N.B. I titoli ed i neretti sono redazionali e funzionali al commento sviluppato nella catechesi. Anche la disposizione dei testi non segue un ordine cronologico, ma è relativa alla successione dei temi così come è stata organizzata per la catechesi di S.Melania. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi brani non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
L’Areopago (06.05.2006)
Ci troviamo di fronte a due diverse visioni d’insieme (la concezione
greca e quella biblica), che non si possono assolutamente addizionare l’una
all’altra: l’idea che in esse ci si fa dell’uomo, di Dio e del futuro, sono
completamente differenti, per cui in fondo ciascuna delle due visioni va considerata unicamente
come un tentativo di dare una risposta totale al problema del destino umano. La concezione
greca si basa sull'idea che nell'uomo risultino giustapposte due sostanze intrinsecamente
estranee fra loro, di cui l'una (il corpo) è destinata a dissolversi, mentre l'altra
(l'anima) è di per sé imperitura, ragion per cui di suo stesso impulso,
indipendentemente da qualsiasi altro essere, continua a sussistere. Anzi, sarà proprio
nella separazione dal corpo totalmente estraneo alla sua natura, che l'anima perverrà al
suo stadio tipico e perfetto.
Viceversa, il pensiero biblico dà per presupposta l'inscindibile unità
dell'uomo; tanto per fare un esempio, la Scrittura non conosce alcun termine che indichi
soltanto il corpo (separato e distinto dall'anima), ma anzi per essa anche il solo termine
‘anima’ denota nell'assoluta maggioranza dei casi l'intero uomo, esistente pure col
corpo; i pochi passi in cui si delinea una visione diversa, rimangono in certo qual modo
nel vago, oscillando tra il pensiero greco e quello ebraico, senza comunque intaccare l'antica
visione delle cose. La risurrezione dei morti (non dei corpi!) di cui parla la Scrittura, si
riferisce quindi alla salvezza dell'unico ed indiviso uomo, non quindi soltanto ad
una mera metà (magari addirittura secondaria) dello stesso. Appare adesso chiaro che
il nucleo centrale della fede nella risurrezione non sta affatto nell'idea della
restituzione dei corpi, alla quale l'abbiamo ridotto nel nostro modo di pensare; ciò
rimane assodato, quantunque tale idea immaginifica venga correntemente usata nella Bibbia. Ma
vediamo un po': qual è il vero contenuto di ciò che la Bibbia intende annunziare
agli uomini mediante la cifra della risurrezione dei morti, presentandola loro come oggetto di
speranza?
Ritengo che si possa enuclearlo, meglio di tutto, mettendoci a raffronto con la concezione
dualistica della filosofia antica.
1. L'idea d'immortalità espressa dalla Bibbia col ribadire la risurrezione
sottintende un'immortalità della persona, dell'unico impasto umano. Mentre nel
mondo greco il tipico essere umano è un prodotto della disintegrazione, che come tale
non sopravvive, ma per colpa della sua eterogenea costituzione composta di corpo ed anima
batte due vie diverse, in base alla fede biblica è invece proprio questo essere detto
uomo che continua a sussistere in quanto tale, sebbene trasfigurato.
2. Si tratta d'una immortalità ‘dialogica’ (risurrezione,
richiamo alla vita!); è quanto a dire che l’immortalità non fluisce
semplicemente dall'ovvia facoltà del non-poter-morire, da cui è caratterizzato
quest'essere indivisibile, ma scaturisce invece dall'azione salvifica di colui che ci ama ed ha
il potere di compiere anche questo: l'uomo non può sparire totalmente, perché
è conosciuto ed amato da Dio. Se ogni amore anela all'eternità, l'amore di
Dio non solo la brama, ma la realizza e la impersona. Ed effettivamente, il pensiero
biblico della risurrezione nasce direttamente da questo motivo dialogico: chi prega, sa per via
di fede che Iddio ristabilirà la giustizia (Giobbe19,25 ss.; Sal73,23 ss.); la
fede è convinta che coloro i quali hanno sofferto per la causa di Dio, condivideranno
anche l'adempimento della promessa (2 Macc. 7,9 ss.). Siccome l'immortalità
presentataci dalla Bibbia non proviene dal potere autonomo del soggetto di per sé
indistruttibile, bensì dal suo esser incluso nel dialogo col creatore, essa deve
necessariamente chiamarsi risurrezione (richiamo alla vita). Siccome poi il creatore
avvince a sé non soltanto l'anima, bensì l'intero uomo che si realizza nella
corporeità della storia, accordando proprio a lui l'immortalità, essa deve
chiamarsi risurrezione dei morti, ossia degli uomini. Occorre far notare qui come anche nella
formula usuale del nostro attuale Simbolo, che parla di «risurrezione della
carne», il termine 'carne' equivalga a 'mondo degli uomini' (nel senso inteso dal
linguaggio biblico, quando ci dice ad esempio: «Ogni carne vedrà la
salvezza di Dio», ecc.); anche qui perciò, il termine non sottintende affatto una
corporeità isolata dall'anima.
3. Il fatto che la risurrezione sia attesa per gli 'ultimissimi giorni', alla fine
della storia e in compagnia di tutti gli altri uomini, dimostra il carattere profondamente
umanitario della immortalità umana, la quale sta in relazione con l'umanità presa
nel suo complesso, di cui, per cui e con cui il singolo individuo è vissuto,
derivandone ora la beatitudine o l'eterna infelicità. In fondo, questa connessione
fluisce automaticamente dal carattere genericamente umano dell'idea biblica
d'immortalità. L'anima intesa alla maniera greca risulta completamente estranea al
corpo, e quindi anche alla storia; essa esiste svincolata da tali ceppi, e per farlo non
abbisogna di alcun altro essere. Viceversa, per l'uomo inteso come compatta unità, la
vita comunitaria è costitutiva; se egli deve sopravvivere, questa dimensione
della sua natura non può rimanere esclusa. Sicché, movendo dallo spunto
biblico fondamentale, la dibattutissima questione se dopo la morte possa darsi una comunione
vicendevole fra gli uomini appare automaticamente risolta; in definitiva, il quesito potrebbe
insorgere unicamente in conseguenza d'un prevalere dell'elemento greco sull'impostazione del
pensiero: quando si crede la «comunione dei santi», l'idea di 'anima separata' (di
cui parla la teologia scolastica) risulta ormai superata.
Tutti questi pensieri ebbero modo di espandersi, in tutto il loro rigoglio, unicamente nella
concretizzazione della speranza biblica propugnata dal Nuovo Testamento; l'Antico Testamento,
preso isolatamente, lascia in sostanza il problema concernente il futuro dell'uomo del tutto in
sospeso. Soltanto con Cristo, l'uomo che «forma una sola cosa col Padre», l'uomo
grazie al quale la natura dell'uomo è entrata nell'eternità di Dio, l'avvenire
dell'uomo si presenta definitivamente aperto. Solo in lui, nel 'secondo Adamo', quel problema
costituito dall'uomo stesso s'avvia ad ottenere una risposta. Cristo è uomo, tipicamente
e integralmente uomo; pertanto, è presente anche in lui il problema rappresentato da noi
uomini. Egli è però al contempo anche allocuzione di Dio a noi, 'Verbo di Dio'.
