N.B. I titoli ed i neretti sono redazionali e funzionali al commento sviluppato nella catechesi. Anche la disposizione dei testi non segue un ordine cronologico, ma è relativa alla successione dei temi così come è stata organizzata per la catechesi di S.Melania. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi brani non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
L’Areopago (22.07.2006)
Voglio sottolineare un... aspetto di questo volume. Esso non vuole
affrontare solo problemi di cristiani o di cattolici. «La Chiesa non è fine a
se stessa». Questa è una convinzione che caratterizza l'intera mia ricerca e
pensiero. Una Chiesa che pensa solo a se stessa e parla e agisce solo al proprio interno
finirebbe col tradire radicalmente la sua natura. La Chiesa esiste affinché vi sia
spazio per l'alleanza tra Dio e l'uomo. Essa esiste per aprire nel mondo la porta a Dio;
esiste per «gli altri». Il suo compito è quello di condurli all'incontro
con Cristo e con il Dio vivente. Per questo ricorre in tutti i contributi anche il tema di fede
e ragione. Tutto è scritto prestando ascolto alle domande dell'uomo d'oggi, pensando
in sintonia con loro, tutto è caratterizzato dallo sforzo di lasciar intravedere la
ragionevolezza della fede per noi stessi ed anche per coloro che non condividono la nostra
fede.
(da Joseph Ratzinger, La Comunione nella Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004,
pag.7)
Fra i difensori della realtà mondana e la reazione di chi è
troppo attaccato all'esteriorità e al passato, fra il disprezzo della tradizione e la
fedeltà esagerata alla lettera non sembra esistere alcuna possibilità di
compromesso; l'opinione pubblica assegna inesorabilmente a ciascuno il proprio posto, ha
bisogno di posizioni chiare e precise e non può accettare sfumature di sorta: chi non
è per il progresso è contro di esso; o si è conservatori oppure
progressisti. Grazie a Dio la realtà è naturalmente diversa: ancor oggi esistono,
tranquilli e quasi senza voce, coloro che credono con tutta semplicità e che anche in
questo momento di confusione realizzano la vera missione della Chiesa: l'adorazione di Dio
e la sopportazione della vita quotidiana sulla base della parola del Signore. Costoro
però non quadrano bene nell'ideale di Chiesa che ci si prefigge e si continua
perciò a lasciarli in disparte. La vera Chiesa dunque non è invisibile, ma
profondamente nascosta dalle potenti manovre degli uomini.
Nel nostro sforzo per giungere ad una comprensione della Chiesa, sulle tracce del Concilio che
per questo si è battuto accanitamente, noi ci siamo avvicinati tanto a questa Chiesa,
che non riusciamo più a vederla nel suo complesso; le prime case ci impediscono di
vedere la città, i primi alberi non ci consentono di abbracciare con lo sguardo tutto il
bosco. La situazione in cui la scienza ci ha condotto a proposito di molti aspetti della
realtà, sembra ora ripetersi anche a riguardo della Chiesa. Noi vediamo il
particolare così da vicino e così dettagliatamente, che non riusciamo più
a cogliere il tutto: l'aumento di esattezza significa qui diminuzione di verità. Quando
osserviamo al microscopio un pezzetto di albero, ciò che vediamo è
incontestabilmente giusto, ma potrebbe ugualmente nasconderci una parte di verità se ci
facesse dimenticare che la singola cosa non è soltanto singola, ma esiste in un tutto,
il quale, anche se non è visibile al microscopio, è ugualmente vero, anzi
più vero della cosa presa isolatamente in se stessa. Ma lasciamo da parte i
paragoni. L’epoca presente con le sue particolari prospettive ha influenzato il nostro
occhio in un determinato senso, cosicché noi oggi praticamente guardiamo la Chiesa
soltanto dal punto di vista dell'efficienza, preoccupati di scoprire che cosa possiamo fare di
essa. Gli sforzi prolungati per riformare la Chiesa hanno alla fine fatto dimenticare tutto
il resto. Per noi oggi essa è soltanto un'organizzazione che si può trasformare e
il nostro grande problema è quello di determinare quali sono i cambiamenti che la
rendono «più efficiente» per i singoli scopi che ciascuno si propone.
Affondato in questa problematica, il concetto di riforma ha subito nella coscienza dei
più profonde degenerazioni, che lo hanno privato del suo nucleo centrale. Infatti nel
suo significato originale la riforma è un processo spirituale che, essendo del tutto
simile alla conversione, rientra nel cuore stesso del fenomeno cristiano: soltanto attraverso
la conversione si diventa cristiani, ciò vale per tutta la vita del singolo, come per
tutta la storia della Chiesa. Anche questa infatti rinnova la propria vita soltanto
convertendosi continuamente al Signore, evitando di chiudersi in se stessa e nelle proprie care
abitudini, così facilmente contrarie alla verità. Quando la riforma viene
strappata da questo contesto, dallo sforzo e dal desiderio di conversione, quando ci si
aspetta la salvezza soltanto dal cambiamento degli altri, dalla trasformazione delle strutture,
da sempre nuove forme di aggiornamento, si può forse giungere a qualche utilità
immediata, ma nel complesso la riforma diventa una caricatura di se stessa, capace di
cogliere della Chiesa soltanto le realtà secondarie e meno importanti.
Proprio a proposito delle verità principali diventa sempre più difficile
riconoscere i limiti fra la spiegazione e la negazione. Ad esempio che cosa significa
propriamente «risorto dai morti»? Chi sono quelli che credono, quelli che spiegano,
quelli che negano? E mentre si discute fino a dove possono arrivare i limiti della spiegazione,
si perde sempre più di vista il volto di Dio. La «morte di Dio» è un
processo del tutto reale, che penetra oggi profondamente all'interno della Chiesa. Dio muore
nella cristianità, così almeno sembra. Infatti là dove la risurrezione
diventa l'esperienza di una missione sentita come superata, Dio non è più
presente con la sua opera.
Dobbiamo ammetterlo senza mezzi termini: il Vaticano I aveva descritto la Chiesa come il
«signum levatum in nationes», come il grande vessillo escatologico che,
visibile anche da lontano, raccoglieva gli uomini attorno a sé. Secondo il Concilio del
1870 essa era il segno sperato da Isaia (11,12), la bandiera che anche da lontano tutti
potevano riconoscere e che a tutti indicava chiaramente la via da percorrere. Con la sua
meravigliosa diffusione, la sua profonda stabilità, essa rappresentava il vero
miracolo del cristianesimo, la miglior prova della sua origine divina di fronte al mondo e alla
storia. Oggi sembra vero tutto il contrario: non più una comunità
meravigliosamente diffusa, ma un'associazione stagnante, che non è stata capace di
superare veramente i confini dello spirito europeo e medievale; non più profonda
santità, ma un insieme di debolezze umane, una storia vergognosa ed umiliante, alla
quale non è stato risparmiato nessun scandalo, dalle persecuzioni degli eretici e dai
processi contro le streghe, dalla persecuzione degli Ebrei e dall'asservimento delle coscienze
fino all'autodogmatizzazione e alla resistenza contro l'evidenza scientifica,
cosicché chi appartiene a questa storia non può fare altro che coprirsi
vergognosamente il volto; infine non più stabilità incrollabile, ma
accondiscendenza a tutte le correnti della storia, al colonialismo, al nazionalismo, e
recentemente anche il tentativo di venire a patti con il marxismo e, dove possibile, di
mimetizzarsi con esso...
Stando così le cose, si ha l'impressione che la Chiesa non sia più il segno
che invita alla fede, ma addirittura l'ostacolo principale alla sua accettazione.
«Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio», questo è lo slogan
che dopo tante delusioni si preferisce adottare nei confronti delle autorità
ecclesiastiche. Il principio sacramentale non sembra più sufficientemente chiaro;
soltanto il controllo democratico appare degno di fede; in fondo anche lo Spirito Santo
è un po' troppo inafferrabile.
Una Chiesa che, contro tutta quanta la propria storia e la propria natura, venga
considerata soltanto politicamente, non ha alcun senso, e la decisione di rimanere in essa, se
è puramente politica, non è leale, anche se si presenta come tale.
Però di fronte alla situazione presente come si può giustificare la permanenza
nella Chiesa? In altri termini: la scelta in favore della Chiesa per avere senso deve essere
spirituale; ma su quali motivi può essa oggi far leva?
Approfondiamo questo pensiero rifacendoci ad un esempio, con il quale i Padri nutrirono la
loro meditazione sul mondo e sulla Chiesa. Essi spiegarono che nel mondo materiale la luna
è l'immagine di ciò che la Chiesa rappresenta per la salvezza nel mondo
spirituale.
Nella sua fugacità e nella sua rinascita la luna rappresenta il mondo terreno degli
uomini, questo mondo che è continuamente condizionato dal bisogno di ricevere e che trae
la propria fecondità non da se stesso, ma dal sole; rappresenta lo stesso essere
umano, quale si esprime nella figura della donna, che concepisce ed è feconda in forza
del seme che riceve.
I Padri hanno applicato il simbolismo della luna alla Chiesa soprattutto per due ragioni:
per il rapporto luna-donna (madre) e per il fatto che la luna non ha luce propria, ma la riceve
dal sole, senza del quale essa sarebbe completamente buia. La luna risplende, ma la sua luce
non è sua, bensì di un altro. È tenebre e nello stesso tempo luce; pur
essendo di per sé buia, dona splendore in virtù di un altro di cui riflette la
luce. Proprio per questo essa simboleggia la Chiesa, la quale pure risplende, anche se di per
sé è buia; non è luminosa in virtù della propria luce, ma del vero
sole, Gesù Cristo, cosicché, pur essendo soltanto terra (anche la luna non
è che un'altra terra), è ugualmente in grado di illuminare la notte della nostra
lontananza da Dio - «la luna narra il mistero di Cristo» (Ambrogio, Exameron IV
8,23).
Tuttavia in questa nostra epoca di viaggi lunari viene spontaneo approfondire questo paragone,
che, confrontando la concezione fisica con quella simbolica, mette meglio in evidenza la nostra
situazione specifica rispetto alla realtà della Chiesa. La sonda lunare e
l'astronauta scoprono la luna soltanto come landa rocciosa e desertica, come montagne e come
sabbia, non come luce. E in effetti essa è in se stessa soltanto deserto, sabbia e
rocce. E tuttavia, per merito di altri ed in funzione di altri ancora, essa è pure luce
e tale rimane anche nell'epoca dei voli spaziali. È dunque ciò, che in se stessa
non è. Pur appartenendo ad altri, questa realtà è anche sua. Esiste
una verità fisica ed una simbolico-poetica, una non elimina l'altra. Ciò non
è forse un'immagine esatta della Chiesa? Chi la esplora e la scava con la sonda spaziale
scopre soltanto deserto, sabbia e terra, le debolezze dell'uomo, la polvere, i deserti e le
altezze della sua storia. Tutto ciò è suo, ma non rappresenta ancora la sua
realtà specifica. Il fatto decisivo è che essa, pur essendo soltanto sabbia e
sassi, è anche luce in forza di un altro, del Signore: ciò che non è suo,
è veramente suo e la qualifica più di qualsiasi altra cosa, anzi la sua
caratteristica è proprio quella di non valere per se stessa, ma solo per ciò che
in essa non è suo, di esistere in qualcosa che le è al di fuori, di avere una
luce, che pur non essendo sua, costituisce tutta la sua essenza. Essa è ‘luna' -
mysterium lunae - e come tale interessa i credenti perché proprio così
esige una costante scelta spirituale.
Dopo la traduzione della liturgia della Messa, avvenuta in seguito all'ultima riforma,
recitando il testo prescritto incontravo ogni volta una difficoltà, che mi sembra
chiarire ulteriormente l'argomento di cui ci stiamo occupando. Nella traduzione del
Suscipiat si dice: «Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio... per
il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa». Io ero sempre tentato di dire
«e di tutta la nostra santa Chiesa». Ricompare qui tutto il nostro problema
ed il cambiamento operatosi in quest'ultimo periodo. Al posto della sua Chiesa è
subentrata la nostra, e con essa le molte Chiese; ognuno ha la sua. Le Chiese sono diventate
imprese nostre, di cui ci vantiamo oppure ci vergogniamo, piccole e innumerevoli
proprietà private disposte una accanto all'altra, Chiese soltanto nostre, nostra opera e
proprietà, che noi conserviamo o trasformiamo a piacimento. Dietro alla «nostra
Chiesa» o anche alla «vostra Chiesa» è scomparsa la «sua
Chiesa». Ma è proprio e soltanto questa che interessa; se essa non esiste
più, anche la ‘nostra' deve abdicare. Se fosse soltanto nostra, la Chiesa sarebbe
un superfluo gioco da bambini.
Nelle considerazioni precedenti è già implicita la risposta all'interrogativo
che ci siamo posto all'inizio: io sono nella Chiesa perché credo che, oggi come prima ed
indipendentemente da noi, dietro alla «nostra Chiesa» vive la «sua
Chiesa» e che io non posso stare vicino a lui se non rimanendo nella sua Chiesa. Io sono
ancora nella Chiesa perché, nonostante tutto, credo che essa non è assolutamente
nostra, ma 'sua'. In termini molto concreti: è la Chiesa che, nonostante tutte le
debolezze umane in essa esistenti, ci dà Gesù Cristo; soltanto per mezzo suo io
posso ora riceverlo come una realtà viva e potente, che mi arricchisce ed insieme mi
impone dei doveri. Henri de Lubac ha espresso così questa verità:
«Coloro che accettano ancora Gesù pur rifiutando la Chiesa, non sanno che in
ultima analisi è da questa che essi ricevono Cristo?... Gesù è per noi una
persona viva; eppure senza la continuità visibile della sua Chiesa, sotto quale cumulo
di sabbia non sarebbero stati sepolti non soltanto il suo nome e il suo ricordo, ma anche la
sua influenza vitale, l'efficacia del vangelo e della fede nella sua divina persona?...
'Senza Chiesa Cristo dovrebbe darsi alla fuga, disgregarsi, scomparire'. E che cosa sarebbe
l'umanità se le si togliesse Cristo?». A fondamento di qualsiasi altra
considerazione dobbiamo porre questa verità molto elementare: qualunque sia o sia stato
il grado di infedeltà della Chiesa, per quanto sia vero che essa abbia continuamente
bisogno di misurarsi e confrontarsi con Cristo, fra Gesù e la Chiesa non c'è
alcun contrasto decisivo. E' per mezzo della Chiesa che egli, superando le distanze della
storia, ci parla oggi direttamente e rimane in mezzo a noi come nostro maestro e Signore, come
fratello che ci rende fratelli. Donando a noi Cristo Gesù, rendendolo vivo e
presente in mezzo a noi, rigenerandolo continuamente nella fede e nella preghiera degli uomini,
la Chiesa dà all'umanità una luce, un sostegno ed un conforto tali, che senza di
essi il mondo non sarebbe più concepibile. Chi desidera la presenza di Cristo in
mezzo all'umanità, la può trovare soltanto nella Chiesa, mai contro di essa.
Da tutto ciò segue logicamente l'altro motivo: io sono nella Chiesa per le stesse
ragioni per cui sono cristiano. Non si può credere da soli. La fede è possibile
soltanto in comunione con altri credenti. Per sua stessa natura essa è forza che
unisce. Il suo vero modello è la realtà della Pentecoste, il miracolo di
comprensione che si instaura fra uomini di provenienza e di storia diverse. Questa fede o
è ecclesiale o non è alcunché. Inoltre come non si può credere
da soli, ma soltanto in comunione con altri, così non si può aver la fede per
propria iniziativa o invenzione, ma soltanto se c'è qualcuno che mi comunica questa
capacità, la quale non è in mio potere, ma mi precede e mi trascende. Una fede
che fosse frutto della mia invenzione sarebbe una contraddizione in termini, perché mi
potrebbe dire e garantire soltanto ciò che io già sono e so, ma non sarebbe mai
in grado di superare i limiti del mio io. Perciò una Chiesa, una comunità che si
facesse da sé, che fosse fondata soltanto sulla propria grazia, sarebbe una
contraddizione in termini. La fede esige una comunità che abbia autorità, che
sia superiore a me, e non una mia creazione, lo strumento e la realizzazione dei miei propri
desideri.
Io rimango nella Chiesa perché soltanto la fede della Chiesa redime l'uomo.
Può sembrare una frase molto tradizionale, dogmatica e irreale, ma è invece del
tutto obiettiva e realistica. Nel nostro mondo pieno di inibizioni e di frustrazioni il
desiderio di redenzione è riapparso in tutta la sua primordiale veemenza. Gli sforzi
di Freud e di C.G. Jung non sono altro che tentativi di dare una redenzione a gente che si
sente irredenta. Partendo da altre premesse, Marcuse, Adorno, Habermas continuano, alla loro
maniera, a cercare e ad annunciare la redenzione. Anche il problema di Marx è in fondo
un problema di redenzione. Quanto più l'uomo diventa libero, illuminato e potente, tanto
più il desiderio di redenzione lo tormenta, tanto più si ritrova misero e
schiavo. Marx, Freud, Marcuse hanno tutti in comune la ricerca della redenzione, l'aspirazione
verso un mondo senza dolori, malattie e miserie. Il grande ideale della nostra generazione
è una società libera dalla tirannia, dal dolore e dall'ingiustizia; a questo
mirano le turbolente esplosioni dei giovani, mentre cresce il risentimento dei vecchi nel
vedere che la tirannia, l'ingiustizia e il dolore continuano imperturbati. La lotta contro il
dolore e l'ingiustizia è senz'altro cristiana, ma il pensare che attraverso le
riforme sociali o l’eliminazione del potere e dell’ordinamento giuridico si possa
subito raggiungere un mondo libero dal dolore, è una vera e propria eresia, una profonda
ignoranza dell’uomo e della sua natura.
E veniamo all’ultimo punto. Un uomo vede soltanto nella misura con cui ama. Certo
c’è anche la chiaroveggenza della negazione e dell’odio. Essi però
possono vedere soltanto ciò che è loro conforme: gli aspetti negativi. Ma non
sono in grado di costruire. Senza una certa quantità di amore non si trova nulla. Chi
non si inoltra almeno per un po' e con sentimenti benevoli sulla via della fede, chi non
accetta di fare un'esperienza personale della Chiesa e non affronta il rischio di guardarla con
gli occhi dell'amore, non scoprirà altro che motivi di stizza e di rabbia. Il
rischio dell'amore è condizione preliminare per giungere alla fede. Chi lo osa, non ha
bisogno di nascondersi nessuna delle debolezze della Chiesa, perché scopre che essa non
si riduce soltanto a queste, perché si accorge che accanto alla storia degli scandali
c'è anche quella della fede forte ed intrepida, incarnatasi lungo tutti i secoli in
figure meravigliose, come Agostino, Francesco d'Assisi, il domenicano Las Casas infaticabile
apostolo degli Indios, Vincenzo de' Paoli e Giovanni XXIII. Chi affronta questo rischio
dell'amore scopre che la Chiesa ha proiettato nella storia un fascio di luce tale da non poter
essere dimenticato. Anche l'arte, sorta sotto l'impulso e l'ispirazione del suo messaggio e
visibile ancor oggi in opere impareggiabili, diventa per lui una testimonianza di
verità: ciò che si tradusse in espressioni così nobili non può
essere soltanto tenebre. La bellezza delle grandi cattedrali, l'armonia della musica
scaturita al calore della fede, la solenne dignità della liturgia ecclesiastica, la
stessa realtà della festa che non si può fare, ma soltanto accettare,
l'organizzazione dell'anno liturgico, nel quale si fondono insieme l'ieri e l'oggi, il tempo e
la eternità - tutte queste cose non sono, a mio avviso, casi fortuiti e insignificanti.
Il bello è lo splendore del vero, ha detto Tomaso d'Aquino, e potremmo aggiungere che
l'offesa del bello è l'autoironia del vero perduto. Le espressioni, nelle quali la
fede ha saputo tradursi lungo i secoli della sua storia, sono testimonianza, e conferma della
sua verità.
Una cosa è comunque certa, che l’amore non è né statico,
né acritico. L’unica possibilità che abbiamo di cambiare in senso positivo
un altro uomo è proprio quella di amarlo, trasformandolo lentamente da ciò che
è in ciò che può essere. Non diversamente avviene per la Chiesa. Basta
guardare alla storia più recente: durante il rinnovamento liturgico e teologico della
prima metà di questo secolo è maturato un vero movimento di riforma che ha
portato a trasformazioni positive. Ciò fu possibile soltanto perché sorsero
uomini, che amarono la Chiesa con cuore attento e vigilante, con spirito critico, capace di
cogliere i segni dei tempi, e che furono disposti a soffrire personalmente per essa.
(da Joseph Ratzinger, Perché sono ancora nella Chiesa, in H.U.von
Balthasar-Joseph Ratzinger, Due saggi. Perché sono ancora cristiano. Perché sono
ancora nella Chiesa, Queriniana, Brescia, 1972, pagg.51-71)
Volendo tentare una... panoramica, possiamo distinguere tre generazioni di
esegeti e di conseguenza tre grandi svolte nella storia esegetica del nostro secolo.
