VI incontro sul pensiero di papa Benedetto XVI (a partire da testi dell’allora cardinal J.Ratzinger): Resurrezione dei morti, Vita eterna, Anima, Inferno, Purgatorio, Paradiso (tpfs*)

N.B. I titoli ed i neretti sono redazionali e funzionali al commento sviluppato nella catechesi. Anche la disposizione dei testi non segue un ordine cronologico, ma è relativa alla successione dei temi così come è stata organizzata per la catechesi di S.Melania. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi brani non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

L’Areopago (06.05.2006)


Indice


Credo nella resurrezione dei morti

Ci troviamo di fronte a due diverse visioni d’insieme (la concezione greca e quella biblica), che non si possono assolutamente addizionare l’una all’altra: l’idea che in esse ci si fa dell’uomo, di Dio e del futuro, sono completamente differenti, per cui in fondo ciascuna delle due visioni va considerata unicamente come un tentativo di dare una risposta totale al problema del destino umano. La concezione greca si basa sull'idea che nell'uomo risultino giustapposte due sostanze intrinsecamente estranee fra loro, di cui l'una (il corpo) è destinata a dissolversi, mentre l'altra (l'anima) è di per sé imperitura, ragion per cui di suo stesso impulso, indipendentemente da qualsiasi altro essere, continua a sussistere. Anzi, sarà proprio nella separazione dal corpo totalmente estraneo alla sua natura, che l'anima perverrà al suo stadio tipico e perfetto.
Viceversa, il pensiero biblico dà per presupposta l'inscindibile unità dell'uomo; tanto per fare un esempio, la Scrittura non conosce alcun termine che indichi soltanto il corpo (separato e distinto dall'anima), ma anzi per essa anche il solo termine ‘anima’ denota nell'assoluta maggioranza dei casi l'intero uomo, esistente pure col corpo; i pochi passi in cui si delinea una visione diversa, rimangono in certo qual modo nel vago, oscillando tra il pensiero greco e quello ebraico, senza comunque intaccare l'antica visione delle cose. La risurrezione dei morti (non dei corpi!) di cui parla la Scrittura, si riferisce quindi alla salvezza dell'unico ed indiviso uomo, non quindi soltanto ad una mera metà (magari addirittura secondaria) dello stesso. Appare adesso chiaro che il nucleo centrale della fede nella risurrezione non sta affatto nell'idea della restituzione dei corpi, alla quale l'abbiamo ridotto nel nostro modo di pensare; ciò rimane assodato, quantunque tale idea immaginifica venga correntemente usata nella Bibbia. Ma vediamo un po': qual è il vero contenuto di ciò che la Bibbia intende annunziare agli uomini mediante la cifra della risurrezione dei morti, presentandola loro come oggetto di speranza?

Ritengo che si possa enuclearlo, meglio di tutto, mettendoci a raffronto con la concezione dualistica della filosofia antica.

1. L'idea d'immortalità espressa dalla Bibbia col ribadire la risurrezione sottintende un'immortalità della persona, dell'unico impasto umano. Mentre nel mondo greco il tipico essere umano è un prodotto della disintegrazione, che come tale non sopravvive, ma per colpa della sua eterogenea costituzione composta di corpo ed anima batte due vie diverse, in base alla fede biblica è invece proprio questo essere detto uomo che continua a sussistere in quanto tale, sebbene trasfigurato.
2. Si tratta d'una immortalità ‘dialogica’ (risurrezione, richiamo alla vita!); è quanto a dire che l’immortalità non fluisce semplicemente dall'ovvia facoltà del non-poter-morire, da cui è caratterizzato quest'essere indivisibile, ma scaturisce invece dall'azione salvifica di colui che ci ama ed ha il potere di compiere anche questo: l'uomo non può sparire totalmente, perché è conosciuto ed amato da Dio. Se ogni amore anela all'eternità, l'amore di Dio non solo la brama, ma la realizza e la impersona. Ed effettivamente, il pensiero biblico della risurrezione nasce direttamente da questo motivo dialogico: chi prega, sa per via di fede che Iddio ristabilirà la giustizia (Giobbe19,25 ss.; Sal73,23 ss.); la fede è convinta che coloro i quali hanno sofferto per la causa di Dio, condivideranno anche l'adempimento della promessa (2 Macc. 7,9 ss.). Siccome l'immortalità presentataci dalla Bibbia non proviene dal potere autonomo del soggetto di per sé indistruttibile, bensì dal suo esser incluso nel dialogo col creatore, essa deve necessariamente chiamarsi risurrezione (richiamo alla vita). Siccome poi il creatore avvince a sé non soltanto l'anima, bensì l'intero uomo che si realizza nella corporeità della storia, accordando proprio a lui l'immortalità, essa deve chiamarsi risurrezione dei morti, ossia degli uomini. Occorre far notare qui come anche nella formula usuale del nostro attuale Simbolo, che parla di «risurrezione della carne», il termine 'carne' equivalga a 'mondo degli uomini' (nel senso inteso dal linguaggio biblico, quando ci dice ad esempio: «Ogni carne vedrà la salvezza di Dio», ecc.); anche qui perciò, il termine non sottintende affatto una corporeità isolata dall'anima.
3. Il fatto che la risurrezione sia attesa per gli 'ultimissimi giorni', alla fine della storia e in compagnia di tutti gli altri uomini, dimostra il carattere profondamente umanitario della immortalità umana, la quale sta in relazione con l'umanità presa nel suo complesso, di cui, per cui e con cui il singolo individuo è vissuto, derivandone ora la beatitudine o l'eterna infelicità. In fondo, questa connessione fluisce automaticamente dal carattere genericamente umano dell'idea biblica d'immortalità. L'anima intesa alla maniera greca risulta completamente estranea al corpo, e quindi anche alla storia; essa esiste svincolata da tali ceppi, e per farlo non abbisogna di alcun altro essere. Viceversa, per l'uomo inteso come compatta unità, la vita comunitaria è costitutiva; se egli deve sopravvivere, questa dimensione della sua natura non può rimanere esclusa. Sicché, movendo dallo spunto biblico fondamentale, la dibattutissima questione se dopo la morte possa darsi una comunione vicendevole fra gli uomini appare automaticamente risolta; in definitiva, il quesito potrebbe insorgere unicamente in conseguenza d'un prevalere dell'elemento greco sull'impostazione del pensiero: quando si crede la «comunione dei santi», l'idea di 'anima separata' (di cui parla la teologia scolastica) risulta ormai superata.