Il dialogo fra Dio e l'uomo, che sin dai primordi della storia va a tentoni qua e là,
è entrato con lui in uno stadio nuovo: in lui, il Verbo di Dio si è fatto
`carne', inserendosi realmente nella nostra esistenza. Ora, se il dialogo intavolato da Dio con
l'uomo produce la vita, se è vero che l'interlocutore dialogante con Dio, appunto grazie
al suo esser apostrofato da colui che vive eternamente, consegue egli stesso la vita, allora
ciò significa che Cristo stesso, nella sua qualità di Verbo a noi diretto da Dio,
è davvero «la risurrezione e la vita» (Gv11,25). Ciò
significa inoltre che il proiettarsi in Cristo, ossia l'aver fede, diventa in senso specifico
un addentrarsi in quell'esser conosciuti ed amati da Dio stesso, che costituisce davvero
l'immortalità: «Chi crede nel Figlio, ha la vita eterna»
(Gv3,15 ss.; 3,36; 5,24). Solo movendo da queste posizioni, è possibile
comprendere la linea di pensiero seguita dal quarto evangelista, il quale, narrandoci la
vicenda di Lazzaro, vuol far intendere al lettore che il risorgere non è solo un
evento ancor lontano, relegato alla fine dei tempi, bensì un fatto che grazie alla fede
si verifica pure adesso. Chi crede è impegnato in un dialogo con Dio, in un colloquio
che è vita ed ha ormai partita vinta sulla morte. In tal modo, vengono a coincidere
fra loro anche la linea `dialogica', risalente per via diretta a Dio, e la linea comunitaria
umana del pensiero biblico concernente l'immortalità. In effetti, nel Cristo fattosi
uomo, noi incontriamo Dio; in lui però ritroviamo anche la comunanza con gli altri, il
cui itinerario a Dio passa attraverso lui, affiancandosi quindi al nostro. La polarizzazione su
Dio costituisce in lui al contempo anche una polarizzazione sulla comunità degli uomini;
sicché, soltanto l'accettazione di questa nota comunitaria rappresenta davvero un
accostamento a Dio, il quale per noi non esiste avulso da Cristo, e quindi nemmeno avulso dal
contesto dell'intera vicenda storica umana e dei suoi compiti umanitari.
Risulta così chiarita anche la questione, assai dibattuta ai tempi dei Padri e
nuovamente da Lutero in poi, del cosiddetto «stato intermedio» delle anime
tra la morte e la risurrezione: l'essere uniti a Cristo, reso possibile* dalla
fede, è già un'iniziale vita di risurrezione che ha ormai vinto la morte
(Fil1,23; 2Cor5,8; 1Tess5,10). Il dialogo instaurato nella fede
è già sin d'ora vita: una vita che non potrà mai venir troncata dalla
morte. Pertanto, l'idea del sonno della morte, continuamente ribadita dai teologi luterani e
recentemente rispolverata anche dal catechismo olandese, in base al Nuovo Testamento non si
può affatto sostenere, e nemmeno giustificare appellandosi al frequente ricorrere
del verbo 'dormire' nello stesso Nuovo Testamento. La mentalità ispiratrice del Nuovo
Testamento si oppone per principio e in ogni suo scritto ad un'interpretazione del genere, che
del resto, anche tenendo presente il pensiero sulla vita d'oltretomba venuto ad affermarsi nel
tardo ebraismo, risulterebbe quasi del tutto incomprensibile...
Giunti a questo punto, s'affaccia alla nostra mente tutta una fitta serie di interrogativi. Il
primo è il seguente: in questo modo, l'immortalità non vien forse fatta
consistere in una pura grazia, benché in realtà debba spettare alla natura
dell'uomo in quanto tale? O, per dirla in altri termini: non si finisce qui per approdare
ad una immortalità riservata solo alle persone pie, e perciò stesso per ammettere
un'inammissibile differenziazione del destino umano? Teologicamente parlando, non si scambia
forse qui l'immortalità naturale della creazione umana col dono soprannaturale
dell'eterno amore, che rende l'uomo beato?...
L'immortalità, che appunto a causa del suo carattere dialogico
abbiamo poc'anzi chiamata col nome di 'risveglio alla vita', spetta all'uomo in quanto tale, ad
ogni singolo uomo, per cui non è, affatto un dono 'soprannaturale' accordatogli
in via secondaria. Resta per altro ancora da chiedersi: che cosa trasforma realmente l'uomo
in autentico uomo? E qual è l'elemento che distingue e definisce l'uomo? Ed ecco ora la
risposta obbligata da dare a questa domanda: la componente distintiva dell'uomo è,
come testé abbiamo visto, il suo essere chiamato in causa da Dio, ossia il fatto che
egli è il diretto interlocutore del dialogo con Dio, l'essere cui Dio ha rivolto il suo
appello. Visto dal basso in alto, ciò significa che l'uomo è la creatura capace
di pensare Dio, l'essere aperto alla trascendenza. Qui non ci si sta a domandare se egli giunga
davvero a pensare Iddio, ad aprirsi effettivamente a lui; si afferma invece che egli è
per principio quella creatura, che a ciò è intrinsecamente atta, quand'anche alla
prova dei fatti, per qualsiasi motivo, non pervenga forse mai a tradurre in pratica questa sua
sublime capacità. Si potrebbe ora obiettare: ma in fin dei conti, non è forse
molto più semplice vedere la componente distintiva dell'uomo nel fatto che egli
è dotato di un'anima spirituale, immortale? Questa risposta è senz'altro giusta;
ma noi stiamo appunto cercando di mettere in luce il suo significato concreto. Le due
affermazioni infatti non si contraddicono, ma si limitano invece solo ad esprimere la stessa
cosa sotto due diversi angoli di visuale. In effetti, 'possedere un'anima' spirituale vuol dire
precisamente esser tassativamente voluti, individualmente conosciuti ed amati da Dio; avere
un'anima spirituale significa essere una creatura chiamata da Dio ad un perenne dialogo con
lui, una creatura quindi capace a sua volta di conoscere Dio e di rispondergli. Ciò che
noi - usando un linguaggio più accentuatamente sostanziale - designiamo con la frase
'possedere un'anima', viene ora da noi espresso con un linguaggio più spiccatamente
storico ed attuale mediante la frase «essere un interlocutore nel dialogo con
Dio». Con ciò non è detto che l'abituale parlare di anima sia falso
(come propende oggi talvolta ad asserire un biblicismo unilaterale e sprovvisto di senso
critico); una fraseologia del genere è sovente in un certo senso addirittura
necessaria, per esprimere l'intero assunto di cui ci stiamo occupando. Ma d'altra parte essa ha
anche bisogno d'integrazione, se non si vuol ricadere in una concezione dualistica incapace
di render giustizia alla visione dialogica e personalistica della Bibbia.
Pertanto, quando diciamo che l'immortalità dell'uomo si fonda sulla di lui dialogica
polarizzazione su Dio, il cui amore è l'unica forza capace di accordare la vita eterna,
non intendiamo affermare un destino peculiare riservato unicamente alle persone buone e pie,
bensì porre in evidenza l'essenziale immortalità dell'uomo in quanto tale. Ora,
dopo le considerazioni da noi testé fatte, risulta senz'altro possibile sviluppare lo
stesso pensiero anche applicandone i dati alla schematica corpo-anima; la cui importanza, per
non dire indispensabilità, consiste proprio nel fatto che essa mette a fuoco tale
carattere intrinseco dell'immortalità umana. Questa posizione però va
continuamente ricollocata nella prospettiva biblica, e corretta in base ad essa, al fine di
farla stabilmente servire a quella visione d'insieme che ci è stata aperta dalla fede
sul futuro dell'uomo. D'altronde, al punto in cui siamo giunti, risulta ancora una volta chiaro
che in definitiva non è possibile fare una netta distinzione fra 'naturale' e
'soprannaturale': il dialogo di fondo, che è il primissimo elemento da cui l'uomo vien
costituito nel suo vero stato d'uomo, sfocia senza soluzione di continuità nel dialogo
di grazia, che ha nome Gesù Cristo. E come potrebbe essere diversamente, se Cristo
è in tutta realtà il 'secondo Adamo', l'autentico appagamento di quell'infinito
anelito che prorompe dal primo Adamo, ossia dall'uomo in genere?...