Ai suoi inizi abbiamo l’esegesi liberale che, conformemente alla visione del mondo
liberale, vede in Gesù il grande individualista che libera la religione dalle
istituzioni cultuali, riducendola a pura etica, la quale a sua volta viene interamente
fondata sulla responsabilità della coscienza individuale. Un Gesù di questo
tipo, che rifiuta il culto e trasforma la religione in morale e spiega quest’ultima
come una vicenda privata dell’individuo, non può naturalmente essere il
fondatore di alcuna Chiesa. In quanto avversario di tutte le istituzioni, non
sarà lui a crearne una. La prima guerra mondiale provocò il crollo del mondo
liberale e con ciò anche il distacco dal suo individualismo e dalla sua morale
soggettiva. Le grandi corporazioni politiche, che si erano appoggiate interamente alla scienza
e alla tecnica come portatrici del progresso dell’umanità, avevano fallito come
autorità morali dell’ordinamento sociale. Si risvegliò così una
forte esigenza di comunità nella sfera del sacro. Ci fu una riscoperta della Chiesa
anche nello stesso ambito protestante. Nella teologia scandinava si sviluppò
un’esegesi cultuale che, in stretta opposizione al pensiero liberale, non vedeva
più Gesù come critico del culto, ma intendeva il culto come interiore spazio
vitale della Bibbia così del Nuovo come dell’Antico Testamento e cercava di
interpretare anche il pensiero e la volontà di Gesù a partire dalla grande
corrente della liturgia vissuta. Analoghe tendenza si manifestarono nell’area di lingua
inglese. Ma anche nel protestantesimo tedesco era emerso un nuovo significato di Chiesa; ci si
rese conto che il Messia non è pensabile senza il suo popolo. Con la svolta favorevole
ai sacramenti, si riconobbe all’ultima cena di Gesù un significato fondativo
rispetto alla comunità e venne formulata la tesi, secondo cui attraverso la cena stessa
Gesù aveva dato vita a una nuova comunità, sicché la cena costituiva
l’origine della Chiesa e il suo criterio permanente. Dai teologi russi in esilio in
Francia lo stesso concetto, sulla base della tradizione ortodossa, venne sviluppato in una
ecclesiologia eucaristica, che dopo il concilio Vaticano II ha esercitato un forte influsso
nel mondo cattolico. Dopo la secondo guerra mondiale, l’umanità si divisi
sempre più nettamente in due campi: da una parte il mondo dei popoli ricchi, di nuovo
largamente ispirato al modello liberale, e dall’altra il blocco marxista, che si
considerò come il portavoce dei popoli poveri del Sudamerica, dell’Africa e
dell’Asia e insieme come il modello per il loro futuro. Venne così a delinearsi
anche una bipartizione delle tendenza teologiche. Nel mondo neoliberale
dell’Occidente si affermò in forme nuove una variante escatologica del messaggio
di Gesù. E’ vero che Gesù non viene più concepito come un puro
moralista, ma la sua figura è ancora una volta quella di un oppositore del culto e delle
istituzioni storiche dell’Antico Testamento. Ci si rifaceva così al vecchio schema
che riduce l’Antico Testamento a sacerdote e profeta, a culto, istituzioni, diritto da
una parte, e profezia, carisma, libertà creativa dall’altra. In
quest’ottica, sacerdote, culto, istituzione e diritto appaiono come qualcosa di negativo
che deve essere superato, mentre Gesù si collocherebbe nella linea dei profeti, cui pone
termine, contro il sacerdozio visto quale responsabile dell’uccisione di Gesù e
dei profeti. Si sviluppa così una nuova variante dell’individualismo liberale:
Gesù proclama la fine delle istituzioni. Il suo messaggio escatologica può essere
stato pensato nel condizionamento storico come annuncio della fine del mondo; tuttavia viene
assimilato come rottura e passaggio dall’istituzionale al carismatico, come fine
delle religioni o comunque come fede “non mondana”, che crea e rinnova di continuo
le proprie forme. Di fondazione della Chiesa, ancora una volta, non si può parlare; essa
contrasterebbe infatti con la radicalità escatologica. Ora, però, questo nuovo
tipo di impostazione liberale poteva molto facilmente essere trasformata in una interpretazione
biblica di orientamento marxista. La contrapposizione fra sacerdoti e profeti diviene
anticipazione della lotta di classe come legge della storia. Di conseguenza Gesù
è morto nella lotta contro le forze dell’oppressione. Egli diviene così il
simbolo del proletariato che soffre e combatte, del “popolo”, come oggi si dice di
preferenza. Il carattere escatologico del messaggio si riferisce allora alla fine della
società classista; nella dialettica profeta-prete si esprime la dialettica della storia,
che ultimamente si conclude con la vittoria degli oppressi e con l’avvento della
società senza classi. In una prospettiva simile è assai facile integrare il fatto
che Gesù ha parlato ben poco della Chiesa, e molto spesso del regno di Dio; il
“regno” è perciò la società senza classi e diviene il
traguardo a cui tende la lotta del popolo oppresso; traguardo che considera raggiunto là
dove il proletariato, vale a dire il suo partito, il socialismo, sia giunto alla vittoria.
L’ecclesiologia riacquista quindi significato nel senso del modello dialettico,
costituito dalla scissione della Bibbia in sacerdoti e profeti, cui corrisponde una distinzione
tra istituzione e popolo. Conformemente a questo modello dialettico, alla Chiesa
istituzionale, cioè alla “Chiesa ufficiale”, viene contrapposta la
“Chiesa del popolo”, che nasce di continuo dal popolo e sviluppa così le
intenzioni di Gesù, vale a dire la sua battaglia contro l’istituzione e contro la
sua forza oppressiva per una nuova e libera società che sarà “il
regno”.
(Questa panoramica) rende soprattutto evidente il fatto che i grandi modelli interpretativi
provengono dall’indirizzo di pensiero delle rispettive epoche.
Partiamo dal fatto che l’annuncio di Gesù riguardava direttamente non la
Chiesa, ma il regno di Dio (o “regno dei cieli”). Lo dimostra una circostanza
puramente statistica: il regno di Dio ricorre nel Nuovo Testamento centoventidue volte: di
queste, ben novantanove nei vangeli sinottici, novanta delle quali si trovano in parole di
Gesù. Possiamo così comprendere l'affermazione di Loisy, divenuta col tempo
popolare: Gesù ha annunciato il regno, ed è venuta la Chiesa. Ma una lettura
storica dei testi dimostra che questa contrapposizione tra regno e Chiesa non è
obiettiva. Secondo la concezione giudaica, difatti, la specificità del regno di Dio
consiste nel radunare e purificare gli uomini per questo regno. «Proprio perché
riteneva prossima la fine, Gesù dovette voler radunare il popolo di Dio del tempo della
salvezza» (J.Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, vol. I, Paideia, Brescia,
p.197). Nella profezia postesilica, la venuta del regno è preceduta dal profeta Elia o
dall'«angelo» rimasto anonimo, il quale prepara il popolo per tale regno. Giovanni
Battista, proprio perché è l'annunciatore del Messia, riunisce la comunità
della fine dei tempi e la purifica. Così pure la comunità di Qumran, proprio a
motivo della sua fede escatologica, si era riunita come comunità della nuova alleanza.
Per questo J. Jeremias conclude con questa formulazione: «Ciò dev'essere
puntualizzato fortemente: tutta l'opera di Gesù mira solo a raccogliere il popolo
escatologico di Dio».
Di questo popolo Gesù parla in molte immagini, in particolare nelle parabole della
crescita, nelle quali il «presto» dell'escatologia ravvicinata, caratteristica di
Giovanni Battista e di Qumran, sfocia, nell'adesso della cristologia. Gesù stesso
è l'opera di Dio, la sua venuta, la sua signoria. «Regno di Dio» in bocca a
Gesù non significa qualche cosa o qualche luogo, ma l'agire attuale di Dio.
Perciò non è errato tradurre l'affermazione programmatica di Mc1,15 « Il
regno di Dio è giunto»: Dio è giunto. Di qui emerge ancora una volta la
connessione con Gesù, con la sua persona: egli stesso è la vicinanza di Dio. Dove
è Gesù, ivi è il regno. A tale riguardo, la frase di Loisy va
così modificata: È stato promesso il regno. ed è venuto Gesù. Solo
in questo modo si comprende rettamente il paradosso di promessa e compimento.
Ma Gesù non è mai solo. Egli è anzi venuto per riunire quelli che erano
dispersi (cfr. Gv11,52; Mt12,30). Perciò tutta la sua opera sta nel radunare il popolo
nuovo. Sicché abbiamo già due elementi essenziali per la futura nozione di
Chiesa, e cioè: nel nuovo popolo di Dio, nel senso di Gesù, è insita la
dinamica per cui tutti divengono una cosa sola, quell'andare gli uni verso gli altri andando
verso Dio. E inoltre il punto di raccolta interiore del nuovo popolo è Cristo; esso,
d'altro canto, diventa un popolo solo attraverso la chiamata di Cristo e attraverso la risposta
alla chiamata, alla persona di Cristo. Prima di compiere un ulteriore passo avanti, vorrei
fare ancora due piccole aggiunte. Tra le molte immagini che Gesù ha utilizzato per
indicare il nuovo popolo - gregge, invitati alle nozze, piantagione, dimora di Dio,
città di Dio - spicca, come immagine preferita, quella di famiglia di Dio. Dio
è il padre di famiglia, Gesù il padrone di casa, ed è quindi ben
comprensibile che egli si rivolga ai membri di questo popolo, anche se adulti, come a
bambini. Questi ultimi, infine, hanno veramente capito se stessi quando, abbandonata la
loro autonomia, si riconoscono davanti a Dio come bambini (cfr. Mc10,13-16).
L'altro rilievo ci introduce già nel prossimo tema: i discepoli chiedono a Gesù
una loro preghiera comune. «Presso i gruppi religiosi dell'ambiente circostante, un
proprio ordine di preghiera costituisce infatti un essenziale segno distintivo della
comunità» (J.Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, vol. I, Paideia,
Brescia, p.197). Perciò la richiesta di una preghiera esprime la
consapevolezza da parte dei discepoli di essere divenuti una nuova comunità facente capo
a Gesù. Qui essi sono come la cellula primigenia della Chiesa, e ci mostrano al tempo
stesso che la Chiesa è una comunità unificata essenzialmente
a partire dalla preghiera. La preghiera con Gesù ci dà la comune apertura
a Dio. Di qui seguono automaticamente altri due passaggi. Anzitutto dobbiamo tener conto del
fatto che la comunità dei discepoli di Gesù non è un gruppo amorfo. In
mezzo a loro c'è il nucleo compatto dei Dodici, accanto al quale, secondo Luca
(10,1-20), si colloca altresì la cerchia dei settanta o settantadue discepoli. Va tenuto
presente che solo dopo la risurrezione i Dodici ricevono il titolo di «apostoli».
Prima di allora sono chiamati semplicemente «i Dodici». Questo numero, che fa di
loro una comunità chiaramente circoscritta, è così importante che, dopo il
tradimento di Giuda, viene nuovamente integrato (At1,15-26). Marco descrive espressamente
la loro vocazione con le parole: «e Gesù ne costituì Dodici » (3,14).
Il loro primo compito è quello di formare insieme i Dodici; a ciò si aggiungono
poi due funzioni: «che stessero con lui e potesse inviarli a predicare» (Mc3,14).
Il simbolismo dei Dodici è perciò di decisiva importanza: è il numero
dei figli di Giacobbe, il numero delle tribù d'Israele. Con la formazione del gruppo dei
Dodici Gesù si presenta come il capostipite di un nuovo Israele; a sua origine e
fondamento sono prescelti dodici discepoli. Non poteva essere espressa con maggiore chiarezza
la nascita di un popolo che ora si forma non più per discendenza fisica, bensì
attraverso il dono di «essere con» Gesù, ricevuto dai Dodici che da lui
vengono inviati a trasmetterlo. Qui è già possibile riconoscere anche il tema
di unità e molteplicità, dove nell’indivisibile comunità dei Dodici
che solo in quanto tali realizzano il loro simbolismo - la loro missione - domina certamente il
punto di vista del popolo nuovo nella sua unità. Il gruppo dei settanta o settantadue,
di cui parla Luca, integra questo simbolismo: settanta (settantadue) era, secondo la
tradizione giudaica (Gn10; Es1,5; Dt32,8), il numero dei popoli del mondo. Il fatto
che l'Antico Testamento greco, nato in Alessandria, sia stato attribuito a settanta (o
settantadue) traduttori doveva significare che con quel testo in lingua greca il libro sacro di
Israele era diventato la Bibbia di tutti i popoli, come in effetti è poi avvenuto,
avendo i cristiani adottato tale traduzione. Il numero di settanta discepoli manifesta la
pretesa di Gesù nei confronti dell'intera umanità, che come tale deve formare
la schiera dei suoi discepoli; essi stanno a indicare che il nuovo Israele abbraccerà
tutti i popoli della terra.
La preghiera comune che i discepoli hanno ricevuto da Gesù ci mette su un'ulteriore
traccia. Durante la sua vita terrena Gesù aveva partecipato insieme ai Dodici al culto
del tempio di Israele. Il Padre nostro era il primo inizio di una speciale comunità di
preghiera con e a partire da Gesù. Inoltre nella notte, prima della passione,
Gesù compie un altro passo in tale direzione quando trasforma la Pasqua di Israele in un
culto talmente nuovo, che logicamente doveva portare fuori dalla comunità del tempio e
con ciò fondare definitivamente un popolo della «nuova alleanza». Le
parole di istituzione dell'eucaristia, sia nella tradizione marciana sia in quella paolina,
hanno sempre a che fare con l'alleanza; esse rimandano al Sinai e alla nuova alleanza
preannunciata da Geremia. I sinottici e il vangelo di Giovanni stabiliscono inoltre, sia
pure in modi diversi, il nesso con l'evento pasquale, e infine richiamano anche le parole del
Servo sofferente in Isaia.
Con la Pasqua e il rito dell'alleanza sinaitica vengono recepiti i due atti fondativi di
Israele attraverso i quali esso divenne e diviene sempre nuovamente un popolo. Il nesso di
questo sfondo cultuale originario, su cui si basava e viveva Israele, con le parole-chiave
della tradizione profetica fonde passato, presente e futuro nella prospettiva di una nuova
alleanza. Il senso del tutto è chiaro: «Come in passato l'antico Israele venerava
nel tempio il proprio centro e la garanzia della propria unità e nella celebrazione
comunitaria della Pasqua realizzava in maniera viva tale unità, così ora
questo nuovo banchetto deve essere il vincolo di unità di un nuovo popolo di Dio. Non
c'è più bisogno di un luogo centrale costituito dall'unico tempio esteriore... Il
corpo di Cristo, che è il centro del banchetto del Signore, è l'unico nuovo
tempio che congiunge in unità i cristiani ben più realmente di quanto possa fare
un tempio di pietre» (J.Ratzinger, Il nuovo popolo di Dio, Queriniana, Brescia, 1971,
p.87).
Allo stesso ordine di idee appartiene un'altra serie di testi della tradizione evangelica.
Tanto Matteo e Marco come «anche Giovanni tramandano (naturalmente in diversi contesti)
l’espressione di Gesù, secondo la quale egli ricostruirà in tre giorni il
tempio distrutto e lo sostituirà con uno migliore (Mc14,58 e Mt26,61; Mc15,29 e Mt27,40;
Gv2,19; cfr. Mc11,15-19 par.; Mt12,6). Sia nei sinottici che in Giovanni è chiaro che il
nuovo tempio, ‘non fatto da mani d'uomo’, è il corpo glorioso di Gesù
stesso...». Ciò significa: «Gesù annuncia il crollo del culto antico
e con esso dell'antico popolo e ordinamento salvifico, e promette un nuovo culto più
elevato, al cui centro ci sarà il suo stesso corpo glorioso»(J.Ratzinger, Il nuovo
popolo di Dio, Queriniana, Brescia, 1971, p.88).
Ne segue che la fondazione della santissima eucaristia nella sera che precede la passione
non può essere vista come una qualsiasi azione più o meno isolata. Essa è
la stipulazione di un patto e, come tale, la concreta fondazione del nuovo popolo, che diviene
tale attraverso il suo rapporto di alleanza con Dio. Potremmo anche dire: in virtù
dell'evento eucaristico, Gesù coinvolge i discepoli nel suo rapporto con Dio e pertanto
anche nella sua missione che ha di mira «i molti», ossia l'umanità di tutti
i luoghi e di tutti i tempi. Questi discepoli diventano «popolo» attraverso la
comunione col corpo e col sangue di Gesù, che è al tempo stesso comunione con
Dio. L'idea veterotestamentaria dell'alleanza, che Gesù accoglie nella sua
predicazione, riceve un nuovo centro: la comunione col corpo di Cristo. Potremmo dire: il
popolo della nuova alleanza diventa popolo a partire dal corpo e dal sangue di Cristo, ed
è solo a partire da questo centro che è popolo. Può essere chiamato
«popolo di Dio» perché, per la comunione con Cristo, si apre il rapporto con
Dio, che l'uomo non è in grado di stabilire da sé. Anticipando il nostro tema
principale - Chiesa particolare e Chiesa universale - possiamo dire: l'eucaristia, in quanto
permanente origine e centro della Chiesa, ricongiunge tutti i «molti», che ora
diventano popolo, con l'unico Signore e col suo unico corpo; da ciò dunque è data
l'unicità della Chiesa come la sua unità. Ma le molte celebrazioni, nelle quali
si rende presente l'unica eucaristia, mostrano anche la multiformità dell'unico corpo.
È certamente chiaro, tuttavia, che queste molte celebrazioni non possono porsi l'una
accanto all'altra come qualcosa di autonomo e indipendente l'una dall'altra, ma sono sempre
e soltanto presenza dell'unico e medesimo mistero.
Di per sé l'espressione «popolo di Dio» designa nel Nuovo Testamento
quasi esclusivamente il popolo di Israele e non la Chiesa. Per quest'ultima viene impiegato il
vocabolo εχχλησια, che è poi passato in
tutte le lingue neolatine ed è divenuta la denominazione specifica della nuova
comunità nata dall’opera di Gesù. Perché è stato scelto
questo termine? Che cosa si afferma di questa comunità con tale espressione? Dal ricco
materiale che la ricerca più recente ha riunito sulla questione, vorrei estrapolare una
sola osservazione. Il vocabolo greco, che sopravvive nel latino “ecclesia”, deriva
dalla radice veterotestamentaria “qāhāl”, abitualmente tradotta con
l’espressione “assemblea di popolo”. Tali “assemblee”, nelle
quali il popolo si costituiva come entità cultuale e, a partire dal culto, come
entità giuridica e politica, esistevano tanto nel mondo greco quanto in quello semitico.
La “qāhāl” veterotestamentaria si differenzia però
dall’assemblea plenaria greca, costituita dai cittadini con diritto di voto, in un
duplice senso: alla “qāhāl” partecipano anche le donne e i bambini, che
in Grecia non potevano essere soggetti attivi della vita politica. Ciò dipende dal fatto
che in Grecia sono gli uomini che con le loro decisioni stabiliscono quel che si deve fare,
mentre l’assemblea d’Israele si riunisce “per ascoltare l’annuncio di
Dio e darvi il proprio assenso”. Questa concezione tipicamente biblica
dell’assemblea del popolo deriva dal fatto che l’adunanza al Sinai era vista come
modello e norma di tutte le successive adunanze; dopo l’esilio, essa venne ripetuta
solennemente da Esdra come rifondazione del popolo. Ma per la continuazione della dispersione e
il ritorno della schiavitù, sempre di più divenne nucleo centrale della speranza
di Israele una “qāhāl” proveniente da Dio stesso, una nuova convocazione
e fondazione del popolo. La preghiera per questa convocazione – per la nascita
dell’ecclesia – appartiene al forte patrimonio della preghiera tardo-giudaica.
Risalta, dunque, il significato del fatto che la Chiesa nascente scelga appunto il nome di
Chiesa. Essa dichiara in tal modo che in noi questa preghiera si è adempiuta. Cristo,
morto e risorto, è il Sinai vivente; quelli che si accostano a lui, formano
l’assemblea eletta e definitiva del popolo di Dio (cfr. per es. Eb12,18-24). Si
capisce così perché non sia stata usata la comune definizione di “popolo di
Dio” per designare la nuova comunità, ma sia stata scelta quella che indicava il
centro spirituale ed escatologico del concetto di popolo. Questa nuova comunità si forma
soltanto nella dinamica dell’adunanza originata da Cristo e sostenuta dallo Spirito
Santo, e il centro di tale dinamica è il Signore stesso, il quale si comunica nel suo
corpo e nel suo sangue.
Paolo dunque non ha introdotto in concreto nulla di nuovo chiamando la Chiesa “corpo
di Cristo”; egli ci offre solo una formula concisa a indicare ciò che sin dal
principio era caratteristico della crescita della Chiesa. E’ totalmente falsa
l’affermazione, pur ripetuta in continuazione, che Paolo non avrebbe fatto altro che
applicare alla Chiesa un’allegoria diffusa nella storia stoica del suo tempo.
L’allegoria stoica paragona lo Stato a un organismo in cui tutte le membra devono
cooperare. L’idea dello Stato come organismo è una metafora per indicare la
dipendenza di tutti da tutti e quindi l’importanza delle diverse funzioni che sono
all’origine della vita di una collettività. Questo paragone veniva utilizzato per
calmare le masse in agitazione e richiamarle alle loro funzioni: ogni organo ha una sua
particolare importanza; è insensato che tutti vogliano essere una stessa cosa,
perché allora, anziché divenire qualcosa di più elevato, si abbassano
tutti e si distruggono a vicenda.
Esistono... due radici più concrete della formula paolina. L’una è
presente nell’eucaristia, con la quale il Signore stesso ha formalmente determinato il
sorgere di questa idea. “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il
corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un
corpo solo”, dice Paolo ai Corinzi, nella stessa lettera, dunque, in cui sviluppa per
la prima volta la dottrina del corpo di Cristo (1Cor 10,16s.). Qui noi troviamo il suo vero
fondamento; il Signore diviene il nostro pane, il nostro nutrimento. Egli ci dà il suo
corpo; una parola che però va pensata a partire dalla risurrezione e dallo sfondo
linguistico semitico da cui muove san Paolo. Il corpo è il sé di un uomo, che non
si risolve nel corporeo, ma che comprende anche il corporeo, Cristo ci dà se stesso, lui
che, in quanto risorto, è rimasto corpo. Sebbene in modo nuovo, il fatto esteriore del
mangiare diviene espressione di quel compenetrarsi di due soggetti... Comunione significa
che la barriera apparentemente invalicabile del mio io viene infranta e può essere
infranta poiché Gesù per primo ha voluto aprire tutto se stesso, ci ha tutti
accolti dentro di sé e si è dato totalmente a noi. Comunione significa dunque
fusione delle esistenze: come nell'alimentazione il corpo può assimilare una sostanza
estranea e così vivere, così il mio io viene «assimilato» a
Gesù stesso, fatto simile a lui in uno scambio che spezza sempre più le linee di
separazione. È quanto avviene a quelli che si comunicano; tutti vengono assimilati a
questo «pane» e divengono così tra loro una sola cosa: un solo corpo.
In questo modo l'eucaristia edifica la Chiesa, aprendo le mura della soggettività e
radunandoci in una profonda comunione esistenziale. Per essa ha luogo l'«adunanza»
tramite la quale il Signore ci riunisce. La formula: «la Chiesa è il corpo di
Cristo» afferma dunque che l'eucaristia, in cui il Signore ci dà il suo corpo e fa
di noi un solo corpo, è il luogo dell'ininterrotta nascita della Chiesa, nel quale egli
la fonda sempre di nuovo; nell'eucaristia la Chiesa è se stessa nel modo più
intenso; in tutti i luoghi e nondimeno una sola, così come lui è uno solo.
Con queste riflessioni siamo giunti alla terza radice del «corpo di Cristo» nella
concezione paolina; l'idea del rapporto sponsale o - se vogliamo esprimerci in termini
neutrali - la filosofia biblica dell'amore, che è inseparabile dalla teologia
eucaristica. Questa filosofia dell'amore si presenta subito al principio della sacra
Scrittura, a conclusione del racconto della creazione, allorché ad Adamo viene
attribuita la parola profetica: «Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua
madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn2,24).
Una carne, vale a dire: un'unica nuova esistenza. Anche questa idea del divenire una
sola carne nell'unione di anima e corpo dell'uomo e della donna viene ripresa nella prima
lettera ai Corinzi da Paolo, il quale precisa che essa si avvera nella comunione:
«Chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito» (1Cor6,17).
Ma ora appare in primo piano un nuovo e più importante aspetto, che potrebbe essere
dimenticato in una teologia sacramentaria di corto respiro, ed è che la Chiesa è
corpo di Cristo nel modo in cui la moglie insieme al marito diviene un solo corpo e una sola
carne. In altre parole: essa è corpo non secondo una identità indifferenziata, ma
in virtù dell'atto pneumatico-reale dell'amore che unisce gli sposi. Detto ancora con
altri termini: Cristo e la Chiesa sono un corpo nel senso in cui marito e moglie sono una
sola carne, così che pur nella loro inscindibile unione fisico-spirituale restano
tuttavia non mescolati e non confusi. La Chiesa non diventa semplicemente Cristo, essa rimane
la serva che nel suo amore egli innalza a sua sposa che cerca il suo volto in questa fine dei
tempi. Ma in questo modo sul fondamento dell'indicativo che si annuncia nelle parole
«sposa» e «carne», appare anche l'imperativo dell'esistenza cristiana.