Tutti questi pensieri ebbero modo di espandersi, in tutto il loro rigoglio, unicamente nella concretizzazione della speranza biblica propugnata dal Nuovo Testamento; l'Antico Testamento, preso isolatamente, lascia in sostanza il problema concernente il futuro dell'uomo del tutto in sospeso. Soltanto con Cristo, l'uomo che «forma una sola cosa col Padre», l'uomo grazie al quale la natura dell'uomo è entrata nell'eternità di Dio, l'avvenire dell'uomo si presenta definitivamente aperto. Solo in lui, nel 'secondo Adamo', quel problema costituito dall'uomo stesso s'avvia ad ottenere una risposta. Cristo è uomo, tipicamente e integralmente uomo; pertanto, è presente anche in lui il problema rappresentato da noi uomini. Egli è però al contempo anche allocuzione di Dio a noi, 'Verbo di Dio'. Il dialogo fra Dio e l'uomo, che sin dai primordi della storia va a tentoni qua e là, è entrato con lui in uno stadio nuovo: in lui, il Verbo di Dio si è fatto `carne', inserendosi realmente nella nostra esistenza. Ora, se il dialogo intavolato da Dio con l'uomo produce la vita, se è vero che l'interlocutore dialogante con Dio, appunto grazie al suo esser apostrofato da colui che vive eternamente, consegue egli stesso la vita, allora ciò significa che Cristo stesso, nella sua qualità di Verbo a noi diretto da Dio, è davvero «la risurrezione e la vita» (Gv11,25). Ciò significa inoltre che il proiettarsi in Cristo, ossia l'aver fede, diventa in senso specifico un addentrarsi in quell'esser conosciuti ed amati da Dio stesso, che costituisce davvero l'immortalità: «Chi crede nel Figlio, ha la vita eterna» (Gv3,15 ss.; 3,36; 5,24). Solo movendo da queste posizioni, è possibile comprendere la linea di pensiero seguita dal quarto evangelista, il quale, narrandoci la vicenda di Lazzaro, vuol far intendere al lettore che il risorgere non è solo un evento ancor lontano, relegato alla fine dei tempi, bensì un fatto che grazie alla fede si verifica pure adesso. Chi crede è impegnato in un dialogo con Dio, in un colloquio che è vita ed ha ormai partita vinta sulla morte. In tal modo, vengono a coincidere fra loro anche la linea `dialogica', risalente per via diretta a Dio, e la linea comunitaria umana del pensiero biblico concernente l'immortalità. In effetti, nel Cristo fattosi uomo, noi incontriamo Dio; in lui però ritroviamo anche la comunanza con gli altri, il cui itinerario a Dio passa attraverso lui, affiancandosi quindi al nostro. La polarizzazione su Dio costituisce in lui al contempo anche una polarizzazione sulla comunità degli uomini; sicché, soltanto l'accettazione di questa nota comunitaria rappresenta davvero un accostamento a Dio, il quale per noi non esiste avulso da Cristo, e quindi nemmeno avulso dal contesto dell'intera vicenda storica umana e dei suoi compiti umanitari.
Risulta così chiarita anche la questione, assai dibattuta ai tempi dei Padri e nuovamente da Lutero in poi, del cosiddetto «stato intermedio» delle anime tra la morte e la risurrezione: l'essere uniti a Cristo, reso possibile* dalla fede, è già un'iniziale vita di risurrezione che ha ormai vinto la morte (Fil1,23; 2Cor5,8; 1Tess5,10). Il dialogo instaurato nella fede è già sin d'ora vita: una vita che non potrà mai venir troncata dalla morte. Pertanto, l'idea del sonno della morte, continuamente ribadita dai teologi luterani e recentemente rispolverata anche dal catechismo olandese, in base al Nuovo Testamento non si può affatto sostenere, e nemmeno giustificare appellandosi al frequente ricorrere del verbo 'dormire' nello stesso Nuovo Testamento. La mentalità ispiratrice del Nuovo Testamento si oppone per principio e in ogni suo scritto ad un'interpretazione del genere, che del resto, anche tenendo presente il pensiero sulla vita d'oltretomba venuto ad affermarsi nel tardo ebraismo, risulterebbe quasi del tutto incomprensibile...

Giunti a questo punto, s'affaccia alla nostra mente tutta una fitta serie di interrogativi. Il primo è il seguente: in questo modo, l'immortalità non vien forse fatta consistere in una pura grazia, benché in realtà debba spettare alla natura dell'uomo in quanto tale? O, per dirla in altri termini: non si finisce qui per approdare ad una immortalità riservata solo alle persone pie, e perciò stesso per ammettere un'inammissibile differenziazione del destino umano? Teologicamente parlando, non si scambia forse qui l'immortalità naturale della creazione umana col dono soprannaturale dell'eterno amore, che rende l'uomo beato?...

L’anima e lo “stato intermedio”

L'immortalità, che appunto a causa del suo carattere dialogico abbiamo poc'anzi chiamata col nome di 'risveglio alla vita', spetta all'uomo in quanto tale, ad ogni singolo uomo, per cui non è, affatto un dono 'soprannaturale' accordatogli in via secondaria. Resta per altro ancora da chiedersi: che cosa trasforma realmente l'uomo in autentico uomo? E qual è l'elemento che distingue e definisce l'uomo? Ed ecco ora la risposta obbligata da dare a questa domanda: la componente distintiva dell'uomo è, come testé abbiamo visto, il suo essere chiamato in causa da Dio, ossia il fatto che egli è il diretto interlocutore del dialogo con Dio, l'essere cui Dio ha rivolto il suo appello. Visto dal basso in alto, ciò significa che l'uomo è la creatura capace di pensare Dio, l'essere aperto alla trascendenza. Qui non ci si sta a domandare se egli giunga davvero a pensare Iddio, ad aprirsi effettivamente a lui; si afferma invece che egli è per principio quella creatura, che a ciò è intrinsecamente atta, quand'anche alla prova dei fatti, per qualsiasi motivo, non pervenga forse mai a tradurre in pratica questa sua sublime capacità. Si potrebbe ora obiettare: ma in fin dei conti, non è forse molto più semplice vedere la componente distintiva dell'uomo nel fatto che egli è dotato di un'anima spirituale, immortale? Questa risposta è senz'altro giusta; ma noi stiamo appunto cercando di mettere in luce il suo significato concreto. Le due affermazioni infatti non si contraddicono, ma si limitano invece solo ad esprimere la stessa cosa sotto due diversi angoli di visuale. In effetti, 'possedere un'anima' spirituale vuol dire precisamente esser tassativamente voluti, individualmente conosciuti ed amati da Dio; avere un'anima spirituale significa essere una creatura chiamata da Dio ad un perenne dialogo con lui, una creatura quindi capace a sua volta di conoscere Dio e di rispondergli. Ciò che noi - usando un linguaggio più accentuatamente sostanziale - designiamo con la frase 'possedere un'anima', viene ora da noi espresso con un linguaggio più spiccatamente storico ed attuale mediante la frase «essere un interlocutore nel dialogo con Dio». Con ciò non è detto che l'abituale parlare di anima sia falso (come propende oggi talvolta ad asserire un biblicismo unilaterale e sprovvisto di senso critico); una fraseologia del genere è sovente in un certo senso addirittura necessaria, per esprimere l'intero assunto di cui ci stiamo occupando. Ma d'altra parte essa ha anche bisogno d'integrazione, se non si vuol ricadere in una concezione dualistica incapace di render giustizia alla visione dialogica e personalistica della Bibbia.
Pertanto, quando diciamo che l'immortalità dell'uomo si fonda sulla di lui dialogica polarizzazione su Dio, il cui amore è l'unica forza capace di accordare la vita eterna, non intendiamo affermare un destino peculiare riservato unicamente alle persone buone e pie, bensì porre in evidenza l'essenziale immortalità dell'uomo in quanto tale. Ora, dopo le considerazioni da noi testé fatte, risulta senz'altro possibile sviluppare lo stesso pensiero anche applicandone i dati alla schematica corpo-anima; la cui importanza, per non dire indispensabilità, consiste proprio nel fatto che essa mette a fuoco tale carattere intrinseco dell'immortalità umana. Questa posizione però va continuamente ricollocata nella prospettiva biblica, e corretta in base ad essa, al fine di farla stabilmente servire a quella visione d'insieme che ci è stata aperta dalla fede sul futuro dell'uomo. D'altronde, al punto in cui siamo giunti, risulta ancora una volta chiaro che in definitiva non è possibile fare una netta distinzione fra 'naturale' e 'soprannaturale': il dialogo di fondo, che è il primissimo elemento da cui l'uomo vien costituito nel suo vero stato d'uomo, sfocia senza soluzione di continuità nel dialogo di grazia, che ha nome Gesù Cristo. E come potrebbe essere diversamente, se Cristo è in tutta realtà il 'secondo Adamo', l'autentico appagamento di quell'infinito anelito che prorompe dal primo Adamo, ossia dall'uomo in genere?...

