragonarli a una pagina contemporanea di Balzac, di Tolstoj, di Flaubert (non di Hoffmann, magari) e concludere, sono il primo a dirlo, che Madame Bovary è più grande (penso che piaccia di più anche agli studenti). E tuttavia insegni letteratura italiana. Ebbene, io credo che sia possibile far comprendere l’operazione di Manzoni, con tutti i limiti che ha avuto; che sia possibile insegnare la grandezza di un uomo che comunque, in quell’universo culturale, in quel contesto, scrisse per primo a quel modo. Circondato da tromboni neoclassicisti che parlavano alle accademie, Manzoni seppe rompere con un vizio antico. Tutti leggevano poesie, magari quelle belle del lirico di Recanati; ma per europeizzare la cultura italiana ci voleva ben altro che Foscolo, che non mi risulta abbia inseguito un problema importante come quello della verità. La verità di Manzoni è monca, certo, come ammaccato era l’uomo Manzoni nella sua vita personale; ma certamente egli ha compiuto un’operazione coraggiosa. Non so come si possa restituire tale coraggio a scuola, né penso che la Colonna infame (un testo che comunque meriterebbe di essere accompagnato ai Promessi Sposi) sia facile a leggersi. Si potrebbero trarne delle parti, e ragionare del lascito sotto traccia che il genere manzoniano del libro-inchiesta ha avuto in Italia. Si potrebbe poi puntare a una scelta extra-letteraria. Manzoni è un antitodo contro la viltà morale, contro l’accettazione dello spirito dei tempi. Può non piacere (e a me in parte non piace) la tesi che la riforma delle istituzioni è secondaria rispetto alla conversione personale al bene. Manzoni era cattolico, era un aristocratico, un conservatore. Può non piacere, ripeto. E tuttavia i suoi testi sono grandi perché posseggono una dialettica. Il mondo, possono dirci, non va accettato così com’è, ‘a prescindere’, come direbbe Totò. Bisogna che in istituzioni malate si agisca con rettitudine. E’ vero però che Manzoni non piace. Neppure Dante piaceva fino all’Ottocento… Io non so se si possa ‘descolarizzare’ Manzoni, né so come si possa farlo. Penso però che un professore possa ricordare, leggendolo, che egli si è posto il problema del pubblico e della verità; e si può parlare della fortuna dei suoi testi, non so. Meglio di me può dire un insegnante!

DOMANDA: Lei ha tenuto questo stesso incontro questa mattina, in una scuola superiore, secondo le intenzioni dell’Associazione Guido Sacchi e quelle dell’Areopago. Ha potuto usare lo stesso linguaggio ed ha avuto la stessa attenzione di questa sera?

RISPOSTA: No, non mi sono permesso di parlare così stamattina, non era possibile, perché la scuola è diventata difficile (e questo possono dirlo i professori presenti meglio di me). Diciamo che per venti minuti c’è stato bisogno di domare le urla. Le scuole son diventate così, non tutte; ed esiste un problema di attenzione degli studenti (un problema di attenzione degli esseri umani in genere). Questa virtù sta collassando, vittima di un rapporto con il testo scritto che si è fatto quasi insanabile. Questo è un serio problema, e non si capisce come salvaguardare la pagina a stampa… Non è la stessa cosa leggere i testi su internet, io non ne sono convinto. Purtroppo i ragazzi scambiano forme di lettura più o meno improvvisata per un accostamento alla tradizione. Ma forse è proprio la tradizione che sta per collassare. Come cambiano le facoltà cognitive con la televisione, con internet, con lo zapping? C’è poi un problema che riguarda il come ci si percepisce dentro la cultura occidentale, che è certamente una cultura di efferato dominio, ma anche di libertà. Insomma, se uno riuscisse sempre ad insegnare allo stesso tempo dov’è il dominio e dov’è la libertà, e a farlo attraverso la tradizione culturale, attraverso la profondità dei testi letterari, avremmo risolto molti mali, forse… Ma c’è una rinuncia a educare; c’è una rinuncia a ogni principio di responsabilità.

DOMANDA: L’insegnante deve essere come un trasmettitore che insegna i diversi autori – e le diverse prospettive - da un punto di vista neutrale o deve esporre i suoi punti di vista?

RISPOSTA: Io non penso che l’insegnante si debba neutralizzare. L’insegnante deve fare qualcosa di simile a quello che si fa qui, insieme, con la formula: Perché leggere i classici. Ora, io non posso dire che Manzoni sia il mio classico del cuore. Se avessi dovuto parlare di un letterato che in questo momento mi entusiasma, avrei fatto una conferenza su Philip Roth (magari la rimandiamo). L’educazione non è stare un passo indietro e neutralizzarsi; l’insegnante non è come lo psicanalista freudiano. L’insegnante è parte in causa in un processo educativo, e quindi dirà che cosa gli piace e che cosa non gli piace, lo motiverà, non sarà ideologico. Il problema non è che cosa l’insegnante preferisce, o che cosa ritiene più opportuno per l’educazione. Il problema è il tasso di ideologia che non deve scaricare nell’atto di educare. Ideologia non vuol dire presa di posizione politica, religiosa, morale. Senza partigianeria c’è solo ignavia. L’ideologia è il processo di falsificazione della verità, propria e altrui; è il di più. Ecco, io sono laico e amo Manzoni, che è cattolico. Quello che ho tentato di dire è che Manzoni in tutta la sua opera resta un uomo lacerato: come letterato che tende alla storia; come uomo di fede che si dispera per gli errori del libero arbitrio e della cecità umana; come scrittore cattolico che ha necessità di fare apologetica in favore di una fede che ha abbracciato tardi, e come scrittore tout court che tende a non scadere in una caduca oratoria; come illuminista e come cristiano; come realista romantico. E’ in virtù di tale tensione che Manzoni è grande; poi si potrà spiegare anche perché non piace, riconoscendone la grandezza. Io l’ho sempre adorato, anche quando andavo a scuola. Ma forse sono una specie di mosca bianca…


Testi del ciclo Leggere i classici presenti su questo stesso sito www.gliscritti.it

Il progetto originario del ciclo "Perché leggere i classici" di Guido Sacchi
I fiori del male di Charles Baudelaire

Dalla voce alla penna: parola detta, parola scritta
L´Eneide di Virgilio: la fatica della civiltà
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