Diviene perciò evidente il carattere dinamico del sacramento, che non è una
realtà fisica predeterminata, ma qualcosa che si realizza a livello personale. Proprio
il mistero d'amore come mistero sponsale manifesta l'immensità del nostro compito e la
possibilità di caduta nella Chiesa. Sempre di nuovo, attraverso l'amore unificante,
essa deve divenire ciò che essa è, e sottrarsi alla tentazione di rifiutare la
propria vocazione per cadere nell'infedeltà di un'arbitraria autonomia. Diviene
evidente il carattere relazionale e pneumatologico dell'idea di corpo di Cristo e della
concezione sponsale, e la ragione per cui la Chiesa non è mai giunta a perfezione ma ha
sempre bisogno di rinnovamento. Essa è sempre in cammino verso l'unione con Cristo:
ciò che comporta anche la sua propria, interiore unità che diviene, viceversa,
tanto più fragile, quanto più si allontana da questo rapporto fondamentale.
Particolarmente fruttuosa sarebbe un’analisi degli Atti degli apostoli,
un’opera che potrebbe essere senz’altro definita nel suo insieme
un’ecclesiologia narrativa.
Il primo quadro è la permanenza dei discepoli nella sala della cena,
l’adunanza degli apostoli e di tutta la piccola compagnia dei fedeli di Gesù
insieme a Maria, e il loro concorde perseverare nella preghiera. Qui ogni particolare è
importante: la sala della cena, il “piano superiore” come luogo della futura
Chiesa; gli Undici, che vengono chiamati per nome; Maria, le donne e i fratelli. Tutto
ciò costituisce una vera “qāhāl”, un’assemblea costitutiva
dell’alleanza con i suoi distinti ordini, ma al tempo stesso uno specchio del nuovo
popolo nella sua totalità. Questa assemblea persevera concorde nella preghiera e riceve
così la sua unità dal Signore. Sostanzialmente la sua attività sta nel
rivolgersi al Dio vivente, nella disponibilità al suo volere.
Il secondo quadro si trova alla fine del secondo capitolo, dove quella che è ormai
la Chiesa primitiva ci viene presentata in quattro concetti: assiduità
all’insegnamento degli apostoli, che costituisce già un’apertura verso la
successione apostolica e la funzione di testimoni dei successori degli apostoli; perseveranza
nella vita di comunità, nella frazione del pane e nella preghiera. Potremmo dire che
parola e sacramento si presentano qui come i due pilastri fondamentali del vivente edificio
della Chiesa. Ma occorre aggiungere che questa parola è legata alla forma istituzionale
e alla responsabilità personale del testimone; così come occorre aggiungere
che la designazione del sacramento come frazione del pane esprime la dimensione sociale
dell’eucarestia, che non è un atto isolato di culto ma una forma di esistenza;
la vita nella condivisione, nella comunione con il Cristo che si autodona.
La scena della Pentecoste negli Atti degli apostoli presenta l’intreccio di
molteplicità ed unità, insegnandoci a vedere in ciò la
peculiarità dello Spirito Santo. Lo spirito del mondo vuol dire assoggettamento, lo
Spirito Santo apertura. Alla Chiesa appartengono le molte lingue, cioè le molte
culture che nella fede si comprendono e si fecondano a vicenda. In questo senso possiamo dire
che qui si delinea il progetto di una Chiesa che vive in molte e multiformi Chiese particolari,
ma proprio così è l’unica Chiesa. Nello stesso tempo con questa
raffigurazione Luca vuole affermare che nel momento della sua nascita la Chiesa era
già cattolica, era già Chiesa universale. Sulla base di Luca è dunque da
escludere la concezione secondo la quale per prima sarebbe sorta in Gerusalemme una Chiesa
particolare, a partire dalla quale si sarebbero formate via via altre Chiese particolari, che
in seguito si sarebbero gradatamente associate. E’ avvenuto al contrario, ci dice
Luca: per prima è esistita l’unica Chiesa che parla in tutte le lingue –
l’ecclesia universalis, la quale genera poi Chiese nei luoghi più diversi,
che sono tutte e sempre attuazioni della sola e unica Chiesa. La priorità cronologica e
ontologica appartiene alla Chiesa universale; una Chiesa che non fosse cattolica non sarebbe
affatto Chiesa.
Per Luca Roma rappresenta il mondo pagano in generale. “Con l’arrivo a Roma, il
cammino incominciato a Gerusalemme ha raggiunto la sua meta; si è realizzata la Chiesa
universale – la Chiesa cattolica – che è il proseguimento del popolo
dell’elezione e che fa propria la storia e la missione di questo popolo. In questo
senso Roma, ricapitolazione dei popoli del mondo, ha una funzione teologica negli Atti degli
apostoli; essa non può essere esclusa dall’idea lucana della
cattolicità”. Possiamo così dire che Luca anticipa tutte le questioni
decisive del tempo postapostolico, e con il suo intreccio di molteplicità e
unità, di universalità e particolarità ci offre un filo conduttore che ci
aiuta a comprendere i nostri problemi partendo dalla testimonianza delle origini.
(da Joseph Ratzinger, Origine e natura della Chiesa, in La Chiesa. Una comunità
sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.9-31)
Subito dopo la prima guerra mondiale Romano Guardini coniò una
formula, che divenne poi rapidamente uno slogan nel cattolicesimo tedesco: «Un evento
di incalcolabile portata è iniziato: la Chiesa si risveglia nelle anime». Il
frutto di questo risveglio è stato il Concilio Vaticano II; esso ha espresso nei suoi
documenti, e reso così patrimonio di tutta la Chiesa, ciò che in quei quattro
decenni pieni di fermento e di speranze - dal 1920 al 1960 - era maturato quanto a conoscenza
attraverso la fede. Per poter comprendere il Vaticano II, è dunque necessario gettare
uno sguardo a questo periodo e cercare di scoprire, almeno a grandi tratti, le linee e le
tendenze, che sono confluite nel Concilio. Procederò pertanto presentando dapprima le
idee, che furono elaborate in quel periodo, per poi sviluppare gli elementi fondamentali della
dottrina conciliare sulla Chiesa.
«La Chiesa si risveglia nelle anime». Questa frase di Guardini era stata formulata
molto consapevolmente, perché proprio in essa apparve che la Chiesa era finalmente
riconosciuta e sperimentata come qualcosa di interiore, che non sta di fronte a noi come
un'istituzione qualsiasi, ma che vive in noi stessi. Se fino ad allora la Chiesa era stata
vista soprattutto come struttura e organizzazione, ora finalmente sorse la consapevolezza: noi
stessi siamo la Chiesa; essa è più di un'organizzazione: essa è
l'organismo dello Spirito Santo, qualcosa di vitale, che afferra noi tutti a partire
dall'intimo. Questa nuova coscienza di Chiesa trovò la sua espressione linguistica
nel concetto di «corpo mistico di Cristo». In questa formula si esprime
un'esperienza nuova e liberante di Chiesa, che Guardini, alla fine della sua vita, proprio
nell'anno della pubblicazione della costituzione conciliare sulla Chiesa, descrisse ancora una
volta così: la Chiesa «non è un istituzione immaginata e costruita dagli
uomini... ma una realtà vivente... Essa vive ancora attraverso il tempo; si
sviluppa come tutte le realtà viventi; muta... eppure essa è, nella sua
realtà più profonda, sempre la stessa e il suo nucleo più intimo è
Cristo... Finché noi consideriamo la Chiesa solo come un'organizzazione...; come un
apparato...; come un'associazione... noi non viviamo ancora verso di lei il giusto
atteggiamento. Invece essa è una realtà vivente, e il nostro rapporto verso di
lei deve essere esso pure vita» (La Chiesa del Signore, Morcelliana, Brescia 1967,
p. 160).
E difficile comunicare l'entusiasmo, la gioia che vi fu allora in questa presa di coscienza.
Nell'epoca del pensiero liberale, fino alla prima guerra mondiale, la Chiesa cattolica era
stata vista come un apparato fossilizzato, che si contrapponeva tenacemente alle conquiste
dell'epoca moderna. Nella teologia la questione del Primato era stata posta talmente in primo
piano, da far apparire la Chiesa essenzialmente come una istituzione centralisticamente
articolata, che uno difendeva tenacemente, ma di fronte a cui tuttavia ci si poneva in qualche
modo solo dall'esterno. Ora diveniva di nuovo chiaro che la Chiesa è qualcosa di
più, che noi tutti la portiamo avanti nella fede in modo vitale, così come essa
porta noi. Era divenuto chiaro che essa vive una crescita organica attraverso i secoli, che
continua anche oggi. Era divenuto chiaro che attraverso di essa rimane attuale il mistero
dell'incarnazione: Cristo cammina ancora attraverso i tempi. Sicché, se noi ci
chiediamo quali elementi restano acquisiti da questo primo punto di partenza e quali siano
rifluiti nel Vaticano II, possiamo rispondere così: il primo aspetto è la
definizione cristologica del concetto di Chiesa. J.A. Möhler, il grande rinnovatore
della teologia cattolica dopo la desolazione dell’illuminismo, disse una volta: una certa
erronea teologia potrebbe essere caricaturalmente sintetizzata in questa frase:
«All'inizio Cristo ha fondato la gerarchia e con ciò ha provveduto a sufficienza
per la Chiesa fino alla fine dei tempi». Ma a ciò va contrapposto che la Chiesa
è Corpo mistico, cioè che Cristo stesso è il suo fondamento sempre nuovo;
che Egli non è mai in essa solo il passato, ma sempre e soprattutto il presente e il
futuro. La Chiesa è la presenza di Cristo: la nostra contemporaneità con
Lui e la Sua contemporaneità con noi. Essa vive di questo: del fatto che Cristo
è presente nei cuori; è di lì che egli forma la Sua Chiesa.
Perciò, la prima parola della Chiesa è Cristo e non se stessa: essa è
sana nella misura in cui tutta la sua attenzione è rivolta a Lui. Vaticano II ha
collocato questa concezione in modo così grandioso al vertice delle sue considerazioni,
che il testo fondamentale sulla Chiesa comincia proprio con le parole: Lumen Gentium cum sit
Christus: poiché Cristo è la luce del mondo, per questo esiste uno specchio
della Sua gloria, la Chiesa, che trasmette il suo splendore. Se uno vuole comprendere
rettamente il Vaticano II, deve sempre di nuovo cominciare da questa frase iniziale...
In secondo luogo, a partire da questo punto di partenza, si deve stabilire l’aspetto
dell’interiorità e quello della natura comunitaria della Chiesa. La Chiesa cresce
dall’interno all’esterno e non viceversa. Essa significa anzitutto la più
intima comunione con Cristo; essa si forma nella vita della preghiera, nella vita sacramentale,
negli atteggiamenti fondamentali della fede, della speranza e dell’amore. Così, se
qualcuno chiede: cosa devo fare per diventare Chiesa e crescere come Chiesa, la risposta non
può che essere: devi cercare prima di tutto di diventare uno che vive la fede, la
speranza, la carità. Ciò che costruisce la Chiesa sono la preghiera e la
comunione ai sacramenti, nei quali la preghiera stessa della Chiesa ci viene incontro.
La Chiesa cresce dal di dentro; questo vuol dirci l’espressione “Corpo di
Cristo”; tuttavia ciò implica immediatamente anche questo altro elemento:
Cristo si è costruito un Corpo; se voglio trovarlo e farlo mio io sono chiamato a farne
parte come un umile membro ma in maniera completa, poiché io sono divenuto addirittura
un suo membro, un suo organo in questo mondo e di conseguenza per l’eternità.
L’idea della teologia liberale per cui Gesù sarebbe interessante, mentre la Chiesa
sarebbe una misera realtà, si differenzia completamente da questa presa di coscienza.
Cristo si dà solo nel suo Corpo e mai in un mero ideale. Ciò vuol dire: si
dà insieme con gli altri, nella ininterrotta comunione che attraversa i tempi, la quale
è questo Suo Corpo. La Chiesa non è un’idea, ma un Corpo, e lo scandalo
del farsi carne, in cui inciamparono tanti contemporanei di Gesù, continua nella
scandalosità della Chiesa; tuttavia anche a questo proposito vale il detto: Beato
chi non si scandalizza di me.
Henri de Lubac, in un’opera grandiosa piena di ampia erudizione, ha chiarito che il
termine “corpus mysticum” originariamente contrassegna la SS.Eucarestia e che, per
Paolo come per i Padri della Chiesa, l’idea della Chiesa come Corpo di Cristo è
stata inseparabilmente collegata con l’idea dell’Eucarestia, in cui il Signore
è presente corporalmente e dà a noi il suo corpo come cibo. Ebbe così
origine un’ecclesiologia eucaristica, chiamata spesso anche ecclesiologia di
“communio”. Questa ecclesiologia della “communio” è diventata il
vero e proprio cuore della dottrina sulla Chiesa del Vaticano II, l’elemento nuovo e
allo stesso tempo del tutto legato alle origini, che questo Concilio ha voluto donarci.
Alla Chiesa appartiene essenzialmente l’elemento del “ricevere”, così
come la fede deriva dall’ascolto e non è prodotto delle proprie decisioni o
riflessioni. La fede infatti è incontro con ciò che io non posso escogitare o
produrre con i miei sforzi, ma che mi deve invece venire incontro. Questa struttura del
ricevere, dell’incontrare, la chiamiamo “Sacramento”. E appunto per questo
rientra ancora nella forma fondamentale del Sacramento il fatto che esso viene ricevuto e che
nessuno se lo può conferire da solo. Nessuno si può battezzare da sé;
nessuno può attribuirsi da sé l’ordinazione sacerdotale; nessuno
può, da sé, assolversi dai propri peccati. Da questa struttura di incontro
dipende anche il fatto che un pentimento perfetto, per sua stessa essenza, non può
restare interiore, ma urge verso la forma di incontro del Sacramento. Perciò non
è semplicemente un’infrazione contro prescrizioni esteriori del diritto canonico
se ci si porge da sé l’Eucarestia e la si prende da sé, ma è una
ferita della più intima struttura del Sacramento. Il fatto che in quest’unico
Sacramento il prete possa egli stesso somministrarsi il Sacro Dono rinvia al “mysterium
tremendum” al quale è esposto nell’Eucarestia; agire “in persona
Christi” e così, nello stesso tempo, rappresentarlo ed essere un uomo peccatore,
che vive completamente dall’accogliere il suo Dono. La Chiesa non la si può
fare, ma solo riceverla, e cioè riceverla da dove essa è già, da dove essa
è realmente presente: dalla comunità sacramentale del suo Corpo che attraversa la
storia. Ma c’è da aggiungere ancora qualcosa, che ci aiuta a comprendere questo
difficile termine “comunità conformi al diritto”: Cristo è dovunque
intero. Questa è la prima importantissima cosa che il Concilio ha formulato, in
unità coi fratelli ortodossi. Ma egli è dovunque anche uno solo, e
perciò io posso avere l’unico Signore solo nell’unità che egli stesso
è, nell’unità con gli altri che sono anche essi il suo Corpo e che,
nell’Eucarestia, lo devono sempre di nuovo diventare.
(da Joseph Ratzinger, L’ecclesiologia del Vaticano II, in Chiesa, ecumenismo e
politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.9-16)
La costituzione ecclesiale... ha assunto (il concetto di popolo di Dio)... quando esso
descrive il rapporto dei cristiani non cattolici verso la Chiesa cattolica col concetto di
“collegamento” e quello dei non cristiani col termine “ordinazione”,
ove entrambe le volte ci si appoggia all’idea di popolo di Dio (nn.15 e 16). Così
si può dire che il concetto di “popolo di Dio” è stato introdotto
dal Concilio soprattutto come ponte ecumenico.
Doveva, così si disse, di nuovo venire chiaramente evidenziata la differenza
cristologica: la Chiesa non è identica con Cristo, ma gli sta di fronte. Essa è
Chiesa di peccatori, che abbisogna sempre nuovamente di purificazione e di rinnovamento, sempre
nuovamente deve diventare Chiesa. Così l’idea di riforma divenne un elemento
decisivo del concetto di popolo di Dio, che dall’idea di Corpo di Cristo non si lasciava
invece sviluppare così facilmente.
Tocchiamo qui un terzo aspetto, che giocò a favore dell’idea di popolo di
Dio. L’esegeta evangelico Ernst Käsemann, nel 1939, aveva dato alla sua monografia
sulla Lettera agli Ebrei il titolo Il popolo di Dio pellegrinante. Questo titolo divenne,
nell’ambiente dei dibattiti conciliari, addirittura uno slogan, poiché faceva
risuonare qualcosa che, nel corso del dibattito circa la Costituzione sulla Chiesa, era
divenuto sempre più chiaramente conscio: la Chiesa non è ancora giunta alla
sua meta. Essa ha la sua vera e propria speranza ancora davanti a sé. Il momento
“escatologico” del concetto di Chiesa diventò chiaro. Soprattutto si
poté, in questa maniera, esprimere l’unità della storia della salvezza, che
comprende insieme Israele e la Chiesa, nella via del suo pellegrinaggio. Si poté
così esprimere la storicità della Chiesa, che è in cammino e che
sarà completamente se stessa solo allorché le strade del tempo saranno state
percorse e sfoceranno nelle mani di Dio.
Con ciò si è fatto cenno anche a tutto ciò che non può venir
cercato nel concetto di popolo di Dio. Forse mi è permesso di riferirne qui, in una
forma un po’ più personale, poiché io stesso potei prender parte, in
maniera umile, alla preistoria che ha condotto al Concilio. Il mio maestro di teologia
all’inizio degli anni quaranta, quando l’idea di popolo di Dio era stata lanciata
di fresco nel dibattito, era giunto alla convinzione sulla base di alcuni testi patristici e di
altre testimonianze della tradizione che “popolo di Dio” potesse essere in effetti
il concetto-base di Chiesa, assai più e meglio che “corpo di Cristo”.
(da Joseph Ratzinger, L’ecclesiologia del Vaticano II, in Chiesa, ecumenismo e
politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.19-32)
Il mio professore Söhngen si era accorto che il catechismo del concilio di Trento
nella definizione del concetto di chiesa citava una frase di Agostino: “La chiesa
è il popolo credente sparso sulla terra” (Cat Rom. cap. X,2; il catechismo
rimanda ad Agostino, in ps.149, dove si trova effettivamente la citazione ma secondo il senso,
non letteralmente). In connessione con le argomentazioni di Koster (N.d.C. che riteneva che il
concetto di “corpo mistico” appartenesse alla dottrina della grazia, più che
alla ecclesiologia), questa citazione acquistò un nuovo significato; non si erano letti,
apparentemente, i Padri della chiesa unilateralmente? A Söhngen sembrò allora
necessaria una rilettura dei Padri a partire dal punto di vista esposto da Koster e
apparentemente confermato dal Catechismo Romano. Era così stabilito il tema del mio
lavoro che doveva esaminare, a mo’ di esempio in Agostino, la questione del rapporto di
popolo di Dio e corpo di Cristo.
Il risultato del mio lavoro non confermò la supposizione che si rifaceva a Koster.
Potei dimostrare che Agostino segue pienamente la linea del Nuovo Testamento: “popolo
di Dio”, sostanzialmente usato solo in citazioni veterotestamentarie, non indica
né Israele prima di Cristo né traspone, però, nella sua completezza il
testo veterotestamentario spiritualizzandolo e applicandolo alla chiesa. Ciò vuol dire
allora: popolo di Dio non è in questo caso semplicemente un puro “concetto
obiettivo” per chiesa, ma diviene concetto di chiesa solo attraverso un processo di
trasposizione spirituale di tutto l’asserto veterotestamentario, quindi in un
procedimento tipologico. Così il rapporto di “concetto” e di
“immagine” è precisamente l’opposto di quello che deriva da una
supposizione che non segue il processo interno di formazione degli asserti: “popolo di
Dio” è un asserto metaforico sulla chiesa desunto dal Vecchio Testamento. Ha un
valore esclusivamente “allegorico” e la sua applicazione alla chiesa dipende dalla
possibilità di riportare alla chiesa “allegoricamente” l’Antico
Testamento. “Corpo di Cristo”, invece, esprime la realtà oggettiva di questa
comunità: essa viene costituita in nuovo organismo dall’assemblea liturgica.
Con l’ultima asserzione, verso la quale mi avevano condotto le opere di H.de Lubac, ero
anche giunto ad operare un’evidente correzione nei confronti dell’idea di corpo di
Cristo del periodo intrabellico. I sostenitori di questo concetto avevano ampiamente trascurato
il suo ancoramento eucaristico e non avevano così potuto esporre sufficientemente la sua
concretezza e profondità. Questo è stato, per me, il risultato centrale della mia
ricerca: la rilettura cristologica dell’Antico Testamento e la vita sacramentale
centrata nell’Eucarestia sono i due elementi portanti nella visione agostiniana della
chiesa. Da questo punto di vista, inoltre, egli non solo è d’accordo con tutti
i Padri della chiesa ma è legato al fondamento stesso del Nuovo Testamento.
(da Joseph Ratzinger, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Jaca Book, Milano,
2005, pagg.XII-XIII)
Il passaggio (nella vita di Agostino)dal filosofo che disputa al predicatore che annuncia, non
è stato soltanto un cambiamento esteriore di ruoli, bensì un evento vissuto nel
più intimo; un avvenimento spirituale che sconvolse Agostino nel profondo. Così
poté nascere l’impressione che tra i due stadi ci fosse quasi una rottura
interiore, anzi che fosse proprio quella la autentica “conversione” di Agostino.
Per lo meno si credeva di dover negare all’Agostino degli scritti giovanili un
più profondo rapporto con la Chiesa cristiana per poter così attribuire ad un
regno di pura spiritualità la grande esplosione dell’anno 386 e non invece a
questa Chiesa terrena con tutta la sua umanità spesso tanto dolorosamente piccina,
con la sua veste di schiava che troppo profondamente sembra nasconderci i preziosi tesori di
quella gloria di Dio che invece suscita la brama di sé da parte degli uomini. Per la
nostra indagine non può essere privo d’importanza se di fatto così è
accaduto per lui. Infatti il cammino spirituale di un uomo non è separabile dalla sua
azione, nata appunto da tale spirito.