Se le cose stanno come abbiamo visto, esiste davvero un corpo nato dalla risurrezione, oppure tutto quanto ce ne è stato detto si riduce unicamente ad un linguaggio cifrato, mirante a designare l'immortalità della persona? Ecco il problema che ancora attende da noi una soluzione. Non è affatto un problema nuovo. Già S.Paolo era stato tempestato da interrogativi del genere, come ce lo dimostra il 15° capitolo della I Lettera ai Corinti, in cui l'apostolo si sforza di rispondervi, almeno per quanto risulta possibile fare su uno spinoso punto come questo, che esorbita dai confini della nostra immaginazione e del mondo a noi accessibile. Molte delle immagini usate da S.Paolo per farsi intendere ci sono divenute estranee; ma la sua risposta complessiva resta pur sempre quanto di più grandioso, ardito e convincente sia mai stato detto sull'argomento. Prendiamo le mosse dal versetto 50, che a mio modesto avviso rappresenta una specie di chiave adattissima a far comprendere il tutto: «Quello che affermo, o fratelli, è che né la carne, né il sangue possono ereditare il regno di Dio, né la corruzione può ereditare l'incorruttibilità». A me sembra che quest'affermazione, nel nostro testo, assuma suppergiù la stessa importante posizione tenuta dal versetto 63 nel 6° capitolo eucaristico del vangelo di S.Giovanni; tanto più che questi due testi, apparentemente così lontani uno dall'altro, in realtà sono molto più vicini di quanto lascerebbe sospettare il primo sguardo. In Giovanni, dopo che è stata ribadita con tutta incisività la presenza reale della carne e del sangue di Gesù nell'eucaristia, si dice testualmente: «È lo spirito che vivifica; la carne non giova a nulla» (Gv5,63). Tanto nel testo giovanneo, quanto in quello paolino, tutto mira a sviluppare il realismo cristiano della 'carne'. In Giovanni vien messo in rilievo il realismo dei sacramenti, ossia il realismo della risurrezione di Gesù e della sua 'carne' che in grazia di essa viene accordata a noi; in Paolo, si tratta invece del realismo della risurrezione della 'carne', della risurrezione dei cristiani e della salvezza che in essa si realizza per noi. Ma in ambedue i capitoli vien anche posto un secco contrappunto che, di fronte ad un realismo meramente intra-mondano, d'impronta quasi fisica, mette in luce il realismo cristiano, visto come realismo che va ben oltre la fisica, come realismo dello Spirito Santo.
Su questo punto, la lingua tedesca (e le lingue moderne in genere N.d.T.) si dimostra ben lontana dalla profondità del greco biblico. In esso, il termine 'sóma' equivale a corpo, ma al contempo anche a 'soggetto'. E tale 'sóma' può indicare tanto il 'sàrx', ossia il corpo inteso in senso storico-terreno, vale a dire fisico-chimico, quanto anche il 'pneuma', che stando ai dizionari bisognerebbe tradurre con 'spirito'; in realtà, l'espressione vuol dire questo: l' 'io' stesso, che ora si presenta in un corpo fisio-chimicamente percettibile, può a sua volta apparire definitivamente sotto l'aspetto d'una realtà ultra-fisica. 'Corpo' e 'spirito', nel linguaggio di S.Paolo, non sono due realtà opposte; le realtà opposte si chiamano invece 'corpo della carne' e 'corpo vivente nello stile dello spirito'. Non occorre che ci accolliamo qui la fatica di sbrogliare i complicati problemi storici e filosofici sollevati da questo modo di considerare le cose. Una cosa dovrebbe comunque risultare per principio chiara: tanto Giovanni (6,53), quanto Paolo (1Cor15,50) sottolineano energicamente che la «risurrezione della carne», la 'risurrezione degli esseri corporei', non è affatto una 'risurrezione dei corpi'. Sicché, guardato con gli occhi della mentalità moderna, l'abbozzo tracciatoci da S.Paolo è molto meno ingenuo della successiva erudizione teologica, con tutte le sue sottili costruzioni incentrate sul problema del come possano esistere corpi eterni. Paolo - ripetiamolo ancora una volta - afferma dottrinalmente non la risurrezione dei corpi, bensì quella delle persone; e facendo poi consistere quest'ultima non nella ricostituzione dei 'corpi di carne', ossia delle strutture biologiche, che egli designa esplicitamente come impossibile («il corruttibile non può diventare incorruttibile»), bensì nella diversità specifica che caratterizza la vita della risurrezione, così come si è presentata esemplarmente a noi nel Signore risorto.
Ma allora, la risurrezione non ha proprio alcun rapporto con la materia?...

La méta agognata dal cristiano non è una beatitudine privata, bensì la realizzazione del tutto. Egli crede in Cristo; crede quindi nel futuro del mondo, non solo nel proprio futuro individuale. Sa molto bene che questo futuro ha una portata assai più vasta di quella che sarebbe in grado di dargli lui da solo. Sa inoltre che l'universo ha un senso, accordatogli dalla suprema Mente, il quale non può essere da lui distrutto. Dovrà forse per questo starsene con le mani in mano? Tutt'al contrario! Siccome sa che tutto ha un senso preciso, può e deve affrontare alacremente e senza indugio alcuno l'opera della storia, quand'anche badando al piccolo settore a lui affidato abbia la sensazione che il suo resti pur sempre un lavoro di Sisifo, e che il masso del destino umano venga continuamente e faticosamente rotolato in alto di generazione in generazione, per poi riscivolare di bel nuovo sempre in basso, rendendo così sistematicamente vane le fatiche fatte in precedenza.
Chi davvero crede, sa che si marcia sempre 'in avanti', non in un circolo vizioso. Chi crede, sa che la storia non assomiglia affatto alla tela di Penelope, continuamente ritessuta per poi venir continuamente disfatta. Potranno magari piombare anche sul cristiano gli incubi angosciosi e terrificanti dell'inutilità di tutto, dai quali il mondo precristiano è stato portato ad escogitare le sconcertanti immagini dell'angoscia causata dalla sterilità d'ogni agire umano. Ma pur nel suo incubo, penetra la voce salvifica e rianimatrice della suprema realtà: «Fatevi coraggio, io ho vinto il mondo» (Gv16,33).
(da Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, Queriniana, 1969, pp.287-297)

La parousia ed i suoi segni

Da una prima lettura del Nuovo Testamento si trae l’impressione di trovarsi qui di fronte a due posizioni opposte. Da un lato, si nota un deciso rifiuto dei segni: la venuta del Cristo è assolutamente incompatibile con il tempo della storia e con le relative leggi e, di conseguenza, non potrà mai essere prevista in base alla storia stessa...