Se le cose stanno come abbiamo visto, esiste davvero un corpo nato dalla risurrezione,
oppure tutto quanto ce ne è stato detto si riduce unicamente ad un linguaggio
cifrato, mirante a designare l'immortalità della persona? Ecco il problema
che ancora attende da noi una soluzione. Non è affatto un problema nuovo.
Già S.Paolo era stato tempestato da interrogativi del genere, come ce
lo dimostra il 15° capitolo della I Lettera ai Corinti,
in cui l'apostolo si sforza di rispondervi, almeno per quanto risulta possibile
fare su uno spinoso punto come questo, che esorbita dai confini della nostra
immaginazione e del mondo a noi accessibile. Molte delle immagini usate da S.Paolo
per farsi intendere ci sono divenute estranee; ma la sua risposta complessiva
resta pur sempre quanto di più grandioso, ardito e convincente sia mai
stato detto sull'argomento. Prendiamo le mosse dal versetto 50, che a mio
modesto avviso rappresenta una specie di chiave adattissima a far comprendere
il tutto: «Quello che affermo, o fratelli, è che né la
carne, né il sangue possono ereditare il regno di Dio, né la corruzione
può ereditare l'incorruttibilità». A me sembra che quest'affermazione,
nel nostro testo, assuma suppergiù la stessa importante posizione tenuta
dal versetto 63 nel 6° capitolo eucaristico del vangelo di S.Giovanni; tanto
più che questi due testi, apparentemente così lontani uno dall'altro,
in realtà sono molto più vicini di quanto lascerebbe sospettare
il primo sguardo. In Giovanni, dopo che è stata ribadita con tutta incisività
la presenza reale della carne e del sangue di Gesù nell'eucaristia, si
dice testualmente: «È lo spirito che vivifica; la carne non
giova a nulla» (Gv5,63). Tanto nel testo giovanneo, quanto
in quello paolino, tutto mira a sviluppare il realismo cristiano della 'carne'.
In Giovanni vien messo in rilievo il realismo dei sacramenti, ossia il realismo
della risurrezione di Gesù e della sua 'carne' che in grazia di essa
viene accordata a noi; in Paolo, si tratta invece del realismo della risurrezione
della 'carne', della risurrezione dei cristiani e della salvezza che in essa
si realizza per noi. Ma in ambedue i capitoli vien anche posto un secco contrappunto
che, di fronte ad un realismo meramente intra-mondano, d'impronta quasi fisica,
mette in luce il realismo cristiano, visto come realismo che va ben oltre
la fisica, come realismo dello Spirito Santo.
Su questo punto, la lingua tedesca (e le lingue moderne in genere N.d.T.) si dimostra ben
lontana dalla profondità del greco biblico. In esso, il termine 'sóma'
equivale a corpo, ma al contempo anche a 'soggetto'. E tale 'sóma' può
indicare tanto il 'sàrx', ossia il corpo inteso in senso storico-terreno, vale a
dire fisico-chimico, quanto anche il 'pneuma', che stando ai dizionari bisognerebbe
tradurre con 'spirito'; in realtà, l'espressione vuol dire questo: l' 'io' stesso, che
ora si presenta in un corpo fisio-chimicamente percettibile, può a sua volta apparire
definitivamente sotto l'aspetto d'una realtà ultra-fisica. 'Corpo' e 'spirito', nel
linguaggio di S.Paolo, non sono due realtà opposte; le realtà opposte si chiamano
invece 'corpo della carne' e 'corpo vivente nello stile dello spirito'. Non occorre che ci
accolliamo qui la fatica di sbrogliare i complicati problemi storici e filosofici sollevati da
questo modo di considerare le cose. Una cosa dovrebbe comunque risultare per principio chiara:
tanto Giovanni (6,53), quanto Paolo (1Cor15,50) sottolineano energicamente che la
«risurrezione della carne», la 'risurrezione degli esseri corporei', non
è affatto una 'risurrezione dei corpi'. Sicché, guardato con gli occhi
della mentalità moderna, l'abbozzo tracciatoci da S.Paolo è molto meno ingenuo
della successiva erudizione teologica, con tutte le sue sottili costruzioni incentrate sul
problema del come possano esistere corpi eterni. Paolo - ripetiamolo ancora una volta -
afferma dottrinalmente non la risurrezione dei corpi, bensì quella delle persone;
e facendo poi consistere quest'ultima non nella ricostituzione dei 'corpi di carne', ossia
delle strutture biologiche, che egli designa esplicitamente come impossibile («il
corruttibile non può diventare incorruttibile»), bensì nella
diversità specifica che caratterizza la vita della risurrezione, così come si
è presentata esemplarmente a noi nel Signore risorto.
Ma allora, la risurrezione non ha proprio alcun rapporto con la materia?...
La méta agognata dal cristiano non è una beatitudine privata, bensì la
realizzazione del tutto. Egli crede in Cristo; crede quindi nel futuro del mondo, non solo nel
proprio futuro individuale. Sa molto bene che questo futuro ha una portata assai più
vasta di quella che sarebbe in grado di dargli lui da solo. Sa inoltre che l'universo ha un
senso, accordatogli dalla suprema Mente, il quale non può essere da lui distrutto.
Dovrà forse per questo starsene con le mani in mano? Tutt'al contrario! Siccome sa che
tutto ha un senso preciso, può e deve affrontare alacremente e senza indugio alcuno
l'opera della storia, quand'anche badando al piccolo settore a lui affidato abbia la sensazione
che il suo resti pur sempre un lavoro di Sisifo, e che il masso del destino umano venga
continuamente e faticosamente rotolato in alto di generazione in generazione, per poi
riscivolare di bel nuovo sempre in basso, rendendo così sistematicamente vane le fatiche
fatte in precedenza.
Chi davvero crede, sa che si marcia sempre 'in avanti', non in un circolo vizioso. Chi crede,
sa che la storia non assomiglia affatto alla tela di Penelope, continuamente ritessuta per poi
venir continuamente disfatta. Potranno magari piombare anche sul cristiano gli incubi
angosciosi e terrificanti dell'inutilità di tutto, dai quali il mondo precristiano
è stato portato ad escogitare le sconcertanti immagini dell'angoscia causata dalla
sterilità d'ogni agire umano. Ma pur nel suo incubo, penetra la voce salvifica e
rianimatrice della suprema realtà: «Fatevi coraggio, io ho vinto il mondo»
(Gv16,33).
(da Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, Queriniana, 1969,
pp.287-297)
Da una prima lettura del Nuovo Testamento si trae l’impressione di
trovarsi qui di fronte a due posizioni opposte. Da un lato, si nota un deciso rifiuto dei
segni: la venuta del Cristo è assolutamente incompatibile con il tempo della storia e
con le relative leggi e, di conseguenza, non potrà mai essere prevista in base alla
storia stessa...