Accanto al semplice motivo che egli stesso indica, che cioè, a causa della madre
egli era così profondamente immerso nell’annuncio della fede cristiana che una
sapienza senza Cristo non poteva apparirgli come sapienza perfetta, ha ancora un altro
motivo più profondo che sta nella filosofia stessa. E’ qui il caso di osservare
che il rapporto della filosofia con la religione stava nell’antichità in maniera
essenzialmente diversa di come si presenta ai nostri giorni. Per render la cosa evidente basta
riflettere al fatto che una delle obiezioni più gravi contro il cristianesimo nascente
stava nella sua caratterizzazione come ateismo. Dal punto di vista odierno una tale
affermazione appare assurda, possibile solo a causa di un’ignoranza totale del vero
cristianesimo. Gli scritti degli apologeti intrapresero notoriamente il tentativo di tradurre
la fede cristiana nella filosofia greca e identificarono il Dio dei cristiani con
quest’ultima αρχη la quale anche dai filosofi pagani era conosciuta da
molto tempo. Con ciò però ottenevano l’effetto contrario, la pretesa
inaudita cioè che ad un principio supremo inteso in modo puramente filosofico ora
sarebbe dovuto toccare il culto religioso unico. L’ordine metafisico infatti non avanzava
per l’uomo antico, ancora per lungo tempo, nessuna pretesa religiosa. Non solo da un lato
l’epicureismo materialista restava attaccato al culto degli idoli, ma anche Aristotele,
senza danno dell’unità del principio supremo, lasciava indisturbata la fede
religiosa del suo ambiente. Fu un’impresa assolutamente nuova degli apologeti il far
coincidere metafisica e religione, quando delinearono il volto del Dio vivente nella figura
amorfa del πρωτον χινουν.
La filosofia non poteva dunque in nessun modo servire come surrogato della religione, di
qualunque specie essa fosse, bensì esigeva accanto a sé e sopra di sé la
religione.
Innanzitutto ci resta da investigare come mai Agostino abbia rinunciato alla via regale dei
filosofi e si sia messo per la via religiosa del popolo comune. Non c’è dubbio che
egli comprendesse questa come un abbassamento e un’umiliazione. L’esigenza decisiva
della religione si chiama appunto fede.
Agostino esperimenta un’infirmitas contro cui la filosofia non lo protegge. Deve
venire un altro mezzo per aiutarlo. Egli si attacca nuovamente alla scrittura e la intende in
modo nuovo. Cristo è la sapienza incarnata, la Parola di Dio incarnata. Se prima egli
non aveva avuto comprensione alcuna per la divinità di Cristo, ora questa diventa per
lui la soluzione decisiva del suo problema: Agostino nella sua debolezza non può
sopportare il “cibo” di Dio nella sua forma pura, perciò la stessa parola di
Dio si mescola con la carne affinché l’uomo la possa gustare. Qui sta, secondo la
rappresentazione delle Confessiones, l’idea della Chiesa di Agostino del tempo
della conversione: nella Chiesa Dio ci dà per cibo in forme visibili
l’invisibile e così ci conduce sempre di più verso l’invisibile,
fino a che da ultimo noi siamo riusciti a crescere fino a lui immediatamente.
Finora è in ogni caso talmente chiaro che Agostino ha visto nella fede cristiana la
via di purificazione offerta da Dio stesso, gli elementi essenziali della quale sono designati
mediante i concetti credere-auctoritas-humilitas. La condizione umana di
perdizione rende questa via come uno stadio dell’ascesa dell’anima comunemente
inevitabile.
Si può forse dire che ad Agostino la Chiesa materna si è fatta visibile per
il suo caso concreto nella figura della madre. Questa divenne realmente per lui la madre Chiesa
che lo rigenerava e così gli apparteneva in una duplice maternità.
(da Joseph Ratzinger, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Jaca Book, Milano,
2005, pagg.13-19)
La Chiesa appare da qui come la civitas fondata da Dio, spirituale, oppure piuttosto
come la sua colonia in pellegrinaggio sulla terra. “Popolo” nel senso finora usato
può quindi esser solo inteso come tipo (antico testamento) oppure antitipo (pagano) per
la nuova comunità di Dio. Il ruolo del concetto rispetto a questa comunità
è di conseguenza diverso che nelle grandezze intese finora con “popolo”.
Il diritto di tale popolo è “diritto divino” cioè diritto
sacramentale. Il popolo ha la sua vera e proprio qualità nell’essere
comunità sacramentale del corpo di Cristo, cioè corpus Christi.
Quest’ultimo concetto non è né “mistico” né confuso,
esso è del tutto concreto e per nulla inteso solo simbolicamente. Così
l’unus panis – unum corpus sumus multi costituisce il centro
propriamente oggettivo del concetto di Chiesa di Agostino. C’è appena bisogno
di osservare appositamente che esso è nello stesso tempo il nucleo veramente fedele alla
tradizione.
La realtà del sacrificio eucaristico fece trovare ad Agostino nel corpus Christi
l’ultima realtà della Chiesa.
(da Joseph Ratzinger, Popolo e casa di Dio in sant’Agostino, Jaca Book, Milano,
2005, pagg.330-331)
Giunsi così ad un risultato inaspettato: il termine “popolo di Dio”
appare sì nel Nuovo Testamento molto di frequente, ma solo in pochissimi posti (in fondo
solo in due) indica la Chiesa, mentre il suo normale significato rinvia al popolo di
Israele. Anzi, anche là dove esso può indicare la Chiesa, il senso
fondamentale di “Israele” viene mantenuto, mentre il contesto lascia chiaramente
capire che ora i cristiani sono diventati Israele. Possiamo dunque dire: nel Nuovo
Testamento popolo di Dio non è una denominazione della Chiesa; tuttavia esso solo,
nell’interpretazione cristologica dell’Antico Testamento e quindi passando
attraverso la trasformazione cristologica, può indicare il nuovo Israele. La
normale denominazione della Chiesa nel Nuovo Testamento è il termine
“Ecclesia”, che nell’Antico Testamento indica l’assemblea del popolo
convocato dalla parola di Dio.
Il termine “Ecclesia”, Chiesa, è la modificazione e la trasformazione del
concetto veterotestamentario di popolo di Dio. Lo si impiega poiché in esso è
incluso il fatto che solo la nuova nascita in Cristo fa diventare il non-popolo un
popolo. Paolo ha poi riassunto consequenzialmente questo necessario processo di
trasformazione cristologica nel concetto di Corpo di Cristo. Prima di trarre le conseguenze di
ciò, devo ancora notare che nel frattempo lo studioso dell’Antico Testamento
Norbert Lohfink ha mostrato che anche nell’Antico Testamento il termine “popolo
di Dio” non indica semplicemente Israele nella sua fatticità empirica. A livello
puramente empirico nessun popolo è “popolo di Dio”. Porre Dio come marchio
di una discendenza o come un contrassegno sociologico potrebbe essere sempre solo
un’insopportabile presunzione, anzi ultimamente una bestemmia. Israele viene indicato col
concetto di popolo di Dio, in quanto si è rivolto al Signore, non semplicemente in se
stesso, ma nell’atto della relazione e del superare se stesso, che solo lo rende
ciò che egli, di per sé, non è.
Cosa significa ora ciò concretamente? Significa che i cristiani non sono
semplicemente popolo di Dio. Da un punto di vista empirico, essi sono un non-popolo, come ogni
analisi sociologica può velocemente mostrare. E Dio non è proprietà di
nessuno; nessuno può appropriarsene. Il non-popolo dei cristiani può essere
popolo di Dio solo con l’inserimento in Cristo, Figlio di Dio e Figlio di Abramo.
Anche se si parla di popolo di Dio, la cristologia deve restare il centro della dottrina
della Chiesa, e la Chiesa deve di conseguenza venir considerata essenzialmente a partire dai
sacramenti del Battesimo, dell’Eucarestia e dell’Ordine. Noi siamo popolo di Dio
non altrimenti che a partire dal corpo di Cristo crocifisso e risorto. Noi lo diventiamo
solo nella vivente ordinazione a lui, e solo in questo contesto il termine ha un senso. Il
Concilio ha già chiarito molto bene questa connessione, ponendo in primo piano, insieme
al termine “popolo di Dio”, anche un secondo termine fondamentale per la Chiesa; la
Chiesa come Sacramento. Si resta fedeli al Concilio solo allorché si leggono sempre e si
pensano insieme entrambe queste due parole centrali della sua ecclesiologia: sacramento e
popolo di Dio. Qui diventa visibile quanto il Concilio stia ancora davanti a noi:
l’idea di Chiesa come Sacramento è ancora assai poco entrata nella nostra
consapevolezza.
La costituzione sulla Chiesa termina col capitolo sulla Madre di Dio. La questione se non le
si dovesse dedicare un testo proprio fu, come è noto, ampiamente dibattuta. Io penso
che in ogni caso sia stata una buona disposizione che l’elemento mariano sia entrato
direttamente nella dottrina della Chiesa. Infatti così diventa ancora una volta
visibile il punto di partenza da cui abbiamo preso le mosse: la Chiesa non è apparato,
non è semplicemente istituzione, non è nemmeno una delle tante entità
sociologiche; essa è persona. Essa è una donna. Essa è madre. Essa
è vivente. La comprensione mariana della Chiesa è la più decisa
contrapposizione ad un concetto di Chiesa meramente organizzativo e burocratico. La Chiesa noi
non la possiamo fare, dobbiamo esserla. E solo nella misura in cui la fede, al di là
del nostro fare, forgia il nostro essere, siamo Chiesa, la Chiesa è in noi. Solo
nell’essere mariano noi diventiamo Chiesa. Anche all’origine la Chiesa non fu
fatta, ma generata.
Ma tanto più il pathos è cresciuto nel tempo postconciliare, dove si possono
osservare due tendenze fondamentali: da una parte un riduzionismo, che mantiene
dell’ecclesiologia conciliare ormai solo la parola di “popolo di Dio”;
dall’altra una metamorfosi ed amplificazione del suo significato nel senso di una
sociologizzazione dell’idea di Chiesa. “Popolo” appare come un
concetto da elaborare in linea socio-politica. Se la Chiesa può essere definita col
concetto di “popolo”, allora la sua essenza e il suo ordine giuridico si possono
determinare nel modo migliore da punti di vista sociali e politici. Così la formula
“Popolo di Dio” diventa veicolo di un’idea di Chiesa antigerarchica e
antisacrale, anzi di una categoria rivoluzionaria di cui ci si appropria per concepire una
nuova Chiesa.
“C’è una grande tragicità nel fatto che nel movimento dei vecchi
credenti si faccia dell’atteggiamento bizantino antico, del proprio costume tradizionale
e del proprio rito il criterio dell’ortodossia: il fenomeno che a suo tempo aveva portato
alla rottura del 1054, e che ora si rivolta contro la stessa Chiesa ufficiale greca e russa, e
il fatto che i vecchi credenti, sulla base della stessa tradizione bizantina, identifichino
lo specifico popolare con la Chiesa ortodossa in quanto tale, e d’ora in poi rompono con
la Chiesa russa ufficiale e l’ortodossia greca: in nome del POPOLO ortodosso e non della
CHIESA ortodossa”. Ivanka parla in tale contesto di “conversione della Chiesa in
popolo”; contro la Chiesa (contro la sua gerarchia) “il popolo ortodosso
rappresenta, come popolo, la pretesa d’essere l’unico universale portatore
dell’ortodossia”.
Non più il sacramento della successione apostolica garantisce l’identità
della Chiesa e del suo messaggio attraverso i tempi, ma il popolo in quanto popolo nella sua
costanza e infallibilità è garante per lo Spirito, anche contro il
sacramento.
Per Chomjakov, il popolo dalla vera fede è il custode della fede, perché
è “popolo portatore di Dio”. Lo Spirito Santo “opera in esso e parla
dalla sua fede; la gerarchia dal popolo eletta e istituita ha solo il compito di testimoniare
la fede che vive in esso”. La svolta che vede il popolo contro la gerarchia diventa
qui anche svolta di popolo contro il ministero docente, in direzione di un concetto pneumatico
e non gerarchico di Chiesa, dal quale poi si forma al tempo stesso l’idea di una Chiesa
dell’amore, pneumaticamente e non gerarchicamente unita. Tutto ciò è molto
lontano dalla tradizione classica ortodossa, ma ora appare – in una riflessione teologica
ispirata ai vecchi credenti - come la vera fisionomia del cristianesimo orientale, il quale
è da allora apparso sempre di più a circoli cattolici ed evangelici
dell’occidente come immagine ideale del cristianesimo giovanneo, in cui la
contraddittorietà in sé ineliminabile del cristianesimo petrino
(romano-cattolico) e paolino (protestante) poteva essere trascesa in una superiore
unità.
(da Joseph Ratzinger, L’ecclesiologia del Vaticano II, in Chiesa, ecumenismo e
politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1987, pagg.19-32)
Su questo punto di partenza Agostino ha portato avanti il suo confronto
con il donatismo. I donatisti avevano i medesimi sacramenti della Chiesa cattolica, dove dunque
si colloca la differenza? Che cosa c’è in essi di inadeguato? La risposta di
Agostino fa riferimento alle origini della divisione e alla forma che ha assunto. In base a
queste considerazioni egli afferma: essi hanno rotto l’amore. Se ne sono andati,
perché ponevano la loro idea di perfezione al di sopra dell’unità. Hanno
mantenuto tutto ciò che costituisce l’apparato organizzativo della Chiesa
cattolica, ma hanno rinunciato all’amore, insieme con l’unità. E,
proprio per questo, tutto il resto è vuoto. La parola “caritas” riceve qui
un significato davvero concreto, ecclesiale; nel linguaggio di Agostino si fa spazio una nuova
e pregnante compenetrazione dei termini proprio dal momento che può dire: la Chiesa
è caritas.
Essere cristiani implica l’accettazione dell’intera comunità dei
credenti, l’umiltà dell’amore, il “sostenersi gli uni gli
altri”, diversamente manca, appunto, lo Spirito Santo, che è Colui che unisce.
L’affermazione dogmatica “la Chiesa è Carità” non resta quindi
confinata in un ambito puramente dogmatico-accademico, ma rinvia al dinamismo che edifica
l’unità e che si dimostra nel sostenersi vicendevole della Chiesa. In questo
senso, per Agostino lo scisma è un’eresia pneumatologica, che viene a collocarsi
nella concretezza di una situazione esistenziale: uscire dal permanere che è proprio
dello Spirito Santo, dalla pazienza della Carità; rinuncia all’amore rinunciando
alla propria permanenza e, così, negazione dello Spirito Santo, che è la
pazienza del rimanere, della riconciliazione.
Oggi si parla di “Chiesa ministeriale” o “Chiesa cattolica
empirica” come polo opposto allo “Spirito”, ma Agostino non potrebbe
accettare queste idee e le respingerebbe come un fraintendimento della Chiesa, scusabile, forse
per i pagani, ma inaccettabile per dei credenti. La Chiesa, infatti, che amministra i
sacramenti e interpreta la parola di Dio nell’ascolto, non è mai solo
“Chiesa cattolica empirica”, è dimora dello Spirito, nei sacramenti, nella
parola e nell’amore, e lo Spirito si dimostra proprio nella comunione concreta di coloro
che si sostengono e sopportano a partire da Cristo. Per Agostino l’idea che lo
Spirito si mostra solo nella discontinuità, in pronunciamento di gruppi spontanei
autoformati, sarebbe del tutto inaccettabile e irreale. Chi cerca lo Spirito solo
all’esterno – direbbe Agostino – misconosce l’opera fondamentale del
Pneuma: l’amore che unisce nel permanere. Quella che compare qui è, peraltro,
un’alternativa di importanza decisiva: lo Spirito è presente solo nella
discontinuità o, piuttosto, nel dono già dato?
Nell'indeterminatezza, nell'apparente libertà di un essere in cui tutto è
possibile, ma nulla ha pienamente senso, era schiavo di un'immagine fallace di libertà:
bandito da se stesso e privato della sua libertà in una totale assenza di rapporti che
si fondava sulla lontananza da se stesso, sulla separazione dalla verità. Rispetto a
tutto ciò, il dono del Cristo vittorioso è il ritorno alla propria patria che, a
sua volta, rende possibile l'edificazione della casa; ma la casa si chiama "Chiesa". Qui,
dunque, entra chiaramente in gioco il motivo dello spirito come libertà, come
liberazione, ma - ed è questo il paradosso per il pensiero contemporaneo - la
libertà consiste nel diventare parte della casa, nell'essere coinvolti nella sua
costruzione. Questo modo di vedere non è però paradossale se si prendono le mosse
dall'antica idea di libertà: è libero chi appartiene alla casa; la
libertà è avere una patria. Agostino presuppone questa idea sociale di
libertà propria dell'antichità, ma, nel contempo, la supera in maniera decisiva a
partire dalla fede cristiana: la libertà sta in una indissolubile relazione con la
verità, che è la vera patria dell'uomo. L'uomo è quindi libero quando
è a casa, vale a dire, quando è nella verità.
Agostino, in una Chiesa lacerata dall'odio e dalle divisioni tra i gruppi, mette giustamente
in evidenza il carisma decisamente necessario, quello della partecipazione all'edificazione
dell'unità della Chiesa. E sta in tutto e per tutto dalla parte dell'Apostolo, quando
per lui lo Spirito si dimostra in maniera decisiva nel positivo: nel "sì" che fa
dell'uomo una "casa" e pone fine alla "prigionia". La "casa" è la libertà, non la
dispersione. L'efficacia dello Spirito è "la casa", la concessione della patria,
dell'unità. Poiché lo Spirito è l'amore.
(da Joseph Ratzinger, Lo Spirito Santo come comunione. Sul rapporto tra pneumatologia e
spiritualità in Sant’Agostino, in La Comunione nella Chiesa, San Paolo, Cinisello
Balsamo, 2004, pagg.33-58
Anticipo subito la mia tesi di fondo: il Vaticano II voleva chiaramente
affiancare e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, voleva proporre una
ecclesiologia nel senso propriamente teologico, ma la recezione del Concilio ha finora
trascurato questa caratteristica qualificante in favore di singole affermazioni
ecclesiologiche, si è gettata su singole parole di facile richiamo e così
è restata indietro rispetto alle grandi prospettive dei Padri conciliari. Qualcosa di
analogo si può per altro dire a proposito del primo testo, approvato dal Vaticano II,
la Costituzione sulla "Sacra Liturgia". Furono anzitutto motivi pratici a determinare la
sua antecedenza. Guardando a posteriori, tuttavia, bisogna osservare che nell'architettura del
concilio la collocazione della costituzione liturgica ha un significato positivo. All'inizio vi
è l'adorazione e quindi Dio. Questo inizio corrisponde alla parola della Regola
benedettina: Operi Dei nihil praeponatur. La Costituzione sulla Chiesa, che segue poi
come secondo testo del Concilio, la si dovrebbe considerare a essa interiormente collegata. La
Chiesa deriva dall'adorazione, dalla missione di glorificare Dio. L'ecclesiologia ha a che
fare per sua natura con la liturgia. E quindi è poi logico che la terza Costituzione
parli della parola di Dio, che convoca la Chiesa e la rinnova in ogni tempo. La quarta
Costituzione mostra come la glorificazione di Dio si propone nell'etica, come la luce ricevuta
da Dio viene portata nel mondo e solo così la glorificazione di Dio diviene
completa. Nella storia del dopo Concilio la Costituzione sulla liturgia non fu certamente
più compresa a partire da questo fondamentale primato dell'adorazione, ma piuttosto come
un libro di ricette su ciò che possiamo fare con la liturgia. Nel frattempo sembra che
ad alcuni esperti di liturgia, occupati in riflessioni sempre più precipitose sul modo
in cui si possa dare alla liturgia una forma sempre più attraente, comunicativa,
coinvolgendovi attivamente sempre più gente, sfugga che la liturgia in realtà
è "fatta" per Dio e non per noi stessi. Quanto più però noi la facciamo
per noi stessi, tanto meno attraente essa è, perché tutti avvertono chiaramente
che l'essenziale va sempre più perduto.
Nella prima fase della recezione del Concilio domina insieme con il tema della
collegialità il concetto di popolo di Dio, compreso interamente a partire dall'uso
linguistico generale della parola popolo. Inoltre, nell'ambito della teologia della
liberazione il termine venne inteso a partire dall'interpretazione marxista di popolo come
contrapposizione alle classi dominanti e più in generale ancora nel senso della
sovranità del popolo, che ora sarebbe finalmente da applicare anche alla Chiesa.
Ciò a sua volta diede occasione a ampi dibattiti sulle strutture, nei quali a seconda
della situazione fu interpretata la «democratizzazione» in modo più
occidentale ovvero più nel senso delle “democrazie popolari” orientali.
Come risultato di analisi esegetiche accurate l'esegeta di Bochum, Werner Berg... afferma:
«Malgrado l'esiguo numero di passi, che contengono l'espressione "popolo di Dio" - da
questo punto di vista "popolo di Dio" è un concetto piuttosto raro nella Bibbia -
può nondimeno rilevarsi qualcosa di comune: l'espressione "popolo di Dio" esprime la
"parentela" con Dio, la relazione con Dio, il legame fra Dio e quello che è designato
come "popolo di Dio", quindi una "direzione verticale". L'espressione si presta meno a
descrivere la struttura gerarchica di questa comunità, soprattutto se il "popolo di Dio"
viene descritto come "controparte" dei ministri... A partire dal suo significato biblico
l'espressione non si presta neppure a un grido di protesta contro i ministri: "Noi siamo il
popolo di Dio"». Il professore di teologia fondamentale di Paderborn, Josef Meyer zu
Schlochtern, conclude la discussione intorno al concetto di popolo di Dio con l'osservazione
che la Costituzione sulla Chiesa del Vaticano II termina il capitolo relativo in modo tale da
«designare la struttura trinitaria come fondamento dell'ultima determinazione della
Chiesa ...». Così la discussione è ricondotta al punto essenziale: la
Chiesa non esiste per se stessa, ma dovrebbe essere lo strumento di Dio, per radunare gli
uomini intorno a lui, per preparare il momento, in cui «Dio sarà tutto in
tutti» (1Cor15,28). Proprio il concetto di Dio era stato lasciato da parte nel "fuoco
d'artificio" intorno a questa espressione che in tal modo era stato privato del suo
significato. Infatti una Chiesa, che esiste solo per se stessa, è superflua. E la gente
lo nota subito. La crisi della Chiesa, quale si rispecchia nella crisi del concetto di
popolo di Dio, è "crisi di Dio"; essa risulta dall'abbandono dell'essenziale. Ciò
che resta è solo una lotta per il potere. Di questa ve ne è già troppa
altrove nel mondo, per questa non c'è bisogno della Chiesa.
Si può certamente dire che all'incirca a partire dal Sinodo straordinario del 1985, che
doveva tentare un primo bilancio a vent'anni dal postconcilio, un nuovo tentativo si va
diffondendo, quello di riassumere l'insieme dell'ecclesiologia conciliare in un concetto base,
l'ecclesiologia di comunione. Ho accolto con gioia questo ricentramento dell'ecclesiologia e ho
anche cercato secondo le mie capacità di prepararlo. Si deve comunque innanzitutto
riconoscere che la parola communio nel Concilio non ha una posizione centrale.
Nondimeno, compresa rettamente, essa può servire come sintesi per gli elementi
essenziali dell'ecclesiologia conciliare. Tutti gli elementi essenziali del concetto cristiano
di communio si trovano riuniti nel famoso passo di 1Gv1,3, che si può considerare
come il criterio di riferimento per ogni corretta comprensione cristiana della communio
«Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche
voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo
Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia
perfetta». Qui emerge in primo piano il punto di partenza della communio: il
incontro con il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che nell’annuncio della Chiesa viene
agli uomini.