D’altro canto a ciò sembra contraddire un filone ampio della tradizione, che parla decisamente di segni precursori del ritorno del Cristo. Jean Daniélou vede in questa contraddizione il proseguimento delle due linee differenziate della speranza veterotestamentaria, la quale, da un lato attende un Messia umano, ma dall’altro conosce pure l’attesa di una trasformazione della storia mediante il diretto e personale intervento di Dio. Solo il mistero divino-umano del Cristo – come è stato definito dal Concilio Calcedonese – consente di comprendere l’interiore unità di queste due linee e la legittimità di ciascuna di esse: in Gesù Cristo, Dio agisce come Dio con immediatezza divina, ma in Gesù Cristo Dio agisce pure come uomo con la mediazione della storia. Motivo per cui Cristo è insieme telos e peras della storia, come spiega Daniélou, usando parole greche che meglio di tutte consentono la differenziazione della realtà. Esse significano che Cristo è tanto il compimento (telos) di ogni realtà, il quale compimento è incompatibile col decorso temporale del mondo e della storia, quanto pure la fine cronologica (peras) di questo tempo. Per cui, la sua venuta è insieme l’azione esclusiva di Dio, per la quale non esistono riscontri storici e che non può essere riferita ad alcun periodo storico, e la liberazione dell’uomo, che questi non ottiene con le proprie forze, ma che non avviene neppure senza di lui e che quindi, benché non possa essere calcolata, può annunziarsi tuttavia in segni (cfr. Grillmeier-Bacht, Chalkedon III, 280-286)...

Sono due le cose che colpiscono la nostra attenzione: in primo luogo il fatto che il passaggio alla fine non appare preparato da una estrema maturità storica, ma che proprio la disgregazione interiore della storia, la sua insufficienza di fronte a ciò che è divino, la sua resistenza orientano paradossalmente al “sì” di Dio. In secondo luogo, però, ad uno sguardo anche solo superficiale alla realtà di tutti i secoli, risulta che questi “segni” possono riferirsi alla costituzione costante di questo mondo, poiché da quando esiste il mondo, esso è sempre stato lacerato da guerre e da catastrofi e nulla fa sperare che una “ricerca della pace” possa eliminare questa caratteristica fondamentale dell’umanità...

I segni... non consentono di datare la fine; tuttavia essi la mettono in relazione con la storia, in modo però da costringere ogni epoca alla vigilanza. In effetti essi dimostrano che viviamo sempre nel tempo ultimo, che il mondo si trova sempre prossimo a ciò che è “del tutto diverso” e che segnerà insieme la sua fine cronologica...

Quando Martin Heidegger, in un’intervista che può essere considerata come una sorta di testamento, opina che di fronte alla situazione in cui l’umanità si è smarrita possa salvarci soltanto più un Dio, e quando vede, di conseguenza, come unica possibilità che ci rimane quella di “tenerci già ora pronti, disponibili per l’apparire della divinità”, allora, in una simile dichiarazione postcristiano-pagana, emerge forse qualcosa di ciò di cui si tratta effettivamente: la “disponibilità dell’attesa” è in se stessa qualcosa che trasforma, e il mondo è un altro a seconda che è un’attesa del nulla o che è diretta verso Colui che esso riconosce nei suoi segni, per cui è proprio dalla disgregazione delle proprie possibilità che il mondo deriva la certezza della sua vicinanza...

Cristo viene caratterizzato in un duplice modo, ossia come detronizzatore dei vecchi domini di questo mondo; il suo irrompere significa la comparsa del vero imperatore e il suo arrivo coincide con la caduta degli elementi del mondo (Gal4,3.9; Col2,8.20; in riferimento all’attuale situazione dei cristiani; nel senso escatologico: Mt 24,29-31; 2Pt 3,10), i quali “fornivano il materiale per le antiche feste del Novilunio e del Capodanno” (Maertens, 42); e significa contemporaneamente l’inizio di un nuovo anno di Dio, dell’eterno banchetto di nozze che egli celebra con i suoi...

La Parusia costituisce l’acme, la pienezza della liturgia; la liturgia però è la Parusia, è l’evento parusiale in mezzo a noi. Inoltre vi emerge che proprio questa Chiesa, che nella liturgia appare come totalmente introspettiva, penetra invece nel più profondo centro del cosmo e opera per la sua trasformazione e liberazione...

E ulteriormente emerge l’intreccio dell’ “adesso” e del “poi”, che caratterizza il presente del cristianesimo e la sua proiezione nel futuro. La detronizzazione degli elementi del mondo è già ora avvenuta; il sole, la luna e le stelle sono di già impalliditi (cfr. Gal4,3; Col2,8) e tuttavia tutto ciò dovrà ancora accadere; la tromba della Parola chiama già ora gli uomini a raccolta e tuttavia lo dovrà ancora fare in futuro; ogni Eucarestia è Parusia, l’arrivo del Signore, eppure ogni Eucarestia fa aumentare il desiderio che egli riveli il suo splendore nascosto...

Nel toccare il Risorto, la Chiesa tocca la parusia del Signore; essa prega e vive, per così dire, proiettata nella Parusia, il cui rivelarsi non è che il definitivo rivelarsi e compiersi del mistero pasquale (R.Guardini, Der Herr, 542-548; cfr. i commenti di Bultmann e di Schnackenburg).

Il giudizio

Egli stesso afferma: “... perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (12,47), e: “Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna; la parola che ho annunziato, lo condannerà nell’ultimo giorno” (12,48). La distinzione che viene fatta tra l’operare personale del Cristo e l’efficacia della sua parola consente qui un’ultima purificazione della cristologia e del concetto di Dio. Cristo non condanna nessuno; egli è pura salvezza e chi aderisce a lui si trova nella zona della salvezza e della Grazia. La perdizione non viene decisa da lui, ma essa esiste là dove l’uomo è rimasto lontano da lui; essa nasce dal restar chiusi in se stessi. Nella parola del Cristo, che è l’offerta della salvezza, si evidenzierà che colui che è perduto ha tracciato da se medesimo il confine che lo separa dalla salvezza...

L’uomo entra con la sua morte nella pura realtà e verità e occupa ora il posto che gli compete secondo verità. La mascherata della vita, il rifugiarsi dietro posizioni e finzioni, appartiene al passato. L’uomo è quello che è in verità. In questa caduta delle maschere che si verifica nella morte consiste il giudizio. Il giudizio è semplicemente la verità stessa, il suo rivelarsi. Tuttavia questa verità non è un neutrum. Dio è la Verità, la Verità è Dio, è “persona”. Una verità che giudica, che è definitiva, può esistere soltanto se ha carattere divino; Dio è giudice, in quanto Egli stesso è la Verità. Dio però è per l’uomo la Verità come colui che si è fatto uomo, esempio e modello dell’uomo. Per cui in e per Cristo, Dio è criterio di verità per l’uomo. In ciò consiste la novità dell’interpretazione liberatrice del giudizio, la quale caratterizza la fede cristiana: la Verità che giudica l’uomo ha preso essa stessa l’iniziativa di salvarlo. Essa stessa gli ha creato una nuova verità. Come Amore, essa stessa si è sostituita a lui e gli ha dato una verità d’un tipo particolare: quella di essere amato dalla Verità...

La vera linea di confine tra la morte e la vita... non è tracciata dalla morte biologica, ma scorre tra l’ “essere-con-Colui-che-è-la-vita” e l’isolamento, che rifiuta questo “essere-con-Lui”...

Infine dobbiamo rammentare che Cristo non è solo. L’unico obiettivo dell’intera sua vita terrena fu quello di edificarsi un Corpo, di giungere alla “pienezza”. Il suo Corpo fa parte di lui. Per cui l’incontro col Cristo avviene nell’incontro con i suoi, nell’incontro con il suo Corpo; motivo per cui la nostra sorte, la nostra verità, proprio quando sia intesa nel senso teologico e cristologico, dipende dal rapporto che abbiamo instaurato con il suo Corpo e con le sue membra sofferenti; a questo riguardo i “Santi” sono “giudici”...