D’altro canto a ciò sembra contraddire un filone ampio della tradizione, che
parla decisamente di segni precursori del ritorno del Cristo. Jean Daniélou vede in
questa contraddizione il proseguimento delle due linee differenziate della speranza
veterotestamentaria, la quale, da un lato attende un Messia umano, ma dall’altro
conosce pure l’attesa di una trasformazione della storia mediante il diretto e personale
intervento di Dio. Solo il mistero divino-umano del Cristo – come è
stato definito dal Concilio Calcedonese – consente di comprendere l’interiore
unità di queste due linee e la legittimità di ciascuna di esse: in
Gesù Cristo, Dio agisce come Dio con immediatezza divina, ma in Gesù Cristo Dio
agisce pure come uomo con la mediazione della storia. Motivo per cui Cristo è insieme
telos e peras della storia, come spiega Daniélou, usando parole greche
che meglio di tutte consentono la differenziazione della realtà. Esse significano che
Cristo è tanto il compimento (telos) di ogni realtà, il quale
compimento è incompatibile col decorso temporale del mondo e della storia, quanto
pure la fine cronologica (peras) di questo tempo. Per cui, la sua venuta è
insieme l’azione esclusiva di Dio, per la quale non esistono riscontri storici e che non
può essere riferita ad alcun periodo storico, e la liberazione dell’uomo, che
questi non ottiene con le proprie forze, ma che non avviene neppure senza di lui e che
quindi, benché non possa essere calcolata, può annunziarsi tuttavia in segni
(cfr. Grillmeier-Bacht, Chalkedon III, 280-286)...
Sono due le cose che colpiscono la nostra attenzione: in primo luogo il fatto che il
passaggio alla fine non appare preparato da una estrema maturità storica, ma che proprio
la disgregazione interiore della storia, la sua insufficienza di fronte a ciò che
è divino, la sua resistenza orientano paradossalmente al “sì”
di Dio. In secondo luogo, però, ad uno sguardo anche solo superficiale alla
realtà di tutti i secoli, risulta che questi “segni” possono riferirsi
alla costituzione costante di questo mondo, poiché da quando esiste il mondo, esso
è sempre stato lacerato da guerre e da catastrofi e nulla fa sperare che una
“ricerca della pace” possa eliminare questa caratteristica fondamentale
dell’umanità...
I segni... non consentono di datare la fine; tuttavia essi la mettono in relazione con la
storia, in modo però da costringere ogni epoca alla vigilanza. In effetti essi
dimostrano che viviamo sempre nel tempo ultimo, che il mondo si trova sempre prossimo a
ciò che è “del tutto diverso” e che segnerà insieme la sua
fine cronologica...
Quando Martin Heidegger, in un’intervista che può essere considerata come una
sorta di testamento, opina che di fronte alla situazione in cui l’umanità si
è smarrita possa salvarci soltanto più un Dio, e quando vede, di conseguenza,
come unica possibilità che ci rimane quella di “tenerci già ora pronti,
disponibili per l’apparire della divinità”, allora, in una simile
dichiarazione postcristiano-pagana, emerge forse qualcosa di ciò di cui si tratta
effettivamente: la “disponibilità dell’attesa” è in se
stessa qualcosa che trasforma, e il mondo è un altro a seconda che è
un’attesa del nulla o che è diretta verso Colui che esso riconosce nei suoi segni,
per cui è proprio dalla disgregazione delle proprie possibilità che il mondo
deriva la certezza della sua vicinanza...
Cristo viene caratterizzato in un duplice modo, ossia come detronizzatore dei vecchi domini
di questo mondo; il suo irrompere significa la comparsa del vero imperatore e il suo
arrivo coincide con la caduta degli elementi del mondo (Gal4,3.9; Col2,8.20; in riferimento
all’attuale situazione dei cristiani; nel senso escatologico: Mt 24,29-31; 2Pt 3,10), i
quali “fornivano il materiale per le antiche feste del Novilunio e del Capodanno”
(Maertens, 42); e significa contemporaneamente l’inizio di un nuovo anno di Dio,
dell’eterno banchetto di nozze che egli celebra con i suoi...
La Parusia costituisce l’acme, la pienezza della liturgia; la liturgia però
è la Parusia, è l’evento parusiale in mezzo a noi. Inoltre vi emerge
che proprio questa Chiesa, che nella liturgia appare come totalmente introspettiva, penetra
invece nel più profondo centro del cosmo e opera per la sua trasformazione e
liberazione...
E ulteriormente emerge l’intreccio dell’ “adesso” e del
“poi”, che caratterizza il presente del cristianesimo e la sua proiezione nel
futuro. La detronizzazione degli elementi del mondo è già ora avvenuta; il sole,
la luna e le stelle sono di già impalliditi (cfr. Gal4,3; Col2,8) e tuttavia tutto
ciò dovrà ancora accadere; la tromba della Parola chiama già ora gli
uomini a raccolta e tuttavia lo dovrà ancora fare in futuro; ogni Eucarestia è
Parusia, l’arrivo del Signore, eppure ogni Eucarestia fa aumentare il desiderio che egli
riveli il suo splendore nascosto...
Nel toccare il Risorto, la Chiesa tocca la parusia del Signore; essa prega e vive, per
così dire, proiettata nella Parusia, il cui rivelarsi non è che il definitivo
rivelarsi e compiersi del mistero pasquale (R.Guardini, Der Herr, 542-548; cfr. i
commenti di Bultmann e di Schnackenburg).
Egli stesso afferma: “... perché non sono venuto per
condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (12,47), e: “Chi mi respinge e
non accoglie le mie parole, ha chi lo condanna; la parola che ho annunziato, lo
condannerà nell’ultimo giorno” (12,48). La distinzione che viene fatta tra
l’operare personale del Cristo e l’efficacia della sua parola consente qui
un’ultima purificazione della cristologia e del concetto di Dio. Cristo non condanna
nessuno; egli è pura salvezza e chi aderisce a lui si trova nella zona della salvezza e
della Grazia. La perdizione non viene decisa da lui, ma essa esiste là dove l’uomo
è rimasto lontano da lui; essa nasce dal restar chiusi in se stessi. Nella parola
del Cristo, che è l’offerta della salvezza, si evidenzierà che colui che
è perduto ha tracciato da se medesimo il confine che lo separa dalla salvezza...
L’uomo entra con la sua morte nella pura realtà e verità e occupa ora il
posto che gli compete secondo verità. La mascherata della vita, il rifugiarsi dietro
posizioni e finzioni, appartiene al passato. L’uomo è quello che è in
verità. In questa caduta delle maschere che si verifica nella morte consiste il
giudizio. Il giudizio è semplicemente la verità stessa, il suo rivelarsi.
Tuttavia questa verità non è un neutrum. Dio è la Verità, la
Verità è Dio, è “persona”. Una verità che giudica, che
è definitiva, può esistere soltanto se ha carattere divino; Dio è giudice,
in quanto Egli stesso è la Verità. Dio però è per l’uomo la
Verità come colui che si è fatto uomo, esempio e modello dell’uomo. Per cui
in e per Cristo, Dio è criterio di verità per l’uomo. In
ciò consiste la novità dell’interpretazione liberatrice del giudizio, la
quale caratterizza la fede cristiana: la Verità che giudica l’uomo ha preso essa
stessa l’iniziativa di salvarlo. Essa stessa gli ha creato una nuova verità. Come
Amore, essa stessa si è sostituita a lui e gli ha dato una verità d’un tipo
particolare: quella di essere amato dalla Verità...
La vera linea di confine tra la morte e la vita... non è tracciata dalla morte
biologica, ma scorre tra l’ “essere-con-Colui-che-è-la-vita” e
l’isolamento, che rifiuta questo “essere-con-Lui”...