La parola communio ha quindi, a partire da questo contesto biblico, un carattere
teologico, cristologico, storico salvifico ed ecclesiologico. Porta quindi in sé anche
la dimensione sacramentale, che in Paolo appare in modo del tutto esplicito: «Il calice
della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E
il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché
c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo...»
(1Cor 10,16s). L'ecclesiologia di comunione è fin dal suo intimo una ecclesiologia
eucaristica.
Ma gli anni successivi mostrarono che nessuna parola è protetta dai malintesi,
neppure la migliore e la più profonda. Nella misura in cui communio divenne un
facile slogan, essa fu appiattita e travisata. Come per il concetto di popolo di Dio
così si doveva rilevare anche qui una progressiva orizzontalizzazione, l'abbandono del
concetto di Dio. L'ecclesiologia di comunione cominciò a ridursi alla problematica
del rapporto fra Chiesa locale e Chiesa universale, che a sua volta ricadde sempre più
nel problema della divisione di competenze fra l'una e l'altra. Naturalmente si diffuse
nuovamente il motivo egualitaristico, secondo cui nella communio potrebbe esservi solo
piena uguaglianza. Si è così arrivati di nuovo alla discussione dei discepoli
su chi fosse il più grande, una discussione che evidentemente non si placa in
nessuna generazione.
Di fronte al restringimento del concetto di communio verificatosi in modo vistoso negli
anni dopo il 1985, la Congregazione per la Dottrina della Fede ritenne opportuno preparare una
Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come
comunione, che fu pubblicata con la data del 28 giugno 1992. Poiché ai nostri giorni
i teologi, attaccati alla propria fama, ritengono quasi un dovere dare una valutazione negativa
dei documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, si abbatté su questo testo
una grandinata di critiche, da cui ben poco riuscì a salvarsi. Soprattutto fu
criticata la frase, secondo la quale la Chiesa universale nel suo mistero essenziale è
una realtà che, ontologicamente e temporalmente precede le singole Chiese
particolari.
A partire dalla cristologia l'immagine si allarga e si approfondisce: la storia - di nuovo in
relazione con l'Antico Testamento - viene spiegata come storia d'amore fra Dio e l'uomo. Dio
trova e si prepara la sposa del Figlio, l'unica sposa, che è l'unica Chiesa. A partire
dalla parola della Genesi, che uomo e donna diverranno «due in una carne sola»
(Gn2,24), l'immagine della sposa si fuse con l'idea della Chiesa come corpo di Cristo, metafora
che a sua volta deriva dalla liturgia eucaristica. L'unico corpo di Cristo viene preparato;
Cristo e la Chiesa saranno «due in una sola carne», un unico corpo, e
così «Dio sarà tutto in tutti». Questa precedenza ontologica della
Chiesa universale, dell'unica Chiesa e dell'unico corpo, dell'unica sposa, rispetto alle
realizzazioni empiriche concrete nelle singole Chiese particolari mi sembra così
evidente che mi riesce difficile comprendere le obiezioni a essa. Mi sembrano in realtà
essere possibili solo se non si vuole e non si riesce più a vedere la grande Chiesa
ideata da Dio - forse per disperazione a motivo della sua insufficienza terrena -; essa appare
ora come una fantasticheria teologica, e rimane quindi solo l'immagine empirica delle Chiese
nella loro relazione reciproca e nella loro conflittualità. Questo però significa
che la Chiesa come tema teologico viene cancellata. Se si può vedere la Chiesa ormai
solo nelle organizzazioni umane, allora in realtà rimane soltanto desolazione. Ma allora
non si è abbandonato solamente l'ecclesiologia dei padri, ma anche quella del Nuovo
Testamento e la concezione di Israele dell'Antico Testamento.
Se la priorità ontologica dell'unica Chiesa non si può seriamente negare,
nondimeno la questione riguardante la precedenza temporale è senza dubbio già
più difficile. La lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede rimanda
qui all'immagine lucana della nascita della Chiesa a Pentecoste per opera dello Spirito
Santo. Non si vuol qui discutere la questione della storicità di questo racconto.
Ciò che conta è l'affermazione teologica, che sta a cuore a Luca. La
Congregazione per la Dottrina della Fede richiama l'attenzione sul fatto che la Chiesa ha
inizio nella comunità dei 120 radunata intorno a Maria, soprattutto nella rinnovata
comunità dei dodici, che non sono membri di una Chiesa locale, ma sono gli apostoli, che
porteranno il vangelo ai confini della terra. Per chiarire ulteriormente si può
aggiungere che essi nel loro numero di dodici sono allo stesso tempo l'antico e il nuovo
Israele, l'unico Israele di Dio, che ora - come fin dall'inizio era fondamentalmente inteso nel
concetto di popolo di Dio - si estende a tutte le nazioni e fonda in tutti i popoli l'unico
popolo di Dio. Questo riferimento viene rafforzato da due ulteriori elementi: la Chiesa
in quest'ora della sua nascita parla già in tutte le lingue. I padri della Chiesa
hanno giustamente interpretato questo racconto del miracolo delle lingue come un anticipo della
Catholica - la Chiesa fin dal primo istante è orientata kat'holon -,
abbraccia tutto l'universo. A ciò corrisponde il fatto che Luca descrive la schiera
degli ascoltatori come pellegrini provenienti da tutta quanta la terra, sulla base di una
tavola dei dodici popoli, il cui significato è quello di alludere
all'onnicomprensività dell'uditorio; Luca ha arricchito questa tavola ellenistica
dei popoli con un tredicesimo nome: i romani, con cui senza dubbio voleva sottolineare ancora
una volta l'idea dell' Orbis.
La realtà prima nel racconto di san Luca non è una comunità originaria
gerosolimitana, ma la realtà prima è che nei dodici l'antico Israele, che
è unico, diviene quello nuovo e che ora questo unico Israele di Dio per mezzo del
miracolo delle lingue, ancora prima di divenire la rappresentazione di una Chiesa locale
gerosolimitana, si mostra come una unità che abbraccia tutti i tempi e tutti i
luoghi. Nei pellegrini presenti, che provengono da tutti i popoli, essa coinvolge subito
anche tutti i popoli del mondo. Forse non è necessario sopravvalutare la questione della
precedenza temporale della Chiesa universale, che Luca nel suo racconto propone chiaramente.
Importante resta nondimeno che la Chiesa dei dodici viene generata dall'unico Spirito fin
dall'inizio per tutti i popoli e pertanto anche sin dal primo istante è orientata a
esprimersi in tutte le culture e proprio così a essere l'unico popolo di Dio: non una
comunità locale si allarga lentamente, ma il lievito è da sempre orientato
all'insieme e quindi porta in sé una universalità sin dal primo istante.
Subito la prima frase della Costituzione sulla Chiesa chiarisce che il Concilio non
considera la Chiesa come una realtà chiusa in se stessa, ma la vede a partire da Cristo:
«Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio, adunato nello Spirito
Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini
tutti gli uomini...». Sullo sfondo riconosciamo l'immagine presente nella teologia
dei padri, che vede nella Chiesa la luna, la quale non ha da se stessa luce propria, ma
rimanda la luce del sole Cristo. L'ecclesiologia si manifesta come dipendente dalla
cristologia, a essa legata. Poiché però nessuno può parlare correttamente
di Cristo, del Figlio, senza allo stesso tempo parlare del Padre e poiché non si
può parlare correttamente del Padre e del Figlio senza mettersi in ascolto dello Spirito
Santo, la visione cristologica della Chiesa si allarga necessariamente in una ecclesiologia
trinitaria.
Proprio perché la Chiesa è da comprendersi teologicamente, essa si
autotrascende sempre; essa è il raduno per il regno di Dio, irruzione in esso.
Vengono poi presentate brevemente le diverse immagini della Chiesa, che rappresentano tutte
l'unica Chiesa, sia che si parli della sposa, che della casa di Dio, della sua famiglia,
del tempio, della città santa, della nostra madre, della Gerusalemme di lassù o
del gregge di Dio, ecc.. Alla fine ciò si concretizza ulteriormente. Riceviamo una
risposta molto pratica alla domanda: che cos'è questo, quest'unica Chiesa universale che
precede ontologicamente e temporalmente le Chiese locali? Dov'è? Dove possiamo
vederla agire? La Costituzione risponde parlandoci dei sacramenti. Vi è innanzitutto il
battesimo: esso è un evento trinitario, cioè totalmente teologico, molto
più che una socializzazione legata alla Chiesa locale, come oggi è purtroppo
così spesso travisato. Il battesimo non deriva dalla singola comunità, ma in esso
si apre a noi la porta all'unica Chiesa, esso è la presenza dell'unica Chiesa, e
può scaturire solo da essa, dalla Gerusalemme di lassù, dalla nuova madre.
A partire di qui la lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla
communio può dire che nella Chiesa non vi sono stranieri: ognuno è
ovunque a casa sua e non solo ospite. E' sempre l'unica Chiesa, l'unica e la medesima. Chi
è battezzato a Berlino, è nella Chiesa a Roma o a New York o a Kinshasa o a
Bangalore o in qualunque altro posto, altrettanto a casa sua come nella Chiesa in cui è
stato battezzato. Non deve registrarsi di nuovo, è l'unica Chiesa. Il battesimo viene da
essa e genera a essa. Chi parla del battesimo parla, tratta di per se stesso anche della parola
di Dio, che per la Chiesa intera è solo una e continuamente la precede in tutti i
luoghi, la convoca e la edifica. Questa parola è sopra la Chiesa, e nondimeno
è in essa, affidata a essa come soggetto vivo. La parola di Dio ha bisogno, per essere
presente in modo efficace nella storia, di questo soggetto, ma questo soggetto da parte sua non
sussiste senza la forza vivificante della parola, che innanzitutto la rende soggetto. Quando
parliamo della parola di Dio, intendiamo anche il Credo, che sta al centro dell'evento
battesimale; esso è la modalità, con cui la Chiesa accoglie la parola e la fa
propria, in qualche modo parola e risposta allo stesso tempo. Anche qui è presente la
Chiesa universale, l'unica Chiesa in modo assai concreto e percepibile.
La tesi, il cui rappresentante era allora Boff potrebbe essere definita come
relativismo ecclesiologico. Essa trova la sua giustificazione nella teoria secondo cui il
"Gesù storico" di per sé non avrebbe pensato a una Chiesa, tanto meno quindi
l'avrebbe fondata. La Chiesa come realtà storica sarebbe sorta solo dopo la
risurrezione, nel processo di perdita di tensione escatologica, a motivo delle inevitabili
necessità sociologiche dell'istituzionalizzazione, e all'inizio non sarebbe neppure
esistita una Chiesa universale "cattolica", ma solo diverse Chiese locali con diverse teologie,
diversi ministeri, ecc. Nessuna Chiesa istituzionale potrebbe quindi affermare di essere
quell'unica Chiesa di Gesù Cristo voluta da Dio stesso; tutte le forme istituzionali
sono pertanto nate da necessità sociologiche e pertanto come tali sono tutte costruzioni
umane, che si possono o addirittura si devono di nuovo radicalmente mutare nelle mutate
circostanze. Nella loro qualità teologica si differenziano in modo molto secondario, e
pertanto si può dire che in tutte o in ogni caso almeno in molte sussiste l'«unica
Chiesa di Cristo». A riguardo di questa ipotesi sorge però spontanea la domanda:
con che diritto una tale concezione può parlare di una Chiesa di Cristo? La tradizione
cattolica invece ha scelto un altro punto di partenza: essa si fida degli evangelisti, crede a
loro. Allora risulta evidente che Gesù, il quale annunciò il regno di Dio, per la
sua realizzazione radunò attorno a sé dei discepoli; egli donò loro non
solo la sua parola come nuova interpretazione dell'Antico Testamento, ma nel sacramento
dell'ultima cena fece loro dono di un nuovo centro unificante, per mezzo del quale tutti coloro
che si confessano cristiani, in un modo totalmente nuovo divengono una cosa sola con lui, tanto
che Paolo poté designare questa comunione come l'essere un solo corpo con Cristo, come
l'unità di un solo corpo nello Spirito. Allora risulta evidente che la promessa dello
Spirito Santo non era un vago annuncio, ma intendeva la realtà di Pentecoste, il fatto
dunque che la Chiesa non fu pensata e fatta da uomini, ma fu creata per mezzo dello Spirito,
è e rimane creatura dello Spirito Santo. Allora però istituzione e Spirito
stanno nella Chiesa in una relazione ben diversa da quella che le menzionate correnti di
pensiero vorrebbero suggerirci. Dunque l'istituzione non è semplicemente una struttura
che si può mutare o demolire a piacere, che non avrebbe niente a che vedere con la
realtà della fede come tale. Questa forma di corporeità appartiene alla Chiesa
stessa. La Chiesa di Cristo non è nascosta in modo inafferrabile dietro le
molteplici configurazioni umane, ma esiste realmente, come Chiesa vera e propria, che si
manifesta nella professione di fede, nei sacramenti e nella successione apostolica.
Il Vaticano II con la formula del subsistit conformemente alla tradizione cattolica
- voleva quindi dire esattamente il contrario del « relativismo ecclesiologico»: la
Chiesa di Gesù Cristo esiste realmente. Egli stesso l'ha voluta, e lo Spirito Santo
pur di fronte a ogni fallimento umano la crea continuamente a partire dalla Pentecoste e la
sostiene nella sua identità essenziale. L'istituzione non è una inevitabile,
ma teologicamente irrilevante o addirittura dannosa esteriorità, ma appartiene nel suo
nucleo essenziale alla concretezza dell'incarnazione. Il Signore mantiene la sua parola:
«Le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa».
A questo punto diviene necessario indagare un po' più accuratamente circa la parola
subsistit. Il Concilio con questa espressione si differenzia dalla formula di Pio XII,
che nella sua enciclica Mystici Corporis Christi aveva detto: la Chiesa cattolica
«è» (est) l'unico corpo mistico di Cristo. Nella differenza fra
subsistit ed est si nasconde tutto quanto il problema ecumenico. La parola
subsistit deriva dall'antica filosofia ulteriormente sviluppatasi nella scolastica. A
essa corrisponde la parola greca hypostasis, che nella cristologia ha un ruolo centrale,
per descrivere l'unione di natura divina e umana nella persona di Cristo. Subsistere
è un caso speciale di esse. E l'essere nella forma di un soggetto a sé
stante. Qui si tratta proprio di questo. Il Concilio vuol dirci che la Chiesa di Gesù
Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa
cattolica. Ciò può avvenire solo una volta, e la concezione secondo cui il
subsistit sarebbe da moltiplicare non coglie proprio ciò che si intendeva dire.
Con la parola subsistit il Concilio voleva esprimere la singolarità e la non
moltiplicabilità della Chiesa cattolica: esiste la Chiesa come soggetto nella
realtà storica.
La differenza fra subsistit ed est rinchiude però il dramma della
divisione ecclesiale. Benché la Chiesa sia soltanto una e sussista in un unico
soggetto, vi è essere dall'essere della Chiesa, realtà ecclesiale anche al di
fuori dell'unica Chiesa. Poiché il peccato è una contraddizione, questa
differenza fra subsistit ed est non si può ultimamente risolvere dal punto
di vista logico.
Chi vuol comprendere l'orientamento dell'ecclesiologia conciliare, non può tralasciare
i capitoli 4-7 della Costituzione, nei quali si parla dei laici, della vocazione universale
alla santità, dei religiosi e dell'orientamento escatologico della Chiesa. In questi
capitoli torna ancora una volta in primo piano lo scopo intrinseco della Chiesa, ciò che
è più essenziale alla sua esistenza: si tratta cioè della santità,
della conformità a Dio, che nel mondo vi sia spazio per Dio, che egli possa abitare in
esso e così il mondo divenga il suo «regno». Santità è
qualcosa di più che una qualità morale. Essa è il dimorare di Dio con gli
uomini, degli uomini con Dio, la «tenda» di Dio fra di noi e in mezzo a noi
(Gv1,14). Si tratta della nuova nascita: non da carne e sangue, ma da Dio (Gv1,13).
L'orientamento alla santità è identico con l'orientamento escatologico della
Chiesa che ora a partire dal messaggio di Gesù è fondamentale per la Chiesa. La
Chiesa esiste, perché ci sia dimora di Dio nel mondo e ci sia "santità": per
questo si dovrebbe competere nella Chiesa, non per un più o un meno in diritti di
precedenza, per occupare i primi posti.
(da Joseph Ratzinger, L’ecclesiologia della Costituzione Lumen Gentium, in La
Comunione nella Chiesa, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, pagg.129-161)
Il punto di partenza (dei nuovi problemi sulla natura del sacerdozio)
è dato da un’osservazione di carattere lessicale: la futura Chiesa, per
denominare i ministeri che in essa si andavano formando, non si servì di un vocabolario
sacro, ma attinse a una terminologia profana. Essa non lascia scorgere alcun tipo di
continuità tra questi suoi ministeri e il sacerdozio della legge mosaica; inoltre, per
lungo tempo questi ministeri restano poco definiti, assai vari nelle designazioni e forme in
cui li incontriamo, e solo verso la fine del I secolo si cristallizza una forma ben definita,
che peraltro ammette ancora delle oscillazioni. Soprattutto non è dato individuare un
compito cultuale di questi ministeri: in nessun luogo essi vengono posti espressamente in
connessione con la celebrazione eucaristica; come loro contenuto appare in primo luogo
l’annuncio del vangelo, poi il servizio della carità tra i cristiani e funzioni
comunitarie a prevalente carattere pratico. Tutto ciò desta l’impressione che i
ministeri fossero considerati non come sacri ma semplicemente come funzionali, e quindi
amministrati esclusivamente a fini specifici. In epoca postconciliare venne del tutto
spontaneo ricollegare a queste osservazioni la teoria del cristianesimo come desacralizzazione
del mondo, che si rifaceva alla tesi di Barth e Bonhoeffer sull’opposizione tra fede e
religione e quindi sul carattere areligioso del cristianesimo. La lettera agli Ebrei sottolinea
con forza che Gesù soffrì fuori delle porte della città esortandoci ad
andare verso di lui (Eb13,12-13). Questa circostanza divenne un simbolo: la croce ha squarciato
il velo del tempio, il nuovo altare si erge in mezzo al mondo; il nuovo sacrificio non è
un fatto cultuale, bensì una morte totalmente profana. La croce appare così come
un’interpretazione nuova e rivoluzionaria di ciò che unicamente può ancora
considerarsi culto: solo l’amore quotidiano in mezzo alla profanità del mondo
è, secondo questa teoria, la liturgia rispondente a questa origine.
Queste argomentazioni, risultanti dalla fusione della moderna teologia protestante con
talune osservazioni esegetiche, a un esame più attento si rivelano come
l’esito delle scelte ermeneutiche fondamentali fatte nella Riforma del XVI secolo. Il
punto centrale di tali scelte era una lettura della Bibbia basata sulla contrapposizione
dialettica di legge e promessa, sacerdote e profeta, culto e promessa. Le categorie
reciprocamente correlate di legge-sacerdote-culto furono considerate come l’aspetto
negativo della storia della salvezza: la legge porterebbe l’uomo
all’autogiustificazione; il culto risulterebbe dall’errore che, ponendo
l’uomo in una sorta di rapporto di parità con Dio, gli consentirebbe di stabilire,
mediante la corresponsione di determinate offerte, un rapporto giuridico tra sé e Dio;
il sacerdozio è allora per così dire l’espressione istituzionale e lo
strumento stabile di questo scambievole rapporto con la Divinità. L’essenza del
vangelo, come apparirebbe in modo assai chiaro soprattutto nelle grandi lettere di san Paolo,
sarebbe perciò il superamento di questo apparato di distruttiva autogiustificazione
dell’uomo: il nuovo rapporto con Dio poggia totalmente su promessa e grazia; esso si
esprime nella figura del profeta, che di conseguenza viene costruita in stretta opposizione a
culto e sacerdozio. Il cattolicesimo appariva a Lutero come la sacrilega restaurazione di
culto, sacrificio, sacerdozio e legge e dunque come la negazione della grazia, come il distacco
dal vangelo, come un regresso da Cristo a Mosè.
Il paradosso della missione di Gesù trova probabilmente la sua espressione più
chiara nella formula giovannea interpretata in maniera così profonda da Agostino:
“Mea doctrina non est mea...” (7,16). Gesù non ha nulla di proprio per
sé, oltre al Padre. Nella sua dottrina è egli stesso in gioco, e perciò
dice che perfino ciò che ha di più proprio – il suo io – non gli
appartiene affatto. Il suo è il non-suo; non c’è nulla oltre il Padre,
tutto è interamente da lui e per lui.
Il parallelismo tra la forma di missione di Gesù e quella degli apostoli viene poi
sviluppato in modo particolarmente chiaro nel quarto vangelo: “Come il Padre ha mandato
me, così io mando voi” (13,20; 17,18; 21,21). La portata di questa affermazione
diviene evidente solo se richiamiamo alla mente quello che poc’anzi abbiamo detto sulla
struttura della missione di Gesù, vale a dire sul fatto che tutta la sua missione
è relazione. Di qui comprendiamo l’importanza del seguente parallelismo:
“Il Figlio da sé non può fare nulla” (Gv 5,19.30);
“Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
Questo “nulla” che i discepoli condividono con Gesù esprime in pari
tempo forza e debolezza del ministero apostolico. Da sé, con le sole forze della
ragione, della conoscenza e della volontà essi non possono fare nulla di ciò che
in quanto apostoli sono tenuti a fare. Come potrebbero dire: “Ti rimetto i tuoi
peccati”? Come potrebbero dire: “Questo è il mio corpo”? Come
potrebbero imporre le mani e dire: “Ricevi lo Spirito Santo”? Nulla di quanto
è costitutivo dell’azione apostolica è prodotto della capacità
personale. Ma proprio in questa totale assenza di proprietà è fondata la loro
comunione con Gesù, il quale, a sua volta, è interamente dal Padre, solo per lui
e in lui, e non sussisterebbe affatto, se non fosse un permanente derivare e riconsegnarsi al
Padre. Il “nulla” per quanto attiene al proprio li coinvolge nella comunione di
missione con Cristo. Questo servizio nel quale noi siamo interamente dati all’altro,
questo dare ciò che non proviene da noi, nel linguaggio della Chiesa si chiama
sacramento. Quando definiamo l’ordinazione sacerdotale un sacramento intendiamo
precisamente questo: qui non vengono ostentate le proprie forze e capacità; qui non
viene insediato un funzionario particolarmente abile, che trova l’impiego di suo gusto o
semplicemente perché ci può guadagnare il pane; non si tratta di un lavoro con il
quale, grazie alle proprie competenze, ci si assicura il sostentamento, per poi progredire
nella carriera. Sacramento vuol dire: io do ciò che io stesso non posso dare; faccio
qualcosa che non dipende da me; sono in una missione e sono divenuto portatore di ciò
che l’altro mi ha trasmesso. Perciò nessuno può dichiararsi prete da
sé; così come nessuna comunità può chiamare qualcuno di sua
propria iniziativa a questo compito. Solo dal sacramento si può ricevere ciò che
è di Dio, entrando nella missione che mi fa messaggero e strumento dell’altro.