Ma qual è il motivo per cui si rifiutò il chiliasmo, il quale avrebbe consentito di far dell’instaurazione di condizioni parusiali un compito pratico? Ebbene, il “no” al chiliasmo significa che la Chiesa respinge la concezione di un definitivo perfezionamento della storia, ovvero che la storia possa perfezionarsi nella stessa storia. La speranza del cristiano non include quindi concetti di alcun genere di un perfezionamento della storia dentro la storia, ma esprime, al contrario, l’impossibilità di un mondo perfetto dentro la storia. I vari elementi figurativi circa la fine del mondo che troviamo nella Bibbia hanno per contenuto comune proprio quello di contraddire all’attesa di un definitivo stato di salvezza dentro la storia...

Ma la fede nel ritorno del Cristo è inoltre la certezza che, nonostante tutto, il mondo sarà salvato e ciò non per merito della razionalità programmante, ma in base all’indistruttibilità dell’Amore che ha vinto nel Cristo risorto. La fede nel ritorno del Cristo è insieme la certezza che alla fine sarà la Verità a giudicare e l’Amore a vincere. Premessa ne è il trascendimento della storia passata, trascendimento che è invocato in ultimo da questa stessa storia. La storia è perfezionabile soltanto da un fattore esterno e solo quando si accetti questo e essa venga vissuta in vista di questo trascendimento, essa potrà sperare nel proprio perfezionamento. Con ciò è lasciato spazio alla ragione, affinché operi secondo i propri criteri, ma è assicurato insieme pure lo spazio alla speranza. La salvezza del mondo si fonda sul trascendimento del mondo. Il Cristo risorto però è la certezza vivente che questo trascendimento, senza il quale il mondo resterebbe un’assurdità, non sfocia nel vuoto, ma che la storia può essere vissuta positivamente e che il nostro operare razionale, di per sé tanto povero e limitato, ha un senso.

Inferno

Inutile volerlo negare: il pensiero della dannazione eterna, che a vista d’occhio si era sviluppato nel giudaismo dei due ultimi secoli precristiani (materiale in LThk V, 445s) ricorre costantemente tanto nell’insegnamento di Gesù stesso (Mt 25,41; 5,29 par; 13,42.50; 22,13; 18,8 par; 5,22; 18,9; 8,12; 24,51; 25,30; Lc13,28) quanto negli scritti degli Apostoli (2Ts1,9;2,10; 1Ts 5,3; Rom9,22; Fi3,19; 1Cor1,18; 2Cor2,15; 4,3; 1Tm6,9; Ap14,10; 19,20; 20,10-15; 21,8). Di conseguenza il dogma poggia su un terreno solido quando parla dell’esistenza dell’inferno (DS 72; 801; 858; 1351) e dell’eternità delle sue pene (DS 411). E’ comprensibile che l’accoglienza di una simile affermazione, che contraddice tanto vistosamente a tutte le nostre idee circa Dio e l’uomo, non poteva avvenire senza suscitare forti reazioni. Fu per primo Origene a proporre (secondo frammenti trasmessi in Giustino e in Ps.-Leonzio), nel suo grande tentativo di una sistematizzazione del cristianesimo (περίαρχων), l’idea che in base alla logica di Dio circa la sua storia sarebbe stata raggiunta infine una riconciliazione universale. Tuttavia egli stesso considerava questa sua tesi piuttosto come un’ipotesi...

Sebbene rispetto al pensiero neoplatonico, che aveva accentuato esageratamente il concetto che in fondo il male sia inconsistente, nulla, e soltanto Dio la realtà, il grande alessandrino abbia sentito molto più profondamente la sinistra realtà del male, che può far soffrire e addirittura uccidere Dio, egli non ha potuto tuttavia rinunciare totalmente alla speranza che proprio in questo soffrire di Dio sia posto un limite alla realtà del male, per cui quest’ultimo abbia perduto la sua definitività...

Che cosa rimane dunque? In primo luogo la constatazione dell’assoluto rispetto che Dio mostra di avere per la libertà della sua creatura. L’amore è un dono che l’uomo riceve; è la conseguente trasformazione di ogni sua miseria, di ogni sua insufficienza; neppure il “sì” a tale amore scaturisce dall’uomo stesso, ma è provocato dalla forza di questo amore. Ma la libertà di rifiutarsi alla maturazione di questo “sì”, di non accettarlo come qualcosa di proprio, questa libertà rimane...

La particolarità del cristianesimo emerge qui nella affermazione della grandezza dell’uomo: la sua vita è un caso di estrema serietà; non tutto in definitiva può essere presentato astutamente come un momento dei disegni di Dio; esiste ciò che è irrevocabile – anche la rovina irrevocabile – per cui il cristiano deve vivere in questa consapevolezza. Questa serietà dell’essere e dell’agire dell’uomo si concretizza della croce del Cristo, la quale tuttavia illumina il nostro tema sotto due aspetti diversi: Dio soffre e muore – il male non è per lui qualcosa di irreale: per lui che è Amore, l’odio non è un nulla. Egli vince il male non nella dialettica della ragione universale, che può trasformare tutte le negazioni in affermazioni; egli non lo vince in un venerdì santo speculativo, bensì assolutamente reale. Egli stesso entra nella libertà dei peccatori e la supera con la libertà del suo amore che discende nell’abisso...

Così la parola sull’inferno ha assunto nella storia dei Santi, soprattutto degli ultimi secoli, come per esempio in san Giovanni della Croce, nella religiosità del Carmelo, e in particolare, anche in Teresa di Lisieux un significato del tutto nuovo e una forma parimenti nuova: essa non è tanto una minaccia quanto piuttosto un’esortazione a soffrire nella notte oscura della fede la comunione col Cristo proprio partecipando alla sua discesa nella notte; ad avvicinarsi alla luce del Signore condividendo con lui le sue tenebre e a servire alla salvezza del mondo, dimenticandosi per gli altri della propria salvezza. In una simile religiosità, nulla è cancellato della terrificante realtà dell’inferno; al contrario, esso è tanto reale da entrare nella stessa esistenza dell’uomo. Contro questa realtà non vi è che la speranza, la speranza che può nascere soltanto nel condividere la sofferenza di quella notte con Colui che è venuto a trasformare con la sua sofferenza la notte di tutti noi. La speranza non si basa sulla logica neutra del sistema, sulla negazione dell’importanza dell’uomo; al contrario, essa scaturisce dalla concreta volontà dell’uomo di accompagnarsi con Gesù Cristo. Ma una simile speranza non diviene un’autoaffermazione arbitraria: essa consegna la sua istanza nelle mani del Signore e l’affida a lui. Per cui il dogma conserva il suo contenuto reale; il concetto della misericordia che nell’una o nell’altra forma l’aveva accompagnato durante l’intera storia non diviene teoria, ma preghiera della fede che soffre e spera.

Purgatorio

La dottrina cattolica del purgatorio ha ricevuto la sua forma ecclesiale definitiva in quei due Concili del Medioevo che intendevano promuovere l’unione con le Chiese orientali; in seguito essa venne formulata ancora una volta in sintesi dal Concilio di Trento, in occasione delle dispute con i movimenti riformatori. Con queste constatazioni è insieme già accennato il suo luogo storico e la sua problematica ecumenica...