Infine dobbiamo rammentare che Cristo non è solo. L’unico obiettivo
dell’intera sua vita terrena fu quello di edificarsi un Corpo, di giungere alla
“pienezza”. Il suo Corpo fa parte di lui. Per cui l’incontro col Cristo
avviene nell’incontro con i suoi, nell’incontro con il suo Corpo; motivo per cui la
nostra sorte, la nostra verità, proprio quando sia intesa nel senso teologico e
cristologico, dipende dal rapporto che abbiamo instaurato con il suo Corpo e con le sue
membra sofferenti; a questo riguardo i “Santi” sono “giudici”...
Ma qual è il motivo per cui si rifiutò il chiliasmo, il quale avrebbe
consentito di far dell’instaurazione di condizioni parusiali un compito pratico? Ebbene,
il “no” al chiliasmo significa che la Chiesa respinge la concezione di un
definitivo perfezionamento della storia, ovvero che la storia possa perfezionarsi nella stessa
storia. La speranza del cristiano non include quindi concetti di alcun genere di un
perfezionamento della storia dentro la storia, ma esprime, al contrario,
l’impossibilità di un mondo perfetto dentro la storia. I vari elementi
figurativi circa la fine del mondo che troviamo nella Bibbia hanno per contenuto comune proprio
quello di contraddire all’attesa di un definitivo stato di salvezza dentro la storia...
Ma la fede nel ritorno del Cristo è inoltre la certezza che, nonostante tutto, il
mondo sarà salvato e ciò non per merito della razionalità programmante, ma
in base all’indistruttibilità dell’Amore che ha vinto nel Cristo
risorto. La fede nel ritorno del Cristo è insieme la certezza che alla fine
sarà la Verità a giudicare e l’Amore a vincere. Premessa ne è il
trascendimento della storia passata, trascendimento che è invocato in ultimo da questa
stessa storia. La storia è perfezionabile soltanto da un fattore esterno e solo
quando si accetti questo e essa venga vissuta in vista di questo trascendimento, essa
potrà sperare nel proprio perfezionamento. Con ciò è lasciato spazio
alla ragione, affinché operi secondo i propri criteri, ma è assicurato insieme
pure lo spazio alla speranza. La salvezza del mondo si fonda sul trascendimento del mondo. Il
Cristo risorto però è la certezza vivente che questo trascendimento, senza il
quale il mondo resterebbe un’assurdità, non sfocia nel vuoto, ma che la storia
può essere vissuta positivamente e che il nostro operare razionale, di per sé
tanto povero e limitato, ha un senso.
Inutile volerlo negare: il pensiero della dannazione eterna, che a
vista d’occhio si era sviluppato nel giudaismo dei due ultimi secoli precristiani
(materiale in LThk V, 445s) ricorre costantemente tanto nell’insegnamento di
Gesù stesso (Mt 25,41; 5,29 par; 13,42.50; 22,13; 18,8 par; 5,22; 18,9; 8,12; 24,51;
25,30; Lc13,28) quanto negli scritti degli Apostoli (2Ts1,9;2,10; 1Ts 5,3; Rom9,22;
Fi3,19; 1Cor1,18; 2Cor2,15; 4,3; 1Tm6,9; Ap14,10; 19,20; 20,10-15; 21,8). Di conseguenza il
dogma poggia su un terreno solido quando parla dell’esistenza dell’inferno (DS 72;
801; 858; 1351) e dell’eternità delle sue pene (DS 411). E’ comprensibile
che l’accoglienza di una simile affermazione, che contraddice tanto vistosamente a
tutte le nostre idee circa Dio e l’uomo, non poteva avvenire senza suscitare forti
reazioni. Fu per primo Origene a proporre (secondo frammenti trasmessi in Giustino e
in Ps.-Leonzio), nel suo grande tentativo di una sistematizzazione del cristianesimo
(περίαρχων), l’idea che in base alla logica di
Dio circa la sua storia sarebbe stata raggiunta infine una riconciliazione universale.
Tuttavia egli stesso considerava questa sua tesi piuttosto come un’ipotesi...
Sebbene rispetto al pensiero neoplatonico, che aveva accentuato esageratamente il concetto
che in fondo il male sia inconsistente, nulla, e soltanto Dio la realtà, il grande
alessandrino abbia sentito molto più profondamente la sinistra realtà del male,
che può far soffrire e addirittura uccidere Dio, egli non ha potuto tuttavia rinunciare
totalmente alla speranza che proprio in questo soffrire di Dio sia posto un limite alla
realtà del male, per cui quest’ultimo abbia perduto la sua
definitività...
Che cosa rimane dunque? In primo luogo la constatazione dell’assoluto rispetto che Dio
mostra di avere per la libertà della sua creatura. L’amore è un dono che
l’uomo riceve; è la conseguente trasformazione di ogni sua miseria, di ogni sua
insufficienza; neppure il “sì” a tale amore scaturisce dall’uomo
stesso, ma è provocato dalla forza di questo amore. Ma la libertà di rifiutarsi
alla maturazione di questo “sì”, di non accettarlo come qualcosa di proprio,
questa libertà rimane...
La particolarità del cristianesimo emerge qui nella affermazione della grandezza
dell’uomo: la sua vita è un caso di estrema serietà; non tutto in
definitiva può essere presentato astutamente come un momento dei disegni di Dio; esiste
ciò che è irrevocabile – anche la rovina irrevocabile – per cui il
cristiano deve vivere in questa consapevolezza. Questa serietà dell’essere e
dell’agire dell’uomo si concretizza della croce del Cristo, la quale tuttavia
illumina il nostro tema sotto due aspetti diversi: Dio soffre e muore – il male non
è per lui qualcosa di irreale: per lui che è Amore, l’odio non è un
nulla. Egli vince il male non nella dialettica della ragione universale, che può
trasformare tutte le negazioni in affermazioni; egli non lo vince in un venerdì santo
speculativo, bensì assolutamente reale. Egli stesso entra nella libertà dei
peccatori e la supera con la libertà del suo amore che discende nell’abisso...
Così la parola sull’inferno ha assunto nella storia dei Santi, soprattutto degli
ultimi secoli, come per esempio in san Giovanni della Croce, nella religiosità del
Carmelo, e in particolare, anche in Teresa di Lisieux un significato del tutto nuovo e una
forma parimenti nuova: essa non è tanto una minaccia quanto piuttosto
un’esortazione a soffrire nella notte oscura della fede la comunione col Cristo proprio
partecipando alla sua discesa nella notte; ad avvicinarsi alla luce del Signore condividendo
con lui le sue tenebre e a servire alla salvezza del mondo, dimenticandosi per gli altri della
propria salvezza. In una simile religiosità, nulla è cancellato della
terrificante realtà dell’inferno; al contrario, esso è tanto reale da
entrare nella stessa esistenza dell’uomo. Contro questa realtà non vi è che
la speranza, la speranza che può nascere soltanto nel condividere la sofferenza di
quella notte con Colui che è venuto a trasformare con la sua sofferenza la notte di
tutti noi. La speranza non si basa sulla logica neutra del sistema, sulla negazione
dell’importanza dell’uomo; al contrario, essa scaturisce dalla concreta
volontà dell’uomo di accompagnarsi con Gesù Cristo. Ma una simile speranza
non diviene un’autoaffermazione arbitraria: essa consegna la sua istanza nelle mani del
Signore e l’affida a lui. Per cui il dogma conserva il suo contenuto reale; il
concetto della misericordia che nell’una o nell’altra forma l’aveva
accompagnato durante l’intera storia non diviene teoria, ma preghiera della fede che
soffre e spera.
La dottrina cattolica del purgatorio ha ricevuto la sua forma ecclesiale
definitiva in quei due Concili del Medioevo che intendevano promuovere l’unione con le
Chiese orientali; in seguito essa venne formulata ancora una volta in sintesi dal Concilio di
Trento, in occasione delle dispute con i movimenti riformatori. Con queste constatazioni
è insieme già accennato il suo luogo storico e la sua problematica
ecumenica...