Questo legame al Signore, per cui a un uomo è dato di fare ciò che non lui
stesso, ma solo il Signore può fare, equivale alla struttura sacramentale. In questo
senso la qualificazione sacramentale del nuovo stile di missione derivante da Cristo risale
fino al nucleo centrale del messaggio biblico, vi appartiene. Al tempo stesso è
divenuto evidente che qui si tratta di un ufficio totalmente nuovo, che non può
essere derivato dall’Antico Testamento, ma è spiegabile unicamente sul piano
cristologico. Il ministero sacramentale della Chiesa non fa che esprimere la novità
di Gesù Cristo e mantenerla attuale nel corso della storia.
Il ministero dei presbiteri e dei vescovi è, secondo la sua natura spirituale,
identico a quello degli apostoli. Questa identificazione, con la quale viene formulato il
principio della successione apostolica, Luca l’ha precisata ulteriormente con
un’altra scelta terminologica: limitando la nozione di apostolo ai Dodici, egli
distingue l’unicità dell’origine dalla continuità della successione.
In questo senso, il ministero dei presbiteri e dei vescovi è qualcosa di diverso
dall’apostolato dei Dodici. I presbiteri-vescovi sono successori ma non apostoli essi
stessi. Alla struttura della Rivelazione e della Chiesa appartiene così il
“semel” e il “semper”. La potestà, fondata cristologicamente, di
conciliare, di pascere, di insegnare prosegue immutata nei successori, ma questi sono
successori in senso corretto solo quando “sono assidui nell’ascoltare
l’insegnamento degli apostoli” (At 2,42).
Dice Jean Colson: “La funzione dei “Kohanim”
(ιερεις) è essenzialmente quella di mantenere il
popolo consapevole del suo carattere sacerdotale e far sì che esso viva come tale per
glorificare Dio con tutta la sua esistenza”. Non si può non riconoscere la
somiglianza con la formulazione paolina... a proposito del compito dell’apostolo come
ministro di Gesù Cristo; solo che ora, a seguito della rottura dei confini
d’Israele compiuta sulla croce di Cristo, il carattere missionario e dinamico di questa
missione emerge molto più chiaramente: lo scopo ultimo di tutta la liturgia
neotestamentaria e di tutti i ministeri sacerdotali è di fare del mondo il tempio e
l’oblazione per Dio, vale a dire di far sì che il mondo intero entri a far parte
del corpo di Cristo affinché Dio sia tutto in tutti (cfr. 1Cor15,28).
(da Joseph Ratzinger, Natura del sacerdozio, in La Chiesa. Una comunità sempre in
cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991, pagg.75-93)
Possiamo dire: la Chiesa è divenuta tale, quando il Signore dopo aver
dato il suo corpo e il suo sangue sotto le specie del pane e del vino disse: «Fate questo
in memoria di me». Il che significa: la Chiesa è una risposta a questo compito;
all'autorità e alla responsabilità che esso comporta. Chiesa è
eucaristia. Questo implica che essa proviene da morte e risurrezione, perché la frase
sulla donazione del corpo sarebbe rimasta una parola vuota, qualora non fosse stata
un'anticipazione del sacrificio reale sulla croce; così come la sua memoria nella
celebrazione sacramentale sarebbe culto dei morti, farebbe parte del nostro lutto per
l'onnipotenza della morte, se la risurrezione non avesse trasformato questo corpo in
«spirito datore di vita» (1Cor15,45). Ma da tutto il tracciato del Nuovo
Testamento sentiamo provenire una seconda risposta, che si è concretizzata nel nome:
ecclesia. Chiesa vuol dire riunione e purificazione per Dio di tutti gli uomini di
tutta la terra. L'unione delle due risposte definisce la natura della Chiesa e ne determina la
prassi; le due risposte si possono poi compendiare nell'unica affermazione che Chiesa vuol dire
processo dinamico di unificazione orizzontale e verticale. È unificazione verticale
dell'uomo con l'amore trinitario di Dio e quindi anche integrazione dell'uomo in se stesso e
con se stesso. Ma poiché porta l'uomo là dove tende tutta la gravitazione della
sua natura, essa diviene di per sé anche unificazione orizzontale: solo a partire dalla
forza propulsiva dell'unione verticale può avvenire l'unificazione orizzontale, vale a
dire il ricomporsi di un genere umano lacerato. I Padri hanno compendiato questi due aspetti
- eucaristia e riunione - nella parola «communio», oggi tornata nuovamente in
onore: Chiesa è comunione; essa è comunione della parola e del corpo di Cristo e
quindi comunione reciproca tra gli uomini, i quali, in virtù di questa comunione che
dall'alto e da dentro li porta ad unirsi, divengono un solo popolo, anzi un solo corpo.
Ciò implica in primo luogo l'aspetto locale: la celebrazione eucaristica avviene in un
luogo concreto con le persone che vi vivono. Qui incomincia la fase della riunione. Ciò
significa che per Chiesa non s'intende un club di amici o un'associazione per il tempo libero
in cui si ritrovano delle persone con eguali tendenze e con interessi affini. La chiamata di
Dio va a tutti coloro che sono in quel luogo; la Chiesa è pubblica per sua natura. Fin
dall'inizio essa ha rifiutato di essere collocata sul piano delle assemblee cultuali private o
di qualsivoglia raggruppamento di diritto privato. Se avesse accettato, avrebbe goduto della
piena protezione del diritto romano, che alle organizzazioni di diritto privato riservava un
largo spazio. Volle invece essere pubblica proprio come lo Stato perché essa è
veramente il nuovo popolo al quale tutti sono chiamati. Perciò tutti quelli che
divengono credenti in un luogo appartengono ugualmente tutti alla stessa eucaristia; ricchi e
poveri, colti e incolti, greci, ebrei, barbari, uomini e donne; dove Dio chiama, queste
differenze non contano più (Gal3,28). Di qui possiamo allora comprendere perché
Ignazio di Antiochia abbia insistito tanto sulla unicità dell’ufficio episcopale
in una città e perché abbia così fermamente legato
l’appartenenza ecclesiale alla comunione col vescovo. Egli difende la natura pubblica
e l’unità della fede contro ogni carattere di gruppo, contro la divisione in razze
e in classi. Il vangelo di Gesù Cristo esclude fin dal principio razzismo e lotta di
classe. C’è un solo vescovo in una sola città perché la Chiesa
è una sola per tutti, e perché Dio è uno solo per tutti.
Non si può godere del sangue “sparso per i molti” restringendosi in
“pochi”. In questo senso l’ “episcopato monarchico” insegnato
da Ignazio d’Antiochia rimane una forma essenziale e irrevocabile della Chiesa, in quanto
costituisce un’esatta interpretazione di una realtà centrale:
l’eucarestia è pubblica, è eucarestia di tutta la Chiesa,
dell’unico Cristo. Nessuno ha il diritto di scegliersi una “propria”
eucarestia.
La natura eucaristica della Chiesa ci ha dapprima rinviati all’assemblea locale; al
tempo stesso abbiamo riconosciuto che il ministero episcopale appartiene essenzialmente
all’eucaristia, in quanto servizio all’unità che deriva necessariamente dal
carattere di sacrificio e di riconciliazione dell’eucaristia. Una Chiesa eucaristica
è una Chiesa costituita sul vescovo.
Teologi ortodossi hanno contrapposto l’ecclesiologia eucaristica dell’Oriente,
quale espressione autentica della Chiesa, all’ecclesiologia centralistica della Chiesa
romana... E’ tuttavia certo che questa moderna ecclesiologia eucaristica ortodossa non
viene concepita in modo puramente “locale” nel senso della Chiesa particolare,
poiché in realtà il punto basilare della struttura è il vescovo e non il
luogo in quanto tale. Se si riflette su questo fatto, diviene evidente che anche per la
tradizione ortodossa non basta il semplice atto liturgico nel luogo corrispettivo a costituire
la Chiesa, ma è necessario un principio di integrazione.
Se gli ortodossi partono dal vescovo e dalla comunità eucaristica da lui guidata, il
punto di avvio della posizione riformata resta la Parola: la Parola di Dio riunisce gli uomini
e crea la «comunità». L'annuncio del vangelo, essi dicono, genera
l'assemblea, e quest'assemblea è «Chiesa». In altre parole: la Chiesa
come istituzione non ha in questa prospettiva alcun rilievo propriamente teologico;
teologicamente significativa è soltanto la comunità, perché ciò che
importa è solo la Parola. Questa idea della comunità viene oggi volentieri
ricollegata al logion di Gesù nel vangelo di Matteo: «Dove sono due o
tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (18,20). Si potrebbe quasi dire che
questa parola per molti ha oggi sostituito, come parola fondativa della Chiesa e come
definizione della sua natura, il logion della pietra, del potere delle chiavi. L'idea
allora è: il riunirsi in nome di Gesù genera di per se stesso la Chiesa; è
l'atto indipendente da tutte le istituzioni nel quale la Chiesa nasce sempre di nuovo. La
Chiesa non viene concepita come episcopale ma come congregazionista. Ora non occorre
più riferirsi all'esclusività della Parola, bensì da questo principio si
trae la conclusione: l'assemblea, che in tal modo è divenuta comunità, ha in
sé tutti i poteri della Chiesa, dunque anche quello della celebrazione eucaristica. La
Chiesa, come si usa dire, diviene «dal basso»; è essa che forma se stessa.
Ma con questo approccio si perdono inevitabilmente la sua natura pubblica e il suo esteso
carattere di riconciliazione quale si presenta nel principio episcopale e che deriva dalla
natura dell'eucaristia. La Chiesa diviene gruppo, tenuta insieme dal suo consenso interno,
mentre la sua dimensione cattolica si sgretola.
In altre parole: nell’eucaristia non posso in alcun modo voler comunicare
esclusivamente con Gesù. Egli si è dato un corpo. Chi comunica con lui comunica
necessariamente con tutti i suoi fratelli e sorelle che sono divenuti membra dell’unico
corpo. Tale è la portata del mistero di Cristo, che la communio include anche
la dimensione della cattolicità. O è cattolica, o non è affatto.
Nel tempo apostolico è soprattutto la figura stessa dell’apostolo che si pone
al di fuori del principio locale. L’apostolo non è vescovo di una comunità,
ma missionario per l’intera Chiesa. La figura dell’apostolo è la più
forte confutazione di ogni concezione di Chiesa puramente locale. Nella sua persona si
esprime la Chiesa universale; è questa che lui rappresenta, e nessuna Chiesa locale
può pretendere di averlo per sé sola. Paolo ha svolto questa sua funzione di
unità mediante le sue lettere e mediante una rete di inviati. Queste lettere sono
l'attuazione pratica del servizio cattolico dell'unità, che si spiega solo in base
all'autorità dell'apostolo che si estende alla Chiesa universale. Se inoltre
osserviamo le liste di saluti delle lettere, possiamo anche verificare com'era mobile la
società antica; gli amici di Paolo li incontriamo ora qua, ora là. Essere
cristiani per loro voleva dire appartenere all'unica assemblea di Dio in formazione, che essi
ritrovavano unica e identica in tutti i luoghi. Quando studio le ipotesi secondo le quali
Giacomo, o un collegio, o la comunità in generale avrebbero raccolto la successione di
Pietro, torno sempre di nuovo a meravigliarmi che ancora non sia venuta a nessuno l'idea di
attribuire tale successione a Paolo, nonostante che egli affermi nella lettera ai Galati:
«A me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i
circoncisi» (2,7). A parte il fatto che qui viene chiaramente esclusa l'idea, derivata
dalla stessa lettera ai Galati, della sostituzione di Pietro da parte di Giacomo o da parte di
un collegio, si potrebbe concludere che Paolo abbia ricevuto il primato sui pagani in maniera
indivisa. Ma in effetti si tratta di una ripartizione dei settori di missione, che fu superata
proprio nella misura in cui si impose il pensiero fondamentale di Paolo, che aboliva ogni
distinzione tra giudeo-cristiani e pagano-cristiani. Come risulta dall'insieme del Nuovo
Testamento, Pietro è rimasto la cerniera tra cristiani ebrei e pagani, e questa missione
per tutta la Chiesa fu la concretizzazione del mandato particolare conferitogli dal
Signore.
Nella prima fase i vescovi, in quanto responsabili di Chiese locali, si collocano
chiaramente al di sotto dell’autorità cattolica degli apostoli. Se, invece, nel
difficile processo di formazione della Chiesa postapostolica, venne infine loro riconosciuta
anche la posizione degli apostoli, ciò significa che essi assumono ora una
responsabilità che oltrepassa l’ambito locale. In altri termini: la fiamma
della cattolicità e della missionarietà non può spegnersi neppure nella
nuova situazione. La Chiesa non può divenire una statica giustapposizione di Chiese
locali per principio autosufficienti; essa deve restare “apostolica”, o, per
esprimerci diversamente: il dinamismo dell’unità deve improntare la sua stessa
struttura. Con la connotazione di “successori degli apostoli”, il vescovo
è fatto uscire dall’ambito puramente locale e costituito responsabile del fatto
che le due dimensioni della communio – quella verticale e quella orizzontale –
rimangano indivise.
Qui vediamo dunque che il vescovo, molto concretamente, fa da anello di congiunzione della
cattolicità. Egli tiene il collegamento con altri e incarna così l’elemento
apostolico e con esso quello cattolico nella Chiesa. Il che trova espressione già nella
sua consacrazione: nessuna comunità può darsi il proprio vescovo semplicemente da
sé. Un così radicale legame nella sfera locale non è compatibile con
il principio apostolico, cioè universale. In ciò si manifesta in pari tempo,
più in profondità, anche il fatto che la fede non è una nostra
personale conquista, ma che noi la riceviamo sempre dal di fuori. Essa presuppone sempre un
superamento dei confini; un andare agli altri e un venire dagli altri, il che rimanda poi
all’origine dall’Altro, dal Signore stesso. Il vescovo viene consacrato da un
gruppo di almeno tre vescovi di comunità vicine, e nell’occasione viene anche
verificata l’identità del Credo.
Partendo da una moderna, unilaterale interpretazione della tradizione orientale, si ritiene
di poter dire che al di sopra dei singoli vescovi locali non esiste alcuna altra realtà
costituita nella Chiesa. L'unico organo possibile dell'intera Chiesa sarebbe il concilio
universale; la Chiesa dei molti vescovi formerebbe per così dire il concilio permanente,
tanto che alcuni hanno addirittura proposto di vedere nel concilio il modello strutturale della
Chiesa.
Vorrei tentare di chiarire questo punto esponendo una vicenda esemplare, ossia la
controversia circa Paolo di Samosata, vescovo di Antiochia, che nel 268 fu condannato per
eresia da un'assemblea di vescovi deposto dal suo ufficio ed escluso dalla comunione
ecclesiale. La vicenda destò particolare scalpore in quanto Antiochia era il luogo
dove si era formato il cristianesimo fra gentili e dove era nato il nome di cristiani. La
tradizione conosceva Antiochia come luogo dell'attività missionaria di Pietro prima che
egli si spostasse a Roma. In quanto tale, Antiochia era un punto centrale di riferimento della
communio. In altre parole: la rete mondiale della communio ha - come già
abbiamo detto - alcuni eminenti punti di orientamento sui quali si regolano le Chiese locali
circostanti. Sono le sedi apostoliche. Per questo la crisi di una di codeste sedi principali
è particolarmente importante: che cosa succede se proprio il punto di riferimento
vacilla? Qui è oltremodo evidente che il mero «aiuto dei vicini» non basta
più. Perché qui è in gioco il tutto. Perciò il sinodo dei vescovi
vicini può bensì decidere la deposizione e scegliere il successore, ma non
può conferire efficacia giuridica definitiva a queste deliberazioni. Deve entrare in
funzione la cattolicità. Di conseguenza, i partecipanti al sinodo vescovile
antiocheno scrissero ai vescovi di Roma e di Alessandria e per il loro tramite agli altri
vescovi della Chiesa cattolica. «Fummo dunque costretti... a designare un altro al suo
posto come vescovo della Chiesa cattolica... Donino che ha tutte le qualità che si
addicono a un vescovo. Vi abbiamo notificato questo affinché voi gli scriviate e da lui
accettiate le lettere di comunione». Il che significa: Donino non può essere
legittimato unicamente dal sinodo. La sua nomina diviene effettiva solo a condizione che i
vescovi di Roma e di Alessandria siano informati della sua scelta, gli scrivano e ricevano da
lui i κоινωνικα
γράμματα. La vicenda del resto non finisce qui. Paolo di
Samosata rifiutò di restituire gli edifici destinati al culto. A questo punto i
vescovi si rivolsero all'autorità (pagana!) dell'imperatore Aureliano, il quale
sentenziò che tali edifici «fossero consegnati a colui, che i vescovi d'Italia e
di Roma avessero riconosciuto come legittimo». Lo studioso belga B. Botte ne deduce
giustamente: «Per l'imperatore pagano non c'erano, dunque, solo Chiese locali, ma anche
una Chiesa cattolica la cui unità era garantita dalla comunione dei vescovi».
L’importante è stabilire che l’ordine dell’unità non è
in alcun modo un ordine di diritto semplicemente umano ma definisce centralmente la natura
della Chiesa, e che perciò la sua espressione giuridica nell’ufficio del
successore di Pietro e nel reciproco riferimento tra i vescovi, come nel riferimento di questi
al papa, appartiene al nucleo centrale del suo divino ordinamento, sì che la
perdita di questo elemento la ferisce nella specificità del suo essere Chiesa.
L’apostolicità e la cattolicità servono all’unità, e senza
unità non c’è neppure santità, poiché senza amore non
c’è santità; la santità si compie infatti essenzialmente
nell’integrazione del singolo e dei singoli nell’amore di conciliazione
dell’unico corpo di Gesù Cristo. La santità non opera il
perfezionamento del proprio io, ma la sua purificazione attraverso la fusione nell’amore
onnicomprensivo di Cristo: questo amore è la santità stessa del Dio unitrino.
Se il vescovo va definito essenzialmente come successore degli apostoli, allora la sua
missione è fondamentalmente delineata da ciò che la Scrittura dice essere la
volontà di Gesù nei riguardi degli apostoli; egli li
«costituì» perché «stessero con lui», «per
mandarli» e «perché avessero autorità...» (Mc3,14s). La
premessa fondamentale del ministero episcopale è l’intima comunione con
Gesù, è lo stare con lui. Il vescovo deve essere il testimone della risurrezione,
deve cioè rimanere in contatto con Cristo risorto. Senza questo intimo «essere
con» Cristo, senza questa intima contemporaneità con lui, egli diviene un semplice
funzionario ecclesiastico, ma non è testimone, non è un successore degli
apostoli. L'essere con Cristo esige interiorità, ma in pari tempo genera la
partecipazione alla dinamica della missione.
Ne risulta un secondo punto: il vescovo è successore degli apostoli. Soltanto il
vescovo di Roma è il successore di un determinato apostolo - ossia di san Pietro - ed
è quindi investito della responsabilità di tutta la Chiesa. Tutti gli altri
vescovi sono successori degli apostoli, non un apostolo determinato: essi stanno nel
collegio che succede al collegio degli apostoli, cosicché ciascuno di loro è
successore degli apostoli. Ma ciò significa che il fatto di essere successore si
ricollega all'«essere con» nel «noi» di coloro che succedono. L'aspetto
«collegiale» appartiene essenzialmente all'ufficio di vescovo, è una
conseguenza necessaria delle sue due dimensioni, quella cattolica e quella apostolica.
Nella Chiesa antica (questo “essere con” dei vescovi) aveva sostanzialmente due
forme fondamentali, che, nonostante tutti i mutamenti, indicano anche oggi l'essenziale.
C'è in primo luogo il particolare collegamento tra i vescovi vicini, i vescovi di una
regione, che in un contesto politico e culturale comune perseguono un comune cammino nel
loro ministero episcopale.
La seconda figura, in cui il “noi” dei vescovi prendeva forma nella dimensione
dell’agire, stava nel rapporto con i “primati”, con le sedi vescovili di
riferimento e con i loro vescovi, e in modo particolare nel prendere norma da Roma,
nell’essere in consonanza con la testimonianza di fede del successore di Pietro.
Ma quando parliamo del “noi “ dei vescovi, dobbiamo aggiungere un ulteriore
livello di considerazione: questo “noi” non va inteso solo in senso sincronico,
ma anche in senso diacronico. Il che significa che nella Chiesa nessuna generazione è
isolata. Nel corpo di Cristo il limite della morte non conta più; in lui passato,
presente e futuro si compenetrano. Il vescovo non rappresenta mai solo se stesso, né
ciò che predica è il suo proprio pensiero; il vescovo è un inviato, e in
quanto tale un ambasciatore di Gesù Cristo. L’indicatore della strada che
introduce nel messaggio è per lui il “noi” della Chiesa, e precisamente
il “noi” della Chiesa di tutti i tempi. Se da qualche parte venisse a formarsi
una maggioranza contro la fede della Chiesa di altri tempi, non sarebbe affatto maggioranza:
nella Chiesa la vera maggioranza è diacronica, abbraccia tutte le epoche, e solo se si
ascolta questa totale maggioranza si rimane nel “noi” apostolico.
Diamo ora un breve sguardo a due ulteriori elementi. Il vescovo rappresenta nei riguardi
della Chiesa locale la Chiesa universale, e nei riguardi della Chiesa universale la Chiesa
locale. Sicché egli serve l’unità.
Perciò il successore di san Pietro deve esercitare il suo ministero in modo che non
soffochi i doni delle singole Chiese particolari, non le costringa entro una falsa
uniformità, ma lasci che divengano efficaci nel vivificante scambio del tutto.
Non possiamo infine dimenticare che l’apostolo è sempre inviato “fino ai
confini della terra”. E ciò significa che il compito del vescovo non può
mai esaurirsi nell’ambito intraecclesiale. Il vangelo concerne sempre tutti, e sempre
perciò incombe al successore degli apostoli la responsabilità di portarlo nel
mondo. Ciò va inteso in un duplice senso: la fede deve essere sempre di nuovo annunciata
a quelli che ancora non hanno potuto riconoscere nel Cristo il salvatore del mondo; ma oltre a
questo esiste anche una responsabilità per le cose pubbliche di questo mondo.
(da Joseph Ratzinger, Chiesa universale e Chiesa locale. Il compito del vescovo, in La
Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991,
pagg.55-74)
Dobbiamo distinguere più da vicino due problemi fondamentali. Il
primo si può così delineare: c’è stato davvero un primato di
Pietro? Ora, siccome ciò può essere difficilmente negato di fronte alle
testimonianze del Nuovo Testamento, dobbiamo precisare meglio la domanda. Che cosa
significa propriamente quel posto privilegiato di Pietro, che il Nuovo Testamento ci
documenta in molteplici maniere? Più difficile e in qualche modo più decisiva
è la seconda questione, che ci dobbiamo porre: si può davvero giustificare una
successione di Pietro sulla base del Nuovo Testamento? Questo la esige o piuttosto la
esclude? E, anche ammessa una successione, Roma ha i titoli per avanzare una pretesa
giustificata di esserne la sede?