Nella dottrina del purgatorio la Chiesa ha conservato qualcosa dell’idea dello “stadio intermedio”: sebbene con la morte la vita dell’uomo è decisa in modo definitivo e irrevocabile (DS 1000), l’uomo non necessariamente deve raggiungere immediatamente il destino definitivo; può anche essere che la scelta di fondo d’un uomo sia in certo qual modo coperta da scelte secondarie e debba essere, per modo di dire, ancora tratta alla luce: è questo lo “stadio intermedio” che nella tradizione occidentale è definito “purgatorio”...

I greci, pur rifiutando la dottrina di una pena e di un’espiazione nell’al di là, condividono però con i Latini l’intercessione per i defunti mediante preghiere, elemosine, opere buone e anzitutto l’offerta dell’Eucarestia per i defunti (Karmiris, 116 s), mentre i riformatori vedono proprio nella “Messa funebre” un attacco contro l’efficacia espiatoria universale della morte in croce del Cristo (cfr. CA XXIV). D’altronde, pure la loro dottrina della giustificazione non lasciava spazio all’espiazione nell’al di là...

La formula più sintetica risulta quella di Trento: “Illuminata dallo Spirito Santo, attingendo dalla Sacra Scrittura e dall’antica tradizione dei Padri, la Chiesa cattolica ha insegnato nei sacri Concili e in ultimo in questa assemblea plenaria: esiste un “luogo di purificazione” (purgatorium) e le anime ivi trattenute trovano aiuto nelle intercessioni dei credenti, ma soprattutto nel sacrificio dell’altare a Dio accetto” (DS 1820). Il Concilio di Trento vi aggiunge inoltre un’esplicita esortazione ai Vescovi a opporsi energicamente a ogni cavillosità, curiosità e superstizione: la protesta dei riformatori contro la prassi corrente e i suoi abusi viene accolta e tradotta in un mandato di riforma; viene respinta la confutazione della dottrina, ottenebrata dagli abusi, e del modo d’agire religioso a essa coordinato.
Le prime radici della dottrina del purgatorio ci rinviano nuovamente, come d’altronde l’intera questione dello “stadio intermedio”, all’ambito arcaico-giudaico; in 2 Mac 12,32-46 (1° sec. a.C.) viene riferito che sui caduti ebraici erano stati trovati degli amuleti pagani, per cui la loro morte venne interpretata come punizione per l’apostasia dalla Legge. Secondo il racconto, si ricorse alla preghiera, “supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato”. Inoltre si fece una colletta che venne inviata a Gerusalemme, affinché vi fosse offerto un sacrificio espiatorio. L’autore loda un tale comportamento come espressione della fede nella resurrezione dei morti...

(Il fatto che l’ancoramento ecclesiale dell’uomo non viene interrotto o revocato dalla morte) si fonda sul pensiero paolino-giovanneo (Fi1,21; Gv3,16-21), secondo il quale la vera linea della distinzione non corre tra la vita terrena e la non-vita, bensì tra l’ “essere con Cristo” e l’essere senza di lui o contro di lui. Per cui nel battesimo è avvenuto il passaggio decisivo, il quale, benché divenga definitivo con la morte terrena, può tuttavia continuare ad approfondirsi e purificarsi oltre la soglia della morte nell’attraversare il fuoco del giudizio della vicinanza del Cristo e nell’essere parte della comunità della Chiesa tutta...

Nella nostra conversazione con i Padri avevamo incontrato 1Cor 3,10-15, dove si dice che sul fondamento posto – Gesù Cristo – gli uni costruiscono con oro o con argento oppure con pietre preziose; gli altri con legno, fieno o paglia, ma che “l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno (del Signore) che si manifesterà col fuoco e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco”. J.Gnilka ha dimostrato che questo fuoco di verifica indica il Signore stesso che viene, che esso (in riferimento a Is 66,15s) è la “raffigurazione della Maestà di Dio che si manifesta... dell’inavvicinabilità del tutto Santo” (126). Con ciò è liquidata per lui (contro J.Jeremias, in GLNT, II, 378-380) ogni interpretazione nel senso d’un purgatorio; poiché non esiste alcun fuoco: esso è il Signore; non esiste alcun tempo, perché si tratta dell’incontro escatologico con il Giudice; non esiste purificazione, ma unicamente l’affermazione che un simile uomo “sarà salvato a stento” (LThK EV, 51). Proprio accettando questa esegesi, si dovrà sincerarsi nuovamente se la sua impostazione sia giusta, oppure se anche qui il suo metro sia troppo ristretto. Premettendo un concetto semplicistico-oggettivante del purgatorio, non troveremo certamente alcuna risposta al riguardo. Ma d’altro canto possiamo anche obiettare che, proprio al contrario, il “purgatorio” diviene un concetto specificamente cristiano se lo si intende nel senso cristologico, cioè, che il Signore stesso è il fuoco giudicante, che trasforma l’uomo e lo rende “conforme” al suo Corpo glorificato (cfr. Rom 8,29; Fi3,21). Non consegue forse la vera cristianizzazione dell’immagine arcaico-giudaica del purgatorio proprio dalla conoscenza che la purificazione non avviene tramite un fattore qualsiasi, ma mediante la forza trasformante del Signore, che scioglie e fonde col suo fuoco le catene del nostro cuore e lo rimodella affinché diventi idoneo a essere inserito nell’organismo vivente del suo Corpo? E inoltre, che cosa significa concretamente l’asserzione di Gnilka, che gli uomini verrebbero salvati “a stento”? In che cosa consiste questo “a stento”? Non diviene la sua affermazione mitica se non ci dice nulla circa l’uomo stesso, circa la sua ricerca personale della salvezza, in modo che questo “a stento” non si riferisca a un fattore a lui estraneo, ma invece espressamente alla difficoltà del suo cuore di poca fede di avvicinarsi al fuoco del Signore che lo libererà da se stesso e lo purificherà perché possa ascendere a lui?

Il “momento” trasformante di questo incontro si sottrae alle misure di tempo terrene: esso non è eterno, ma un passaggio; tuttavia volerlo qualificare come molto breve o molto lungo, secondo le misure di tempo derivate dalla fisica, sarebbe altrettanto ingenuo e non farebbe alcuna differenza. La sua “misura di tempo” sta nella profondità degli abissi di questa esistenza, i quali vengono misurati a passi e trasformati nel fuoco. Voler misurare un simile tempo di “esistenza” col metro del tempo terreno significherebbe travisare la particolarità dello spirito umano nel suo rapporto col mondo e nel suo distacco da esso.

Con ciò si è ora chiarita l’interpretazione cristiana della natura del purgatorio: esso non è una sorta di campo di concentramento dell’al di là (come per Tertulliano), dove l’uomo debba espiare delle pene che gli vengono assegnate in un modo più o meno positivistico. Piuttosto, esso è quel processo necessario della trasformazione spirituale dell’uomo, che lo pone in grado di essere vicino al Cristo, vicino a Dio e di unirsi all’intera Communio sanctorum. Chi osservi l’uomo anche solo con un minimo di realismo comprenderà la necessità di un simile processo, nel quale non è che la grazia venga sostituita con le opere, ma la grazia può vincere pienamente come grazia. Ciò che salva è il “sì” alla fede. In realtà però, nella maggior parte di noi questa scelta di fondo è coperta da grandi quantità di fieno, di legna e di paglia; soltanto a fatica essa fa capolino dall’intreccio degli egoismi che l’uomo non è stato capace di rimuovere. Egli riceve sì misericordia, ma dev’essere trasformato. L’incontro con il Signore è questa trasformazione, il fuoco che lo tramuta in quella forma priva di scorie che può diventare recipiente della gioia eterna (cfr Balthasar, I novissimi nella teologia contemporanea, 47). Una simile concezione contrasterebbe con la dottrina della grazia solamente qualora la penitenza fosse in contraddizione con la grazia e non la sua forma, la possibilità gratuita che ne scaturisce.