Nella dottrina del purgatorio la Chiesa ha conservato qualcosa dell’idea dello
“stadio intermedio”: sebbene con la morte la vita dell’uomo è decisa
in modo definitivo e irrevocabile (DS 1000), l’uomo non necessariamente deve raggiungere
immediatamente il destino definitivo; può anche essere che la scelta di fondo
d’un uomo sia in certo qual modo coperta da scelte secondarie e debba essere, per modo di
dire, ancora tratta alla luce: è questo lo “stadio intermedio” che nella
tradizione occidentale è definito “purgatorio”...
I greci, pur rifiutando la dottrina di una pena e di un’espiazione nell’al di
là, condividono però con i Latini l’intercessione per i defunti mediante
preghiere, elemosine, opere buone e anzitutto l’offerta dell’Eucarestia per i
defunti (Karmiris, 116 s), mentre i riformatori vedono proprio nella “Messa
funebre” un attacco contro l’efficacia espiatoria universale della morte in croce
del Cristo (cfr. CA XXIV). D’altronde, pure la loro dottrina della giustificazione
non lasciava spazio all’espiazione nell’al di là...
La formula più sintetica risulta quella di Trento: “Illuminata dallo Spirito
Santo, attingendo dalla Sacra Scrittura e dall’antica tradizione dei Padri, la Chiesa
cattolica ha insegnato nei sacri Concili e in ultimo in questa assemblea plenaria: esiste un
“luogo di purificazione” (purgatorium) e le anime ivi trattenute trovano aiuto
nelle intercessioni dei credenti, ma soprattutto nel sacrificio dell’altare a Dio
accetto” (DS 1820). Il Concilio di Trento vi aggiunge inoltre un’esplicita
esortazione ai Vescovi a opporsi energicamente a ogni cavillosità, curiosità e
superstizione: la protesta dei riformatori contro la prassi corrente e i suoi abusi viene
accolta e tradotta in un mandato di riforma; viene respinta la confutazione della dottrina,
ottenebrata dagli abusi, e del modo d’agire religioso a essa coordinato.
Le prime radici della dottrina del purgatorio ci rinviano nuovamente, come d’altronde
l’intera questione dello “stadio intermedio”, all’ambito
arcaico-giudaico; in 2 Mac 12,32-46 (1° sec. a.C.) viene riferito che sui caduti ebraici
erano stati trovati degli amuleti pagani, per cui la loro morte venne interpretata come
punizione per l’apostasia dalla Legge. Secondo il racconto, si ricorse alla preghiera,
“supplicando che il peccato commesso fosse pienamente perdonato”. Inoltre si fece
una colletta che venne inviata a Gerusalemme, affinché vi fosse offerto un sacrificio
espiatorio. L’autore loda un tale comportamento come espressione della fede nella
resurrezione dei morti...
(Il fatto che l’ancoramento ecclesiale dell’uomo non viene interrotto o revocato
dalla morte) si fonda sul pensiero paolino-giovanneo (Fi1,21; Gv3,16-21), secondo il quale
la vera linea della distinzione non corre tra la vita terrena e la non-vita, bensì
tra l’ “essere con Cristo” e l’essere senza di lui o contro di lui. Per
cui nel battesimo è avvenuto il passaggio decisivo, il quale, benché divenga
definitivo con la morte terrena, può tuttavia continuare ad approfondirsi e purificarsi
oltre la soglia della morte nell’attraversare il fuoco del giudizio della vicinanza del
Cristo e nell’essere parte della comunità della Chiesa tutta...
Nella nostra conversazione con i Padri avevamo incontrato 1Cor 3,10-15, dove si dice che sul
fondamento posto – Gesù Cristo – gli uni costruiscono con oro o con argento
oppure con pietre preziose; gli altri con legno, fieno o paglia, ma che “l’opera
di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno (del Signore) che si
manifesterà col fuoco e il fuoco proverà la qualità dell’opera di
ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne
riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito:
tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco”. J.Gnilka ha
dimostrato che questo fuoco di verifica indica il Signore stesso che viene, che esso (in
riferimento a Is 66,15s) è la “raffigurazione della Maestà di Dio che si
manifesta... dell’inavvicinabilità del tutto Santo” (126). Con
ciò è liquidata per lui (contro J.Jeremias, in GLNT, II, 378-380) ogni
interpretazione nel senso d’un purgatorio; poiché non esiste alcun fuoco: esso
è il Signore; non esiste alcun tempo, perché si tratta dell’incontro
escatologico con il Giudice; non esiste purificazione, ma unicamente l’affermazione che
un simile uomo “sarà salvato a stento” (LThK EV, 51). Proprio accettando
questa esegesi, si dovrà sincerarsi nuovamente se la sua impostazione sia giusta, oppure
se anche qui il suo metro sia troppo ristretto. Premettendo un concetto
semplicistico-oggettivante del purgatorio, non troveremo certamente alcuna risposta al
riguardo. Ma d’altro canto possiamo anche obiettare che, proprio al contrario, il
“purgatorio” diviene un concetto specificamente cristiano se lo si intende nel
senso cristologico, cioè, che il Signore stesso è il fuoco giudicante, che
trasforma l’uomo e lo rende “conforme” al suo Corpo glorificato (cfr. Rom
8,29; Fi3,21). Non consegue forse la vera cristianizzazione dell’immagine
arcaico-giudaica del purgatorio proprio dalla conoscenza che la purificazione non avviene
tramite un fattore qualsiasi, ma mediante la forza trasformante del Signore, che scioglie e
fonde col suo fuoco le catene del nostro cuore e lo rimodella affinché diventi idoneo a
essere inserito nell’organismo vivente del suo Corpo? E inoltre, che cosa significa
concretamente l’asserzione di Gnilka, che gli uomini verrebbero salvati “a
stento”? In che cosa consiste questo “a stento”? Non diviene la sua
affermazione mitica se non ci dice nulla circa l’uomo stesso, circa la sua ricerca
personale della salvezza, in modo che questo “a stento” non si riferisca a un
fattore a lui estraneo, ma invece espressamente alla difficoltà del suo cuore di poca
fede di avvicinarsi al fuoco del Signore che lo libererà da se stesso e lo
purificherà perché possa ascendere a lui?
Il “momento” trasformante di questo incontro si sottrae alle misure di tempo
terrene: esso non è eterno, ma un passaggio; tuttavia volerlo qualificare come molto
breve o molto lungo, secondo le misure di tempo derivate dalla fisica, sarebbe altrettanto
ingenuo e non farebbe alcuna differenza. La sua “misura di tempo” sta nella
profondità degli abissi di questa esistenza, i quali vengono misurati a passi e
trasformati nel fuoco. Voler misurare un simile tempo di “esistenza” col metro
del tempo terreno significherebbe travisare la particolarità dello spirito umano nel suo
rapporto col mondo e nel suo distacco da esso.