Ciò che subito colpisce è che tutte le grandi raccolte di testi del Nuovo
Testamento conoscono il tema Pietro, che si manifesta così come un tema di
significato universale, che non può venire in alcun modo limitato a una determinata
tradizione, circoscritta in senso locale o personale. Nell’epistolario paolino ci
imbattiamo prima di tutto in un’importante testimonianza, costituita dall’antica
formula di fede, che Paolo tramanda in 1Cor15,3-7. Cefa - nome col quale egli designa
l'apostolo di Betsàida servendosi del termine aramaico che significa roccia - viene
presentato quale primo testimone della risurrezione di Gesù Cristo.
È pur vero che la polemica lettera ai Galati ci mostra Paolo in conflitto con
Pietro, in difesa dell'autonomia della sua vocazione apostolica. Ma proprio tale contesto
polemico conferisce alla testimonianza dell'epistola su Pietro un significato tanto più
rilevante. Paolo sale a Gerusalemme «per conoscere Pietro» («videre
Petrum»), come ha tradotto la Vulgata (Gal 1,18). «Degli apostoli non vidi
nessun altro», aggiunge, «se non Giacomo, il fratello del Signore». Tuttavia
lo scopo della visita a Gerusalemme è precisamente l'incontro con Pietro. Quattordici
anni dopo Paolo, in seguito a una rivelazione, si reca ancora una volta nella Città
Santa, dove ora fa visita alle tre colonne, Giacomo, Cefa, Giovanni, questa volta con un
obiettivo ben chiaro e circoscritto.
Con ogni verosimiglianza Giacomo esercitò una sorta di primato sul
giudeo-cristianesimo, che aveva il suo centro in Gerusalemme. Ma questo primato non ebbe mai
importanza per la Chiesa universale ed è scomparso dalla storia col tramonto del
giudeo-cristianesimo. La posizione speciale di Giovanni era di tutt'altra natura, come si
può ben vedere dal quarto vangelo. Si può così accettare tranquillamente,
per questa fase di formazione della Chiesa che viene descritta nella lettera ai Galati, una
sorta di triplice primato, in cui tuttavia la preminenza di ognuno dei tre ha ragioni
differenti ed è di natura diversa. Resta perciò immutata, comunque si voglia
definire il rapporto reciproco nel gruppo delle colonne, la singolare preminenza di Pietro che
risale al Signore stesso, rispetto alla comune «funzione delle colonne», e
rimane confermato quindi che ogni predicazione del vangelo deve misurarsi sulla predicazione di
Pietro. Inoltre, la lettera ai Galati è una testimonianza del fatto che tale
preminenza sussiste anche quando il primo degli apostoli nel suo comportamento personale rimane
al di sotto del suo compito ministeriale (Gal2,11-14).
Se dopo questa breve panoramica sulla testimonianza paolina ci rivolgiamo ora alla
letteratura giovannea, troviamo lungo tutto il vangelo una forte presenza del tema di Pietro,
cui fa da contrappunto la figura del discepolo prediletto. Il vertice è raggiunto
nella grande pericope della missione di Gv21,15-19. Perfino R.Bultmann ha affermato
chiaramente che in questo testo a Pietro è affidata la guida suprema della
Chiesa»; egli vi scorge anzi la redazione originaria della stessa tradizione che ritorna
in Mt 16 e considera questo passaggio come un antico brano di tradizione pregiovannea.
Tuttavia la sua tesi secondo cui l'evangelista sarebbe interessato all'autorità di
Pietro solo per poterla rivendicare in favore del discepolo prediletto, dopo che essa era
rimasta per così dire vacante in seguito alla morte di Pietro, è una proposta che
non trova sostegno né nel testo né nella storia della Chiesa.
Troviamo infine in ognuno dei vangeli sinottici tradizioni autonome sul medesimo tema,
di modo che risulta ancora una volta evidente come esso faccia parte della configurazione
costitutiva della predicazione e sia presente in tutti gli ambiti della Tradizione, in quello
giudeo-cristiano, in quello antiocheno, nella sfera della missione di Paolo e in Roma. Per
brevità dobbiamo qui rinunciare a analizzare tutti i testi, così come dobbiamo
rinunciare a uno sguardo sulla versione lucana del mandato primaziale: «Conferma i tuoi
fratelli» (22,32) che, collegando la missione petrina con l'evento dell'ultima cena, pone
un'importante accentuazione ecclesiologica. Al contrario vorrei piuttosto mostrare in una forma
più generale la posizione speciale che nei tre vangeli sinottici viene assegnata a
Pietro, anche indipendentemente da Mt 16.
A questo proposito va anzitutto constatata in linea generale la posizione speciale di
Pietro nel gruppo dei Dodici. Insieme con i due figli di Zebedeo egli forma, all'interno
dei Dodici, un gruppo di tre; cui viene riconosciuto particolare rilievo. Solo loro vengono
ammessi a due eventi di particolare importanza: la trasfigurazione e l'agonia al monte degli
Ulivi (Mc9,2ss; 14,33ss); così come solo questi tre diventano testimoni della
risurrezione della figlioletta di Giairo (Mt5,37). Ma d'altra parte, all'interno di questi tre,
spicca Pietro: è lui che fa da portavoce nella scena della trasfigurazione; e a lui si
rivolge il Signore nell'ora dolorosa del monte degli Ulivi. In Lc5,1-11 la vocazione di Pietro
appare come la forma originaria della vocazione apostolica, ed è ancora Pietro che tenta
di imitare il Signore quando cammina sulle acque (Mt14,28ss); è lui, infine, a chiedere,
dopo la concessione del potere di legare e di sciogliere ai discepoli, quante volte si debba
perdonare (Mt18,21). Tutto questo viene sottolineato dalla posizione di Pietro nelle liste dei
discepoli. Ce ne sono state tramandate quattro versioni (Mt10,2-4; Mc13,16-19; Lc6,14-16;
At1,13), che presentano diverse varianti nei particolari, ma che comunque pongono tutte
concordemente il nome di Pietro al vertice. Nel vangelo di Matteo egli viene addirittura
introdotto col termine significativo «il primo»; per la prima volta risuona quella
radice, che successivamente nel discorso sul «primato» divenne il concetto per
esprimere la specifica missione del pescatore di Betsàida. È quanto viene
affermato anche in Mc1,36 e Lc9,32, quando i discepoli vengono presentati con la formula
« Pietro e quelli con lui ».
Passiamo ora a una seconda, importante circostanza: quella relativa al nuovo nome che
Gesù ha dato all'apostolo. Come ha rilevato l'esegeta protestante Schulze-Kadelbach,
appartiene a «quanto di più certo noi conosciamo di quest'uomo» il fatto
che egli sia stato chiamato col titolo di «roccia-pietra» e che questo non era
il suo nome originario, ma il nuovo appellativo, datogli da Gesù. Paolo fa ancor uso,
come abbiamo visto, della forma aramaica, proveniente dalle labbra di Gesù, e chiama
l’apostolo “Cefa”. Il fatto poi che si sia tradotto il termine e che esso
sia entrato nella storia col titolo greco di Pietro, conferma inequivocabilmente che non si
trattava in nessun modo di un nome proprio di persona. I nomi propri non vengono mai
tradotti.
Una tale unità della tradizione si può spiegare solo con un’origine in
Gesù stesso. Ma non abbiamo bisogno di seguire più a lungo queste discussioni
anche a motivo di una riflessione teologica, e cioè che per colui che legge la Bibbia
come parola di Dio nella fede della Chiesa, la validità di una parola non dipende da
ipotesi storiche circa la forma e l’origine più antica.
Non a partire “dalla carne e dal sangue”, ma per rivelazione del Padre egli
aveva espresso il riconoscimento di Cristo in nome dei Dodici. Quando poi Gesù
spiega la forma e la via del Cristo in questo mondo, profetizzando la morte e la risurrezione,
allora rispondono la carne e il sangue: Pietro “rimproverò il Signore”:
“Questo non ti accadrà mai!” (16,22). E Gesù gli replicò:
“Allontanati da me, satana! Tu mi sei di scandalo (skandalon)...” (v.23). Colui
che, per dono di Dio, può essere solida roccia, è di per se stesso una pietra
sulla strada, che induce il piede ad inciampare. La tensione tra il dono che proviene dal
Signore e le proprie capacità diventa così evidente da destare scalpore; qui
viene in qualche modo anticipato tutto il dramma della storia del papato, nel corso della quale
ci imbattiamo sempre in entrambi gli elementi: quello per cui il papato, grazie a una forza che
non gli deriva da se stesso, rimane il fondamento della Chiesa e quello per cui nello stesso
tempo singoli papi, per le caratteristiche tipiche della loro umanità, diventano sempre
nuovamente scandalo, perché essi vogliono precedere Cristo, piuttosto che seguirlo;
perché essi credono, con la loro logica umana, di dovergli preparare quella strada che
invece solo lui può determinare: “Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli
uomini” (16,23).
Il potere delle chiavi ricorda la parola di Dio che in Is22,22 è rivolta ad
Eliacim, al quale, insieme con le chiavi, viene consegnata «la signoria e il potere sulla
casa di Davide». Ma anche la parola del Signore agli scribi e ai farisei, che vengono
rimproverati di chiudere il regno dei cieli davanti agli uomini (Mt23,13), ci aiuta a
comprendere il contenuto di questo detto sul mistero: poiché Pietro è un fedele
amministratore del messaggio di Gesù, egli apre la porta del regno dei cieli; a lui
compete la funzione del portinaio, che deve giudicare se accogliere o rifiutare (cfr. Ap3,7).
In tal modo il significato del detto sulle chiavi si avvicina chiaramente a quello sul
«legare» e lo «sciogliere». Quest'ultima espressione è desunta
dal linguaggio rabbinico e significa da un lato la pienezza delle decisioni dottrinali;
dall'altro lato esprime il potere disciplinare, cioè il diritto di infliggere o di
togliere la scomunica. Il parallelismo «sulla terra e nei cieli» afferma che le
decisioni ecclesiali di Pietro hanno valore anche davanti a Dio; idea che si incontra, in
forma simile, anche nella letteratura talmudica. Se prestiamo attenzione ai paralleli del detto
di Gesù risorto, riportato in Gv20,23, diventa evidente che con l'autorità di
sciogliere e di legare si intende essenzialmente il potere di rimettere i peccati affidato in
Pietro alla Chiesa (cfr. anche Mt18,15-18). Ciò mi sembra un elemento della massima
importanza. Nel cuore stesso del nuovo ministero, che toglie energia alle forze della
distruzione, c'è la grazia del perdono. È essa che costituisce la Chiesa. La
Chiesa è fondata sul perdono. Pietro stesso rappresenta nella sua persona questo fatto:
colui che è caduto nella tentazione, ha confessato e ricevuto il perdono, può
essere il detentore delle chiavi. La Chiesa è nella sua intima essenza luogo del
perdono in cui viene bandito il caos. Essa viene tenuta insieme dal perdono, Pietro ne
è una dimostrazione perenne: essa non è la comunità dei perfetti, ma la
comunità dei peccatori, che hanno bisogno del perdono e lo cercano. Dietro il detto
sull'autorità diventa visibile il potere di Dio come misericordia e quindi come pietra
angolare della Chiesa; in sottofondo udiamo la parola del Signore: «Non sono i sani che
hanno bisogno del medico, ma gli ammalati; non sono venuto a chiamare i giusti, ma i
peccatori» (Mc2,17). La Chiesa può sorgere solo là dove l'uomo giunge alla
propria verità, e questa verità consiste precisamente nel fatto che egli ha
bisogno della grazia.
Giovanni, verso la fine del I secolo, cioè quando Pietro era già morto da
tempo, non considerò affatto il suo primato come qualcosa di appartenente al passato, ma
come qualcosa che restava attuale per la Chiesa.
La parola è legata ad un testimone, il quale garantisce la sua
inequivocabilità, che essa non possiede come mera Parola affidata a se stessa. Il
testimone tuttavia non è un individuo che sussiste per se stesso e in se stesso. Egli
è tanto poco testimone da se stesso e per la propria capacità di ricordare quanto
poco Simone può essere roccia con le proprie forze. Egli è testimone non in
quanto «carne e sangue», ma attraverso il suo legame con lo Spirito, il
Paraclito, che è garante della verità e apre la memoria. E lui che, dal canto
suo, unisce il testimone a Cristo. Infatti il Paraclito non parla da se stesso, ma prende dal
«suo» (cioè da quello che è di Cristo: Gv16,13). Tale legame con lo
Spirito e col suo modo di essere - «non parlerà da se stesso, ma quanto
sentirà dire» - viene chiamato, nel linguaggio della Chiesa,
«sacramento». Il sacramento designa il triplice intrecciarsi di Parola - testimone
- Spirito Santo e Cristo, che descrive la struttura specifica della successione
neotestamentaria. Dalla testimonianza delle lettere pastorali e degli Atti degli apostoli si
può desumere con una certa sicurezza che già la generazione apostolica ha dato
a questo reciproco intrecciarsi di persona e parola, nella presenza creduta per fede dello
Spirito e di Cristo, la forma dell'imposizione delle mani.
La figura neotestamentaria della successione, così costituita, nella quale la Parola
viene sottratta all'arbitrio umano proprio attraverso il coinvolgimento in essa del testimone,
viene molto presto fronteggiata da un modello essenzialmente intellettuale e antistituzionale,
che nella storia conosciamo col nome di gnosi. Qui viene innalzata a principio la libera
interpretazione e lo sviluppo speculativo della parola. Di fronte alla pretesa intellettuale,
avanzata da questa corrente, molto presto non è più sufficiente il rimando a
singoli testimoni. Diventarono necessari dei punti di riferimento per la testimonianza; che
vennero trovati nelle cosiddette sedi apostoliche, cioè in quei luoghi in cui gli
apostoli avevano operato. Le sedi apostoliche diventano i punti di riferimento della vera
communio. All'interno di questi punti di riferimento, tuttavia, si dà
ancora un preciso criterio, che riassume in sé tutti gli altri (con chiarezza presso
Ireneo di Lione): la Chiesa di Roma, in cui Pietro e Paolo hanno sofferto il martirio. Con
essa ogni singola comunità deve essere in accordo, essa è veramente il criterio
dell'autentica tradizione apostolica. Del resto Eusebio di Cesarea, nella prima redazione della
sua Storia ecclesiastica, ha fatto una descrizione dello stesso principio: il
contrassegno della continuità della successione apostolica si concentra nelle tre sedi
petrine di Roma, Antiochia e Alessandria, dove Roma, quale luogo del martirio, è ancora
una volta, delle tre sedi petrine, quella preminente, quella veramente decisiva.
Questo ci porta a una constatazione della massima importanza: il primato romano,
cioè il riconoscimento di Roma quale criterio della fede autenticamente apostolica,
è più antico del canone del Nuovo Testamento, della Scrittura. A tal
proposito ci si deve guardare da una quasi inevitabile illusione. La Scrittura è
più recente degli scritti da cui è costituita. Per lungo tempo l'esistenza
dei singoli scritti non diede ancora luogo al Nuovo Testamento come Scrittura, come Bibbia.
La raccolta degli scritti nella Scrittura è piuttosto opera della Tradizione; che
cominciò nel II secolo, ma che solo nel IV e V secolo giunse in qualche misura a
conclusione. Un testimone insospettabile quale Harnack ha segnalato al riguardo che, prima
della fine del secondo secolo, si impose in Roma un canone dei libri del Nuovo Testamento
secondo il criterio dell'apostolicità e cattolicità, criterio che a poco a poco
fu seguito anche dalle altre Chiese, “a causa del suo valore intrinseco e della forza
dell’autorità della Chiesa romana”. Possiamo quindi affermare: la
Scrittura è diventata Scrittura mediante la Tradizione, di cui fa parte come elemento
costitutivo, proprio in questo processo, la “potentior principalitas” della
cattedra di Roma.
Ma il Nuovo Testamento ci mostra qualcosa di più degli aspetti formali di una
struttura; esso ci mostra anche la sua intima essenza. Non ci consegna solo prove documentarie,
ma resta criterio e compito. Ci indica la tensione tra pietra d'inciampo e roccia; proprio
nella sproporzione tra capacità umane e disposizione divina, Dio si lascia riconoscere
come colui che è veramente presente e operante. Se il conferimento di una simile
pienezza di autorità agli uomini ha potuto far scattare nel corso della storia - e non
senza motivo - sempre di nuovo il timore di un potere umano arbitrario, tuttavia non solo la
promessa del Nuovo Testamento, ma anche lo stesso percorso storico mostrano il contrario: la
sproporzione degli uomini per una tale funzione è così stridente, così
evidente che proprio nel conferimento a un uomo della funzione di roccia diventa chiaro che non
sono questi uomini che sostengono la Chiesa, ma solo Colui il quale la sostiene più
nonostante gli uomini che attraverso di essi.
Il mistero della croce non è forse da nessuna parte così tangibilmente
presente come nella storia del primato. Il fatto che il suo centro sia costituito dal perdono
è nello stesso tempo il suo presupposto e il segno della natura particolare del potere
di Dio.
Dunque, con lo stesso realismo con cui oggi ammettiamo i peccati dei papi, la loro
inadeguatezza rispetto alla grandezza del loro ministero, dobbiamo anche riconoscere che sempre
Pietro è stato la roccia contro le ideologie; contro la riduzione della Parola a quanto
è plausibile in un’epoca determinata; contro la sottomissione ai potenti di questo
mondo. Riconoscendo questi fatti nella storia, noi non celebriamo degli uomini, ma diamo
lode al Signore, che non abbandona la Chiesa e che ha voluto realizzare il suo esser roccia
attraverso Pietro, la piccola pietra d’inciampo: non la “carne e il sangue”,
ma il Signore salva attraverso coloro che provengono dalla carne e dal sangue.
(da Joseph Ratzinger, Il primato di Pietro e l’unità della Chiesa, in La
Chiesa. Una comunità sempre in cammino, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1991,
pagg.33-53)
In relazione con le discussioni conciliari la teologia aveva tentato a suo
tempo di concepire la collegialità al di là delle sole strutture e funzioni,
come espressione di una legge fondamentale che risale alle radici più profonde del
cristianesimo, una legge che in sempre nuovi modi si manifesta e rappresenta ai vari
livelli di realizzazione cristiana: è risultato che il “noi” con le
strutture conseguenti appartiene per principio alla religione cristiana. Il credente come tale
non è mai solo: cominciare a credere significa uscire dall’isolamento ed entrare
nel noi dei figli di Dio; l’atto di adesione al Dio rivelato nel Cristo è
anche sempre unione con coloro che sono già stati chiamati.
Mi sembra che è anzitutto importante collegare ancora una volta con chiarezza
maggiore la teologia della comunità, sviluppatasi dall’idea di
collegialità, con una teologia della personalità, che non è meno seria di
quella, secondo le fonti bibliche. Appartiene alla struttura della Bibbia non solo
l’aspetto comunitario della storia creata da Dio, ma non meno la consistenza personale,
la responsabilità della persona.
A questa struttura personale corrisponde anche il fatto che non è mai esistita nella
Chiesa una guida comunitaria anonima. Paolo scrive con il suo proprio nome come il responsabile
di ultima istanza delle sue comunità.
Su questa linea sta la teologia petrina del Nuovo Testamento, qui essa trova la sua
intima necessità. Il “noi” della Chiesa incomincia col nome di colui che
ha professato per primo, nominalmente e come persona, la confessione di Cristo: “Tu sei
il Figlio del Dio vivente” (Mt16,16). Stranamente, il passo per il primato viene di
solito considerato da Mt16,17 in poi, mentre agli occhi della Chiesa antica il versetto
decisivo per l’intelligenza del tutto è il versetto 16 dove Pietro diviene pietra
della Chiesa in quanto portatore del Credo, della sua fede in Dio, la quale è
concretamente fede in Cristo come Figlio e, proprio per questo, fede nel Padre e fede
trinitaria, che solo lo Spirito di Dio è in grado di trasmettere. I versetti 17-19 sono
apparsi agli occhi della Chiesa antica unicamente come la spiegazione del versetto 16.
Professare il Credo non è mai stata un’opera propria dell’uomo, e
così colui che nell’obbedienza della confessione dice ciò che da se stesso
non potrebbe dire può anche fare e diventare ciò che non potrebbe con le sue sole
forse. Stando così le cose, non ha ragione di sussistere il capovolgimento che
affiora per la prima volta in Agostino e che domina dal 1500 in poi lo scenario teologico;
ossia: il fondamento della Chiesa è Pietro come persona oppure è la
confessione di Pietro? La risposta suona: una confessione di fede esiste unicamente in
quanto personalmente responsabilizzata, e quindi la confessione è legata alla persona.
Viceversa, il fondamento non è una persona considerata per così dire sul piano
metafisico-neutrale, ma è la persona in quanto portatrice della confessione.
L’una cosa senza l’altra fallirebbe il significato di quanto si intende.
O viene attribuito (N.d.C. secondo i testi del card.Reginald Pole, analizzati da
J.Ratzinger. Il Pole scrisse in relazione alla discussione sollevata sul primato dal re
d’Inghilterra Enrico VIII, che si appoggiava sulle parole del vescovo Simpson il quale
diceva che il ministero pontificio era in contraddizione con l’humilitas cristiana)
allo stato l’esclusivo potere (e onnipotenza) sulla terra oppure..., con la soluzione
“romana”, il papato si innalza come l’interlocutore, insieme impotente e
potente, rispetto al potere mondano. Ciò vale anche se più volte lungo la storia
è stato fatto il tentativo di rivestire l’impotenza di questa seconda
“potenza” con una potenza anche mondana, un’operazione però in cui
essa poté rimanere celata e compromessa nella sua specificità ma non cancellata.
Pole ha identificato, in relazione a Pietro e in base a lui, sede (sede apostolica) e
«croce». Alla domanda del Della Rovere: «Quale somiglianza ha ora la sede
di Pietro, su cui siede il vicario di Cristo, con la croce su cui Cristo è stato
inchiodato?», egli risponde: «La riconosceremo senza fatica se abbiamo prima capito
che la sede del vicario di Cristo è quella su cui si è seduto Pietro a Roma
quando vi piantò la croce di Cristo... Da essa egli non è mai disceso durante
tutto l'esercizio del suo pontificato, bensì, innalzato con Cristo secondo lo spirito,
le sue mani e i suoi piedi erano a tal punto fissati ai chiodi che non volle andare dove lo
portava la sua volontà, ma rimanere là dove lo manteneva la volontà di
Dio: là stavano inchiodati ormai il suo sentimento e il suo pensiero». Allo
stesso modo si esprime altrove il cardinale inglese: «Il ministero papale significa croce
e la croce più grande possibile. Giacché che cosa potrebbe più aver a
che fare con la croce dell'ansia e della responsabilità per tutte le Chiese della
terra?». E ricorda Mosè che geme sotto il peso dell'intero Israele, che non
voleva più portarlo e lo doveva portare tuttavia. Essere a tal punto legato alla
volontà di Dio e alla Parola di cui egli è il messaggero, è quel legame
e quella soggezione contrari alla propria volontà di cui parla Gv 21. Questo farsi
guidare dal Signore nella Parola e volontà di Dio è quanto appunto fa della sede
una croce e quindi del vicario un sostituto. Egli sta sul luogo dell'obbedienza e in tal
modo nella personale responsabilità per Cristo, confessare la morte e resurrezione del
quale è tutto il suo compito, la sua personale responsabilità, in cui l'intera
Chiesa è rappresentata in vincolo personale, di uno che lega perché a sua volta
legato...