E’ possibile che qualcun altro partecipi al processo estremamente personale dell’incontro con il Cristo, del trasformarsi di un “Io” nel fuoco della sua vicinanza? Non è questo un fatto che si svolge esclusivamente nell’intimo di quel determinato uomo, per cui non consente né sostituzione né rappresentanza? Non si fonda tutta la religiosità riguardante le anime in pena sul fatto che la loro sofferenza viene valutata in base al criterio dell’ “avere”, mentre, secondo le nostre considerazioni, si tratta invece del loro “essere”, ossia di ciò che non è delegabile? A queste obiezioni possiamo replicare che neppure l’essere dell’uomo è una monade chiusa, poiché sia nell’amore sia nell’odio l’uomo è in rapporto con gli altri, il suo essere personale è quindi presente negli altri o come colpa o come grazia. L’uomo non è mai solamente se stesso, o meglio, egli è se stesso soltanto negli altri, con gli altri e mediante gli altri. Se gli altri lo maledicono o lo benedicono, oppure se gli perdonano e tramutano la sua colpa in amore, tutto questo fa parte del suo destino personale. L’affermazione che anche i Santi “giudicano” significa che l’incontro con Cristo è un incontro con l’intero suo Corpo, un incontro della mia colpa nei confronti delle membra sofferenti di questo Corpo con il suo amore, che scaturisce da Cristo e che perdona.

Questa intercessione è l’unico e fondamentale aspetto del “giudicare” dei Santi; proprio perché giudicano, essi, come oranti e salvatori, fanno parte della dottrina del purgatorio e della rispettiva pratica cristiana...

Per il cristiano le possibilità di aiutare e di donare non si estinguono con la morte, ma coinvolgono l’intera Communio sanctorum al di qua come al di là della soglia della morte. Fin dai tempi più remoti, la possibilità e il dovere di un simile amore oltre le tombe sono stati addirittura il principio portante di questo ambito della tradizione, principio che ha trovato una prima chiara espressione in 2 Mac 12, 42-45 (forse già in Sir 7,33). Questo principio di fondo non è nemmeno mai stato fatto oggetto di controversie tra l’Occidente e l’Oriente e fu messo in discussione (certamente a motivo di pratiche in parte gravemente devianti) soltanto dalle confessioni riformate. Forse qui potrebbe essere individuato pure il cammino dell’ecumene, almeno tra l’Oriente e l’Occidente, riguardo al nostro problema: la pratica del “potere e del dovere pregare” è ciò che è veramente primaria; mentre in una unione delle Chiese l’interpretazione del suo corrispondente nell’al di là non ha bisogno di essere stabilita in modo unitario e vincolante, sebbene, come è stato dimostrato, il contenuto e i motivi della dottrina occidentale siano ancorati nella più antica tradizione e in principi centrali della fede.

Paradiso

Il “cielo” è anzitutto determinato dalla cristologia. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo quale Dio è uomo e ha dato all’essere umano un posto nell’essere stesso di Dio (cfr. Rahner, La risurrezione della carne, 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio. Per cui il cielo è primariamente una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della Morte e della Resurrezione. Da questo centro cristologico si possono derivare tutte le altre componenti del cielo definite tali dalla tradizione. Dall’affermazione cristologica consegue anzitutto un’affermazione teo-logica: il Cristo trasfigurato continua a consegnarsi incessantemente al Padre, egli è questa autoconsegna; il sacrificio pasquale è in lui un perenne presente. Il “cielo”, inteso come un “divenire uno” col Cristo, ha quindi il carattere dell’adorazione; in esso è realizzato il contenuto profetico di ogni culto: Cristo è il Tempio escatologico (Gv 2,19), il cielo è la nuova Gerusalemme, il luogo cultuale di Dio. Al movimento dell’umanità che unita al Cristo tende al Padre corrisponde il movimento inverso dell’amore di Dio che si dona all’uomo. Per cui nella sua forma di perfezione celeste il culto include l’inscindibile immediatezza tra Dio e l’uomo, che dalla tradizione teologica viene definita “contemplazione di Dio”...

L’affermazione cristologica include però anche un momento ecclesiologico: se il cielo è fondato sull’inserimento dell’uomo nel Cristo, ne segue che esso comporta pure la comunione con tutti coloro che insieme formano l’unico Corpo di Cristo. Il cielo non conosce infatti alcun isolamento; esso è l’aperta comunità dei Santi e quindi anche la pienezza di ogni umana convivenza quale conseguenza della totale apertura per il volto di Dio. Su questa conoscenza si fonda il culto cristiano dei Santi, che non presuppone un’onniscienza mitica dei Santi, bensì semplicemente l’apertura tra le varie membra dell’intero Corpo di Cristo e l’illimitata vicinanza dell’amore che è certo di raggiungere Dio nell’altro e l’altro in Dio. Ne deriva quindi pure una componente antropologica: il fondersi dell’ “Io” con il Corpo di Cristo, il farsi strumento del Signore e degli altri non significa un dissolvimento dell’ “Io”, bensì la sua purificazione, che realizza insieme le sue più alte possibilità. Per questo motivo il cielo è per ciascuno individuale. Ognuno vede Dio a suo modo, ognuno riceve l’amore del Tutto nella sua inconfondibilie unicità: “Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve” (Ap 2,17). Da qui si può comprendere che nel Nuovo Testamento (come nell’intera tradizione) il cielo è chiamato, da un lato, “ricompensa” – il che significa la risposta a quella determinata via, a quella determinata vita, a quel determinato uomo, al suo personale agire a soffrire – ma significa insieme che esso è la Grazia dell’Amore donato. La scolastica ha sistematizzato ulteriormente queste conoscenze, parlando (accogliendo in parte tradizioni molto antiche) di una particolare “corona” destinata a martiri, vergini e dottori. Riguardo a simili affermazioni siamo oggi più cauti: ci basta sapere che Dio sarà la pienezza per ognuno a suo modo e che lo riempirà oltre ogni immaginazione. Ciò che consegue da simili considerazioni non può quindi essere un’indicazione d’un privilegio di questa o di quell’altra via, ma è l’impegno di dilatare il più possibile il recipiente della propria vita e questo non per garantire a se stessi un più cospicuo tesoro nell’al di là, ma per poter distribuire di più; poiché nella communio del Corpo di Cristo si può possedere soltanto nel dare; la ricchezza della perfezione può consistere solamente nel donare agli altri.
(da Joseph Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, vol.9 della collana diretta da Johann Auer-Joseph Ratzinger, Piccola Dogmatica Cattolica, Assisi, Cittadella Editrice, 1996, pagg.204-245)

Unzione degli infermi, cremazione...