Con ciò si è ora chiarita l’interpretazione cristiana della natura del
purgatorio: esso non è una sorta di campo di concentramento dell’al di
là (come per Tertulliano), dove l’uomo debba espiare delle pene che gli vengono
assegnate in un modo più o meno positivistico. Piuttosto, esso è quel processo
necessario della trasformazione spirituale dell’uomo, che lo pone in grado di essere
vicino al Cristo, vicino a Dio e di unirsi all’intera Communio sanctorum. Chi
osservi l’uomo anche solo con un minimo di realismo comprenderà la
necessità di un simile processo, nel quale non è che la grazia venga sostituita
con le opere, ma la grazia può vincere pienamente come grazia. Ciò che salva
è il “sì” alla fede. In realtà però, nella maggior
parte di noi questa scelta di fondo è coperta da grandi quantità di fieno, di
legna e di paglia; soltanto a fatica essa fa capolino dall’intreccio degli egoismi che
l’uomo non è stato capace di rimuovere. Egli riceve sì misericordia, ma
dev’essere trasformato. L’incontro con il Signore è questa
trasformazione, il fuoco che lo tramuta in quella forma priva di scorie che può
diventare recipiente della gioia eterna (cfr Balthasar, I novissimi nella teologia
contemporanea, 47). Una simile concezione contrasterebbe con la dottrina della grazia
solamente qualora la penitenza fosse in contraddizione con la grazia e non la sua forma, la
possibilità gratuita che ne scaturisce.
E’ possibile che qualcun altro partecipi al processo estremamente personale
dell’incontro con il Cristo, del trasformarsi di un “Io” nel fuoco della sua
vicinanza? Non è questo un fatto che si svolge esclusivamente nell’intimo di
quel determinato uomo, per cui non consente né sostituzione né rappresentanza?
Non si fonda tutta la religiosità riguardante le anime in pena sul fatto che la loro
sofferenza viene valutata in base al criterio dell’ “avere”, mentre, secondo
le nostre considerazioni, si tratta invece del loro “essere”, ossia di ciò
che non è delegabile? A queste obiezioni possiamo replicare che neppure
l’essere dell’uomo è una monade chiusa, poiché sia nell’amore
sia nell’odio l’uomo è in rapporto con gli altri, il suo essere personale
è quindi presente negli altri o come colpa o come grazia. L’uomo non è
mai solamente se stesso, o meglio, egli è se stesso soltanto negli altri, con gli altri
e mediante gli altri. Se gli altri lo maledicono o lo benedicono, oppure se gli perdonano e
tramutano la sua colpa in amore, tutto questo fa parte del suo destino personale.
L’affermazione che anche i Santi “giudicano” significa che
l’incontro con Cristo è un incontro con l’intero suo Corpo, un incontro
della mia colpa nei confronti delle membra sofferenti di questo Corpo con il suo amore, che
scaturisce da Cristo e che perdona.
Questa intercessione è l’unico e fondamentale aspetto del
“giudicare” dei Santi; proprio perché giudicano, essi, come oranti e
salvatori, fanno parte della dottrina del purgatorio e della rispettiva pratica
cristiana...
Per il cristiano le possibilità di aiutare e di donare non si estinguono con la
morte, ma coinvolgono l’intera Communio sanctorum al di qua come al di là della
soglia della morte. Fin dai tempi più remoti, la possibilità e il dovere di
un simile amore oltre le tombe sono stati addirittura il principio portante di questo ambito
della tradizione, principio che ha trovato una prima chiara espressione in 2 Mac 12, 42-45
(forse già in Sir 7,33). Questo principio di fondo non è nemmeno mai stato
fatto oggetto di controversie tra l’Occidente e l’Oriente e fu messo in discussione
(certamente a motivo di pratiche in parte gravemente devianti) soltanto dalle confessioni
riformate. Forse qui potrebbe essere individuato pure il cammino dell’ecumene, almeno
tra l’Oriente e l’Occidente, riguardo al nostro problema: la pratica del
“potere e del dovere pregare” è ciò che è veramente primaria;
mentre in una unione delle Chiese l’interpretazione del suo corrispondente nell’al
di là non ha bisogno di essere stabilita in modo unitario e vincolante, sebbene,
come è stato dimostrato, il contenuto e i motivi della dottrina occidentale siano
ancorati nella più antica tradizione e in principi centrali della fede.
Il “cielo” è anzitutto determinato dalla cristologia.
Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del
“cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo quale Dio è uomo e ha dato
all’essere umano un posto nell’essere stesso di Dio (cfr. Rahner, La
risurrezione della carne, 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in
cui è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.
Per cui il cielo è primariamente una realtà personale, che rimane per sempre
improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della Morte e della
Resurrezione. Da questo centro cristologico si possono derivare tutte le altre componenti
del cielo definite tali dalla tradizione. Dall’affermazione cristologica consegue
anzitutto un’affermazione teo-logica: il Cristo trasfigurato continua a consegnarsi
incessantemente al Padre, egli è questa autoconsegna; il sacrificio pasquale è in
lui un perenne presente. Il “cielo”, inteso come un “divenire uno” col
Cristo, ha quindi il carattere dell’adorazione; in esso è realizzato il contenuto
profetico di ogni culto: Cristo è il Tempio escatologico (Gv 2,19), il cielo
è la nuova Gerusalemme, il luogo cultuale di Dio. Al movimento dell’umanità
che unita al Cristo tende al Padre corrisponde il movimento inverso dell’amore di Dio
che si dona all’uomo. Per cui nella sua forma di perfezione celeste il culto include
l’inscindibile immediatezza tra Dio e l’uomo, che dalla tradizione teologica viene
definita “contemplazione di Dio”...
L’affermazione cristologica include però anche un momento ecclesiologico: se il
cielo è fondato sull’inserimento dell’uomo nel Cristo, ne segue che esso
comporta pure la comunione con tutti coloro che insieme formano l’unico Corpo di
Cristo. Il cielo non conosce infatti alcun isolamento; esso è l’aperta
comunità dei Santi e quindi anche la pienezza di ogni umana convivenza quale conseguenza
della totale apertura per il volto di Dio. Su questa conoscenza si fonda il culto cristiano dei
Santi, che non presuppone un’onniscienza mitica dei Santi, bensì semplicemente
l’apertura tra le varie membra dell’intero Corpo di Cristo e l’illimitata
vicinanza dell’amore che è certo di raggiungere Dio nell’altro e
l’altro in Dio. Ne deriva quindi pure una componente antropologica: il fondersi
dell’ “Io” con il Corpo di Cristo, il farsi strumento del Signore e degli
altri non significa un dissolvimento dell’ “Io”, bensì la sua
purificazione, che realizza insieme le sue più alte possibilità. Per questo
motivo il cielo è per ciascuno individuale. Ognuno vede Dio a suo modo, ognuno riceve
l’amore del Tutto nella sua inconfondibilie unicità: “Al vincitore
darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che
nessuno conosce all’infuori di chi la riceve” (Ap 2,17). Da qui si può
comprendere che nel Nuovo Testamento (come nell’intera tradizione) il cielo è
chiamato, da un lato, “ricompensa” – il che significa la risposta a quella
determinata via, a quella determinata vita, a quel determinato uomo, al suo personale agire a
soffrire – ma significa insieme che esso è la Grazia dell’Amore donato.
La scolastica ha sistematizzato ulteriormente queste conoscenze, parlando (accogliendo in parte
tradizioni molto antiche) di una particolare “corona” destinata a martiri, vergini
e dottori. Riguardo a simili affermazioni siamo oggi più cauti: ci basta sapere che Dio
sarà la pienezza per ognuno a suo modo e che lo riempirà oltre ogni
immaginazione. Ciò che consegue da simili considerazioni non può quindi essere
un’indicazione d’un privilegio di questa o di quell’altra via, ma è
l’impegno di dilatare il più possibile il recipiente della propria vita
e questo non per garantire a se stessi un più cospicuo tesoro nell’al di
là, ma per poter distribuire di più; poiché nella communio del Corpo di
Cristo si può possedere soltanto nel dare; la ricchezza della perfezione può
consistere solamente nel donare agli altri.