Forse appartiene ai limiti e ai legami necessari di questo incarico pontificio che esso non
possa mai essere pienamente adempiuto e che quindi esso debba anche sperimentare la
contrapposizione dei credenti in Cristo, i quali evidenziano in esso ciò che non
è potere vicario, ma potere proprio. Tuttavia è possibile che proprio in
questo modo diventi operante una funzione di unità del Papa che oltrepassa la
comunità della Chiesa romana. Il Papa rimane anche per chi nega la pretesa del suo
ministero, punto di riferimento di una responsabilità personalmente portata ed espressa
di fronte al mondo per la parola della fede, e in tal modo anche una sfida, da tutti percepita
e tutti concernente, a ricercare una fedeltà sempre più grande a questa parola,
come pure una sfida a impegnarsi per l’unità e a ritenersi responsabili per la
mancanza di unità. In tal senso esiste anche nella separazione una funzione del
papato che crea unità, la quale non è in ultima analisi pensabile per nessuno
come sganciata dal dramma storico della cristianità. Per il papato e per la Chiesa
cattolica la critica al papato della cristianità non cattolica è e resta un
pungiglione che spinge a ricercare una realizzazione sempre più conforme a Cristo del
servizio petrino. Per la cristianità non cattolica a sua volta il papato è la
permanente sfida visibile verso una unità concreta, che è un compito della Chiesa
e che dovrebbe essere il suo contrassegno riconoscibile davanti al mondo.
(da Joseph Ratzinger, Il primato del Papa e l’unità del popolo di Dio, in
Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1987,
pagg.33-48)
La missione nelle stazioni... ci permette di riconoscere
nel modo più facile il contesto storico di questa fondazione. Essa cerca
di dare una risposta a quella nuova situazione dell’uomo all’inizio
del XX secolo, che trova nella stazione il suo primo simbolo pubblico. La
stazione è il luogo in cui, per un verso, i mondi vengono a contatto,
in cui vicino e lontano vengono messi in comunicazione; è luogo dell’incontro,
dello scambio fra il qui e il là, ma, d’altro canto, è
anche il luogo dell’estraneità, dell’anonimità, della
mobilità, che muta e dissolve le antiche radici. Se oggi in molte
delle nostre città la stazione si è trasformata nel punto di incontro
dei lavoratori immigrati, ciò significa che per loro la stazione è
il luogo che li collega, pur in mezzo a stranieri, alla loro patria, è
quasi la finestra che dal paese straniero guarda verso casa, la promessa della
strada che porta là; ma proprio in quanto rappresenta, in questa forma,
un mezzo di patria, essa è anche l’espressione dell’inguaribile
nostalgia; essa rimane quindi sia richiamo alla patria sia, allo stesso tempo,
simbolo dell’estraneità, dello sradicamento.
L’esperienza spirituale, che incontriamo qui, mette in luce particolarmente
la situazione di crisi dell’inizio del XX secolo, alla quale cercò
di dare una risposta la fondazione dell’unione. L’antica civilizzazione
agricola va verso la fine ed anche la città, magnificata dalla cultura
umanistica, entra in una fase di mutamento radicale. Si avvicina l’epoca
della tecnopoli; così H.Cox chiama la nuova forma della città
e, di conseguenza, la nuova forma di civilizzazione e di società umana,
che stanno formandosi e diventano, con sempre maggior velocità, destino
e problema per tutti noi. Le caratteristiche della tecnopoli che sta sorgendo
sono, a parere di Vidich e Bensam, ai quali si collega Cox, la mobilità,
la concentrazione economica e la comunicazione di massa. Si dovrebbe certo aggiungere
con Cox, che alla comunicazione di massa fanno da corrispondente l’anonimità
del singolo e l’impersonalità. La forma di base nella quale l’umanità
– e l’uomo in essa – esperimenta e realizza se stessa, muta
essenzialmente con il crescente dilatarsi del fenomeno della tecnica.
L'uomo sta di fronte ad una nuova fase della sua storia, nella quale gli si
aprono nuove possibilità, nella quale però è gettato anche
in pericoli del tutto nuovi. Tutto ciò avviene con differente rapidità
nei singoli strati sociali; la nuova messa in pericolo dell'uomo, che qui sorge
e che fa richiedere una protezione - protezione dell'uomo da se stesso e per
se stesso - si può osservare naturalmente, in primo luogo e nella forma
più acuta, proprio tra i deboli e gli abbandonati della società,
in quelli che dalla stabilità dell'ordinamento rurale vengono direttamente
proiettati nella mobilità ed anonimità della nuova epoca; soltanto
in essa infatti si può aspettarsi il necessario sostentamento vitale,
e ciò avviene in forma più accentuata per le donne che per gli
uomini, considerata di nuovo la posizione più debole che era senz'altro
assegnata alla donna in questa fase della società occidentale.
Cosa viene fatto qui dunque? Si cerca di creare all'interno della mobilità
una continuità che sostenga e metta al sicuro l'uomo; una continuità
che lo protegga dai banditi moderni, che abusano dell'uomo in forme molteplici,
facendolo oggetto dei loro affari. Si cerca inoltre di procurare, in mezzo
all'anonimità, la comunicazione personale che è il mezzo fondamentale
per ritrovare se stessi e per autorealizzarsi. Ma ciò vuol dire che
la chiesa storicizzata nella particolare località si riconosce e si
mette a disposizione di tutti gli uomini come l'unica chiesa. La chiesa è
sorta nella tarda antichità come una comunità di persone tali
che dovevano sentirsi un po' come «stranieri, uomini seduti vicino»
casualmente, e dunque, se si vuole, una specie di ambiente di stazione:
non una società chiusa, che gestisce la sua vita comune e non vuol essere
disturbata da altri, ma lo spazio aperto di coloro che, sparpagliati per il
mondo, professano il nome di Gesù Cristo e sono aperti tutti l'uno per
l'altro e per colui, che cerca la verità della vita umana.
Ciò vuol dire che la chiesa è sempre e soltanto l'unica chiesa,
in tutti i luoghi. Noi oggi sperimentiamo una riscoperta del principio della
chiesa locale. Si sta di nuovo prendendo coscienza del fatto che una chiesa
si forma in un luogo e qui trova la sua più diretta e concreta realizzazione.
Nello stesso tempo vengono riscoperti e sperimentati i livelli intermedi della
realizzazione ecclesiale, cioè le conferenze episcopali e gli organismi
ecclesiali con esse coordinati, e questo in primo luogo a partire dall'introduzione
nella liturgia della lingua popolare, che va sviluppandosi a vista d'occhio.
Anche questo ha la sua importanza come vivificazione della struttura ecclesiale
e come possibilità dell'inserimento delle molteplici e specifiche possibilità
dei singoli popoli nella chiesa universale. Ambedue i movimenti però
possono assumere un risvolto negativo là, dove una comunità
si chiude in se stessa e si ritiene autosufficiente; lì appunto dove
dei singoli gruppi nazionali percorrono indipendentemente la loro strada e dimenticano
di essere chiesa soltanto nella totalità e nella tensione ad essa.
Se dieci anni fa si doveva ricordare ancora che una comunità (una parrocchia)
non è un distretto amministrativo, ma è anche chiesa, adesso
è necessario ricordare che la chiesa universale non rappresenta soltanto
una copertura organizzativa, ma è veramente la chiesa stessa e che la
comunità rimane chiesa soltanto se è nell'universalità.
Non si può, infatti, possedere solo per sé il Cristo incarnato,
che è la vera vita della chiesa e che dimora in pienezza tra noi in ogni
assemblea ecclesiale; questo Cristo, che vuol rendere chiesa completa ogni
assemblea che si riunisce in suo nome. Egli è tutto nel singolo ed è
uno soltanto nella totalità. Perciò non lo si può possedere
senza la universalità men che meno contro la universalità.
Il vivere nell'universalità è quindi il criterio basilare per
decidere se una comunità si raduna nel suo nome ed è quindi
chiesa. La regola fondamentale per essa è la sua non-chiusura, la
sua non-autonomia, la sua apertura verso il tutto della chiesa. Il suo criterio
è la volontà di non essere qualcosa di particolare, ma di incorporare
in questo luogo l'unica chiesa, che è dappertutto identica e soltanto
così è se stessa.
Che implicanza ha tutto questo per la nostra questione? Vuol dire che i fondatori
dell'Unione per la protezione della giovane, e tutti coloro che hanno portato
avanti finora la loro opera, realizzarono a loro modo questo modello della
chiesa aperta. Nella semplicità e nel realismo di una fede che non
pone molte domande, ma vive con tanta maggior intensità ed afferra con
tanta maggior sicurezza la realtà, essi si sono adoperati - a fatti,
non con belle teorie - affinché il modello della chiesa antica, nella
sua concatenazione tra comunità locale e apertura universale, offrisse
una risposta diretta alla società di oggi, caratterizzata dalla mobilità
e dalla concentrazione; e si riesce soltanto se si tenta di rivivere questo
antico modello e di accoglierlo con tutte le sue conseguenze. Nella ingarbugliata
disputa sulla chiesa del futuro, sulla chiesa nell'epoca della tecnopoli è
stata presa qui una decisione provvisoria che è esemplare e che noi abbiamo
compreso appena a sufficienza proprio nella sua attualità e modernità.
Questo mi sembra vero in due maniere. Anzitutto la fondazione di quest'Unione
significa che la chiesa locale non si chiude in una speciale forma di esistenza
comunitaria, articolata a mo' di chiesa particolare o in qualche altra forma,
ma si conosce e vive come chiesa della stazione, ad esempio, (ma anche come
chiesa di tutti gli altri settori dell'Unione), proprio come chiesa aperta degli
uomini non integrati. In mezzo all'anonimità, che deriva dalla mobilità,
comprende se stessa come l'unica chiesa che abbraccia tutti gli spazi della
mobilità umana e si offre ovunque come l'unica istituzione che è
patria in ogni regione straniera. Questa disponibilità a considerarsi
incessantemente la chiesa aperta, che non si divide in gruppi linguistici ed
etnici, ma è a disposizione dell'universalità in quanto presenza
dell'universale in questo luogo, mi sembra di importanza fondamentale ed è
anche un contributo del tutto specifico della chiesa al chiarimento dei problemi
del nostro tempo; la mobilità da sola non crea alcuna unità, cosi
come la concentrazione da sola non opera alcuna comunicazione. Ma l'essere cristiani
rettamente inteso, include sempre una certa trascendenza della situazione particolare
dello specifico carattere nazionale, della singola lingua, della particolare
condizione (e non pertanto il loro consolidamento sacrale). Esso pone una realtà
che può adempirsi sempre e soltanto nella convergenza verso l'universalità.
La società di oggi, mobile, concentrata ed anonima, se vuol vivere ha
bisogno proprio di tali elementi di convergenza. E una simile conseguenza non
può acquistare realtà in quanto tesi ideale, ma soltanto nella
positiva pazienza di quelli che stanno realmente nei luoghi della mobilità
e dell'anonimità come uomini dedicatisi, con i fatti, all'esecuzione
di questa convergenza.
L’altra cosa che mi sembra di rilievo in questo contesto è il
fatto che qui si è trattato, e si tratta in sostanza, di una iniziativa
laica, che riconosce la necessità interiore della fede e la realizza,
come necessità, nella libertà.
Io temo che oggi siamo alquanto lontani da simili realizzazioni spontanee di
ciò che è conforme alla fede e che ci siamo assorti, nella stessa
misura, in un teorizzare quasi senza speranza, nel quale appunto questa teoria
parla con energia fortissima della necessità della prassi. Davanti ad
un movimento laicale cosi significativo e sempre esemplare come questo, mi sembra
indispensabile dichiarare che la forma, in cui oggi viene portata avanti nella
chiesa la cosiddetta scoperta del laico, va proprio nella falsa direzione. Per
teologia del laico si intende oggi sempre più la lotta per una
nuova forma dell'ufficio ecclesiale, ciò che è una vera contraddizione
in termini. Il laico infatti o è laico o non lo è. Una teologia
del laico, che viene portata avanti come lotta per la proporzione nel governo
della chiesa, è una caricatura di se stessa e rimane tale anche se questo
malinteso viene ammantato con il concetto di una direzione sinodale della chiesa.
E purtroppo questo non è soltanto uno sbaglio della teoria, ma una deviazione
delle forze nella chiesa ed un fallimento nei confronti del loro compito; quando
la teologia diventa teoria della politica ecclesiale e lotta per partecipare
al governo della chiesa, la forza d'urto va solo verso l'interno di essa. La
chiesa si occupa soltanto di se stessa e così logora se stessa. La
forza, che le è stata concessa proprio per servire, per essere presenza
per altri, viene impiegata nella lotta per dominare e per tenere in moto
se stessa. Ma una chiesa che capisce e vive rettamente se stessa non guarda
a sé, ma si allontana da sé ed opera per gli altri.
È esattamente quanto accade qui. Il laico dimostra la sua libertà
e la sua necessità nel fare ciò che la chiesa deve fare,
ciò che è una necessità per essa e ciò che, tuttavia,
può accadere in essa soltanto se vien fatto liberamente, per libera iniziativa.
E noi oggi abbiamo urgentissimo bisogno proprio di abbandonare l'autogestione
ecclesiale e di rivolgerci agli uomini che ci aspettano. La vera libertà
e la vera necessità del cristiano che vive nella fede di Cristo, senza
incarico ecclesiastico, consiste anche oggi nel portare avanti con decisione
e temerarietà simili iniziative, anche se il trend non ne sa nulla
e il magistero ecclesiastico non le incoraggia eccessivamente. Allora e
soltanto allora la chiesa si conserva come la forza del futuro, che non viene
superata dalla società in marcia verso la tecnopoli, ma viene anzi richiesta
nuovamente da essa.
In questo contesto si può accennare ancora ad un terzo tratto caratteristico
dell'universalità. Nella cronaca dell'anno 1902 si dice che l'Unione,
rifondata a Regensburg, avesse istituito dei corsi serali per stenografia, ragioneria,
corrispondenza commerciale, contabilità commerciale, lingua francese
e ben presto anche dattilografia... «essa fece nascere molte unioni, ...ma
si ritirò sempre, non appena una unione era diventata autosufficiente».
La chiesa in sé e in quanto tale non è affatto un istituto
sociale d'assistenza e neppure una scuola secondaria popolare. Ma essa può,
in via sussidiaria e in situazioni convenienti, sostenere il compito di produrre
le iniziative necessarie, che aiutano l'uomo ad essere in grado di percorrere
la sua strada nella società moderna; la chiesa lascerà libere
tali iniziative non appena il servizio sussidiario ha raggiunto il suo scopo.
Essa non può cambiare il suo messaggio con un servizio sociale, però
la forza di questo messaggio lascerà sempre dietro a sé delle
nuove iniziative sociali, così come essa supera la portata di queste
iniziative per tendere a quella maggiore grandezza che sarà e rimarrà
un'esigenza dell'uomo anche nella società tecnica.
Riassumendo le precedenti riflessioni possiamo dire che il lavoro dell'Unione
per la protezione della giovane si serve, in pratica, dell'universalità
e dell'identità dell'unica chiesa in un luogo concreto della storia e
della vita umana e cerca di tradurle in realtà di vita quotidiana.
È possibile ora un ulteriore passo avanti, che ci introduca al motivo
intimo dell'universalità e dell'identità ecclesiale e cosi, mentre
tocchiamo il nocciolo del tema - l'interrogativo sull'uomo stesso - veniamo
riportati al problema dal quale eravamo partiti. Ora infatti si deve ricercare
da dove prenda la sua identità la chiesa, perché essa possa tentare
di essere la stessa in ogni tempo e in ogni luogo e possa aiutare l'uomo a raggiungere,
nella mobilità, la sua identità. Essa lo può fare soltanto
a partire dal suo punto centrale, dalla fede in Gesù Cristo, il Figlio
di Dio, che è nello stesso tempo l' «ultimo uomo», cioè
il progetto definitivo dell'uomo e la ricapitolazione nel loro omega di tutti
gli abbozzi umani. A partire da Cristo essa sa che esiste un solo Padre di tutti
gli uomini. Da lui è venuta a conoscenza dell'identità inviolabile
dell'essere uomo e di conseguenza della dignità umana di tutti gli uomini,
che purtroppo non è un dato di fatto nella storia reale, ma tanto più
diventa l'imperativo pressante per un credente, che non può accontentarsi
(tanto è importante) di una generale fraternità ontologica.
Nell'imitazione di Dio, che ha creato di persona la realtà ed è
entrato persino nella positività della vita e del soffrire umano, essa
deve lottare piuttosto per la realizzazione del compito principale, di svelare
cioè agli uomini la loro fratellanza e di vivere proprio di questa scoperta.
Il credente dovrebbe essere spinto dall'irrequietezza di uno scopritore, che
deve render nota la sua conoscenza, sovvertitrice della storia, la deve far
accettare e portare ad una realizzazione pratica.
Ed è questo ciò che affascina nelle grandi figure della storia
dell’Unione: Padre Cipriano Fröhlich, la contessa Cristiana von Preysing,
Luisa Fogt, la baronessa Maria von Hohenhausen, Ellen Amman; si sperimenta in
essi l’entusiasmo dello scopritore, che non li lascia star fermi, per
il quale essi si struggono; in loro si può vedere di nuovo come Cristo
sia una scoperta per l’uomo. Quanto è gretta in confronto a ciò
la lotta per le competenze ed il cronico giocare al rialzo di ogni risentimento,
che noi oggi sperimentiamo, come se fosse eroico persistere nel risentimento
ed enumerare di nuovo le ferite, che nel corso del tempo si sono sofferte dalla
chiesa o per la chiesa.
Per la chiesa e per quest’unione, che vive del fondamentale impulso
della fede della chiesa e cerca di farla valere in un luogo determinato,
si tratta, né più né meno, che della fraternità
universale. Si potrebbe però chiedere: cosa viene ottenuto di sicuro?
Chi viene raggiunto? In questo contesto mi sembra importante un passo che si
trova nella cronaca dell’anno 1903 e che dice: “Ad una signora della
missione nelle stazioni, dopo averle chiesto lo ‘scopo dell’Unione’,
una specie di sfruttatore di prostitute dice: ‘E’ buffo, qui
lei ne riceve una, mentre io ne posso avere dieci e più ogni giorno...’;
detto questo sparì”... Stimatissime signore, trovate ancora ridicolo
attendere questa sola persona alla stazione, magari anche per cento ore al mese,
in modo da dare l’impressione di aspettare inutilmente per novantanove?
Cosa è quest’unica persona? E’ l’intero prezzo del
prezioso sangue di Cristo. E per voi... cos’è quest’unica
persona per voi? Vi dà la risposta San Giovanni Crisostomo: Nulla nel
mondo raggiunge il valore di una singola anima”.
In un linguaggio che suona forse un po’ patetico, viene espresso qui qualcosa
di decisivo e di duraturo, che oggi, di fronte alla miseria delle masse che
ci troviamo davanti e di fronte alla violenza con cui ci aggredisce il problema
sociale, può facilmente uscire dal nostro campo visivo. Io avevo già
ricordato... che oggi al servizio dell’amore fraterno cristiano viene
opposto l’interrogativo se non si trascuri, in questo modo, il necessario
cambiamento delle situazioni, se si dia aiuto nel singolo caso e non ci si renda
conto del problema collettivo. La chiesa distribuisce ombrelli, così
si dice, mentre si tratta di cambiare le condizioni generali del tempo. Benché
proprio questo esempio sia adatto per richiamare alla memoria i limiti di simili
sforzi, non si può senz’altro contestare la giustificazione della
richiesta di principio. E’ necessario certo trattare con molta decisone
del problema di costruire la tecnopoli come città dell’uomo e di
impiegare per un simile compito collettivo, indirizzato al futuro, tutta la
forza di cui è meritevole.
Ma l’uomo non è mai puro materiale di costruzione del futuro. Ed
egli non si schiude mai del tutto nelle relazioni, ma rimane sempre un nuovo
interrogativo, che si protende verso l’infinito: egli esige una risposta
personale, che non può mai venire interamente pianificata. Perciò
non ci saranno mai situazioni che rendano superflua l’attività
personale, premurosa ed amorosa per l’uomo. Perciò la preoccupazione
per il futuro non può mai diventare l’alibi per disfarsi del presente
e la lotta per il collettivo non può mai sostituire la donazione al singolo.
Accanto allo sforzo pianificatore, e forse anche combattivo, per il futuro della
totalità deve perciò esistere sempre la lotta per l’uomo
qui e oggi, nelle situazioni e nelle possibilità dell’oggi, per
il singolo nella necessità e nel pericolo di quest’oggi. Panificazione
del futuro, quando essa avviene positivamente, è amore per chi è
molto lontano. Non sostituisce l’amore del prossimo. Forse la pianificazione
del futuro e il concreto servizio dell’amore fraterno qui e oggi dovranno
in futuro fecondarsi a vicenda più di quanto finora è avvenuto.
Ma il vero e proprio cuore del cristianesimo è e rimane l’amore
del prossimo. In realtà, infatti, ogni singolo individuo è
amato infinitamente da Dio ed ha un valore infinito. Come ha acutamente compreso
Pascal, Cristo dice a ciascuno: nella mia agonia io ho pensato a te. Io ho versato
per te questa goccia di sangue. Se un uomo riuscì a dare significato
ad un individuo, ad una singola persona per mezzo del suo amore, ha reso infinitamente
profittevole la sua vita. E resterà sempre il fatto che alcuni uomini
vivono perché hanno incontrato un tale amore, che offre una ragione di
vita; ciò si avvererà in tutte le situazioni; questo dono non
verrà reso superfluo da nessuna riforma e da nessuna rivoluzione. E viceversa:
ci fu salvezza in ogni situazione in cui, in un mondo di inimicizia e di
estraneità, si incontrò uno che uscì dal collettivo e fu
fratello. Questi incontri salvifici, che non sono registrati da nessun libro
di storia, sono la vera, l’interiore storia della chiesa, che noi oggi,
per quanto riguarda la storia delle istituzioni, dimentichiamo più che
mai. Solo aiutando a salvare gli altri veniamo salvati noi stessi; solo mentre
proteggiamo gli altri viene provveduto anche a noi.
(Joseph Ratzinger, Conferenza per la celebrazione del 75° anno di
attività della cattolica Unione per la protezione della giovane - ora
Associazione per il lavoro sociale delle giovani – tenuta il 25.04.1970
a Monaco di Baviera, in Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, pagg.200-212)
N.B. Per un ulteriore approfondimento, invece, della Chiesa come composta
dai viventi in questa terra e dai santi del cielo, vedi su questo stesso sito,
nella sezione Approfondimenti, l’articolo La Porziuncola di San Francesco
d’Assisi, all’interno della grande Basilica di S.Maria degli Angeli.
Che cosa significa l’indulgenza? dell’allora cardinal
Joseph Ratzinger
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