Al termine della nostra esistenza, madre Chiesa si sforza di facilitarci il distacco da questo mondo, offrendo ai suoi figli il Sacramento della morte, che una volta si chiamava «Estrema Unzione».
...E se si chiedeva a qualcuno se lo voleva ricevere, questi rifiutava inesorabilmente perché non voleva rassegnarsi all'idea di trovarsi in procinto di morire.
Il concetto di «estrema unzione», che era un vero incubo per i malati, è stato sostituito da tempo, consapevolmente e a ragione da quello di «unzione degli infermi» per evitare che l'arrivo di un sacerdote per il conferimento del Sacramento venisse interpretato dal malato come preannuncio di morte certa.
In effetti l'unzione degli infermi può sorreggere il malato in un processo psichico che in determinate circostanze può risolversi anche in un processo di guarigione fisica. Rappresenta l'assistenza sacramentale della Chiesa nell'istante della malattia. La questione della morte passa in secondo piano. Il vero viatico è invece l'Eucaristia. Con le preghiere e le benedizioni del moribondo, con la rinnovata assoluzione la Chiesa offre a chi sta per spegnersi consolazioni specifiche. Sono tentativi di sorreggere il moribondo nel momento di un passaggio difficile, di aiutarlo a varcare quella soglia sinistra oltre la quale c'è un buio che pare non essere rischiarato da alcuna luce.
L'unzione degli infermi è invece un aiuto ad accettare la sofferenza. Deve aiutarmi a conseguire la comunione sacramentale con Cristo grazie alla trasfigurazione del dolore, della sofferenza. Non si tratta quindi necessariamente di guarigione fisica. Perché la malattia può anche sanarmi interiormente, può addirittura essere necessaria da questo punto di vista. Cristo, insegnandomi a soffrire e condividendo la mia sofferenza, può essere il mio vero medico, capace di aiutarmi a vincere l'infermità più profonda della mia anima.

La fede dovrebbe spingerci a rallegrarci della morte: «Vivere è morire, morire è vivere». Ci attende pur sempre la vita eterna.
Sì, ma ogni temperamento è diverso dall'altro. Quando Agostino giaceva in punto di morte, era tormentato dal ricordo dei suoi peccati. Perciò aveva fatto affiggere alle pareti della stanza salmi d'espiazione per averli sempre dinanzi agli occhi e interiorizzarli profondamente. Si era persino autoescluso per qualche tempo dalla Comunione e si era investito della condizione del penitente. Pensava al suo padre spirituale, Ambrogio, che era spirato con una grande serenità interiore e diceva: a lui che era grande, è spettato questo dono; io sono un altro genere d'uomo, io non ho avuto questo dono, io ho bisogno di espiare umilmente, nella speranza che il Signore voglia accogliermi.
Ma direi che è anche un compito dell'educazione alla fede cristiana e della predicazione, infondere nell'uomo la fiducia con cui andare incontro, con la morte, alla vera vita. In questo modo lo si può anche aiutare a superare la paura dell'incognito o almeno la paura fisica della fine e porre le condizioni per una morte serena.

È lecito farsi cremare o è un rito pagano?
Già presso gli ebrei era sconosciuta la cremazione, a differenza che in altre culture dell'area del Mediterraneo. Consideravano la sepoltura come un seme da cui sarebbe un giorno fiorita la risurrezione. Anche i cristiani hanno fatto proprio questo costume. Nell'inumazione era ed è implicita una tacita confessione di speranza nella risurrezione. Fino al Concilio Vaticano II la cremazione era sanzionata. Poi, in considerazione delle condizioni del mondo attuale, la Chiesa vi ha rinunciato. La confessione di fede nella risurrezione non deve necessariamente avvenire in questa forma, perché Dio ci dovrà comunque dare un corpo nuovo: così la cremazione nel frattempo è stata ammessa. Devo dire che sono sufficientemente retrò per continuare a considerare l’inumazione come l’autentica espressione cristiana del rispetto per i defunti e per il corpo umano e della speranza in un futuro dopo la morte.

Lei ha detto che Dio ci darà nell'aldilà un corpo nuovo: significa che nessuno avrà l'aspetto che aveva quando era in vita?
La risurrezione nel giorno del giudizio è da questo punto di vista una nuova creazione, in cui però viene preservata l'identità di ogni singolo individuo, che si compone di corpo e di anima. San Tommaso dice inoltre che l'anima è la forza che plasma il corpo, è essa a creare il corpo. L'identità significa dunque che l'anima, ridestata a nuova vita dalla risurrezione, riacquista la sua capacità di plasmare il corpo e si costruisce quindi un corpo intimamente identico. Mi pare però gratuito speculare (su questo).

Concretamente, mio fratello è morto all'età di 14 anni: dove si trova ora?
Presso Dio. Dobbiamo rinunciare a servirci di categorie di localizzazione materiale. Così come non possiamo localizzare Dio in un certo punto dell'universo, anche i defunti hanno un rapporto di tipo diverso con la materialità. Il rapporto che ha Dio con lo spazio materiale è improntato alla pervasività. Parlavamo dei diversi gradi di prossimità a Dio, che non sono condizionati dalla vicinanza spaziale, e dicevamo che analogamente anche l'anima, il principio spirituale nell'uomo, non ha una sede specifica come un qualsiasi organo fisico, ma determina la totalità dell'individuo. In modo analogo anche il defunto partecipa con Dio di un altro rapporto con lo spazio, non definibile secondo categorie fisiche.
Molti hanno persino affermato che i defunti si trattengono in prossimità della tomba, il che mi pare un po' lugubre. No, essi si sono lasciati alle spalle questa forma di spazialità materiale per entrare in un altro rapporto con lo spazio che si fonda sulla superiorità di Dio rispetto alle categorie spaziali usuali. Fa parte anche della nostra esperienza l'empatia mentale che si crea talvolta tra persone divise magari da un oceano. Lì avvertiamo una traccia di quella superiorità alla dimensione spaziale, di quest'altra forma di spazialità che è quella della prossimità spirituale. In ogni caso dobbiamo liberarci dall'idea che il defunto sia localizzabile in un punto geografico definito. Dovremmo invece dire che è presso Dio, con il che si esprime la sua prossimità, in una modalità nuova, alla realtà dell'universo e anche a noi stessi.

Noi uomini siamo curiosi, ci piacerebbe sapere com'è il paradiso. Le Sacre Scritture possono illuminarci su ciò che ci aspetta?
Anche le Scritture ne parlano con linguaggio metaforico. Vi alludono ad esempio con l'immagine della liturgia celeste, secondo cui la nuova spazialità è segnata dall'estasi di questa che è la vera liturgia, e anche i canti e il librarsi in volo sono immagini simboliche.
Tutto ciò può però anche essere frainteso. Conosciamo tutti l'apologo di quel bavarese che giunge in paradiso e non riesce più a sopportare i canti di lode che riempiono il cielo per l'eternità. Mi pare importante far notare come, in questa nuova condizione, non cambiano solo le categorie spaziali ma anche quelle temporali. Se ci immaginiamo il paradiso come un tempo infinitamente lungo, si può far strada l'idea dell'insopportabilità dell'eternità. Ma, se ci si spoglia della nostra abituale comprensione del tempo che scorre, ora dopo ora, giorno dopo giorno, a sua volta legato al movimento rotatorio degli astri, per abbracciare invece una nuova idea della condivisione personale, allora anche questa forma di successione eterna viene meno per lasciare spazio a un unico momento di grande gioia.
Dovremmo perciò immaginarci l'eternità secondo la categoria della pienezza di un istante al di là del tempo.

Lei donerebbe gli organi?
Sì, per quanto supponga che i miei vecchi organi non siano più di grande utilità.
(da Joseph Ratzinger, Dio e il mondo. In colloquio con Peter Seewald, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001, pagg.395-401 )

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