(da Joseph Ratzinger, Escatologia. Morte e vita eterna, vol.9 della collana diretta da
Johann Auer-Joseph Ratzinger, Piccola Dogmatica Cattolica, Assisi, Cittadella Editrice, 1996,
pagg.204-245)
Al termine della nostra esistenza, madre Chiesa si sforza
di facilitarci il distacco da questo mondo, offrendo ai suoi figli il Sacramento
della morte, che una volta si chiamava «Estrema Unzione».
...E se si chiedeva a qualcuno se lo voleva ricevere, questi rifiutava inesorabilmente
perché non voleva rassegnarsi all'idea di trovarsi in procinto di morire.
Il concetto di «estrema unzione», che era un vero incubo per
i malati, è stato sostituito da tempo, consapevolmente e a ragione da
quello di «unzione degli infermi» per evitare che l'arrivo di
un sacerdote per il conferimento del Sacramento venisse interpretato dal malato
come preannuncio di morte certa.
In effetti l'unzione degli infermi può sorreggere il malato in un
processo psichico che in determinate circostanze può risolversi anche
in un processo di guarigione fisica. Rappresenta l'assistenza sacramentale
della Chiesa nell'istante della malattia. La questione della morte passa in
secondo piano. Il vero viatico è invece l'Eucaristia. Con le preghiere
e le benedizioni del moribondo, con la rinnovata assoluzione la Chiesa offre
a chi sta per spegnersi consolazioni specifiche. Sono tentativi di sorreggere
il moribondo nel momento di un passaggio difficile, di aiutarlo a varcare quella
soglia sinistra oltre la quale c'è un buio che pare non essere rischiarato
da alcuna luce.
L'unzione degli infermi è invece un aiuto ad accettare la sofferenza.
Deve aiutarmi a conseguire la comunione sacramentale con Cristo grazie alla
trasfigurazione del dolore, della sofferenza. Non si tratta quindi necessariamente
di guarigione fisica. Perché la malattia può anche sanarmi interiormente,
può addirittura essere necessaria da questo punto di vista. Cristo,
insegnandomi a soffrire e condividendo la mia sofferenza, può essere
il mio vero medico, capace di aiutarmi a vincere l'infermità più
profonda della mia anima.
La fede dovrebbe spingerci a rallegrarci della morte: «Vivere è
morire, morire è vivere». Ci attende pur sempre la vita eterna.
Sì, ma ogni temperamento è diverso dall'altro. Quando Agostino
giaceva in punto di morte, era tormentato dal ricordo dei suoi peccati. Perciò
aveva fatto affiggere alle pareti della stanza salmi d'espiazione per averli
sempre dinanzi agli occhi e interiorizzarli profondamente. Si era persino autoescluso
per qualche tempo dalla Comunione e si era investito della condizione del penitente.
Pensava al suo padre spirituale, Ambrogio, che era spirato con una grande serenità
interiore e diceva: a lui che era grande, è spettato questo dono; io
sono un altro genere d'uomo, io non ho avuto questo dono, io ho bisogno di espiare
umilmente, nella speranza che il Signore voglia accogliermi.
Ma direi che è anche un compito dell'educazione alla fede cristiana e
della predicazione, infondere nell'uomo la fiducia con cui andare incontro,
con la morte, alla vera vita. In questo modo lo si può anche aiutare
a superare la paura dell'incognito o almeno la paura fisica della fine e porre
le condizioni per una morte serena.
È lecito farsi cremare o è un rito pagano?
Già presso gli ebrei era sconosciuta la cremazione, a differenza che
in altre culture dell'area del Mediterraneo. Consideravano la sepoltura come
un seme da cui sarebbe un giorno fiorita la risurrezione. Anche i cristiani
hanno fatto proprio questo costume. Nell'inumazione era ed è implicita
una tacita confessione di speranza nella risurrezione. Fino al Concilio Vaticano
II la cremazione era sanzionata. Poi, in considerazione delle condizioni del
mondo attuale, la Chiesa vi ha rinunciato. La confessione di fede nella
risurrezione non deve necessariamente avvenire in questa forma, perché
Dio ci dovrà comunque dare un corpo nuovo: così la cremazione
nel frattempo è stata ammessa. Devo dire che sono sufficientemente retrò
per continuare a considerare l’inumazione come l’autentica espressione
cristiana del rispetto per i defunti e per il corpo umano e della speranza
in un futuro dopo la morte.
Lei ha detto che Dio ci darà nell'aldilà un corpo nuovo: significa
che nessuno avrà l'aspetto che aveva quando era in vita?
La risurrezione nel giorno del giudizio è da questo punto di vista
una nuova creazione, in cui però viene preservata l'identità di
ogni singolo individuo, che si compone di corpo e di anima. San Tommaso
dice inoltre che l'anima è la forza che plasma il corpo, è essa
a creare il corpo. L'identità significa dunque che l'anima, ridestata
a nuova vita dalla risurrezione, riacquista la sua capacità di plasmare
il corpo e si costruisce quindi un corpo intimamente identico. Mi pare però
gratuito speculare (su questo).
Concretamente, mio fratello è morto all'età di 14 anni: dove
si trova ora?
Presso Dio. Dobbiamo rinunciare a servirci di categorie di localizzazione
materiale. Così come non possiamo localizzare Dio in un certo punto dell'universo,
anche i defunti hanno un rapporto di tipo diverso con la materialità.
Il rapporto che ha Dio con lo spazio materiale è improntato alla pervasività.
Parlavamo dei diversi gradi di prossimità a Dio, che non sono condizionati
dalla vicinanza spaziale, e dicevamo che analogamente anche l'anima, il principio
spirituale nell'uomo, non ha una sede specifica come un qualsiasi organo fisico,
ma determina la totalità dell'individuo. In modo analogo anche il defunto
partecipa con Dio di un altro rapporto con lo spazio, non definibile secondo
categorie fisiche.
Molti hanno persino affermato che i defunti si trattengono in prossimità
della tomba, il che mi pare un po' lugubre. No, essi si sono lasciati alle spalle
questa forma di spazialità materiale per entrare in un altro rapporto
con lo spazio che si fonda sulla superiorità di Dio rispetto alle categorie
spaziali usuali. Fa parte anche della nostra esperienza l'empatia mentale che
si crea talvolta tra persone divise magari da un oceano. Lì avvertiamo
una traccia di quella superiorità alla dimensione spaziale, di quest'altra
forma di spazialità che è quella della prossimità spirituale.
In ogni caso dobbiamo liberarci dall'idea che il defunto sia localizzabile in
un punto geografico definito. Dovremmo invece dire che è presso Dio,
con il che si esprime la sua prossimità, in una modalità nuova,
alla realtà dell'universo e anche a noi stessi.
Noi uomini siamo curiosi, ci piacerebbe sapere com'è il paradiso.
Le Sacre Scritture possono illuminarci su ciò che ci aspetta?
Anche le Scritture ne parlano con linguaggio metaforico. Vi alludono ad esempio
con l'immagine della liturgia celeste, secondo cui la nuova spazialità
è segnata dall'estasi di questa che è la vera liturgia, e anche
i canti e il librarsi in volo sono immagini simboliche.
Tutto ciò può però anche essere frainteso. Conosciamo tutti
l'apologo di quel bavarese che giunge in paradiso e non riesce più a
sopportare i canti di lode che riempiono il cielo per l'eternità. Mi
pare importante far notare come, in questa nuova condizione, non cambiano solo
le categorie spaziali ma anche quelle temporali. Se ci immaginiamo il paradiso
come un tempo infinitamente lungo, si può far strada l'idea dell'insopportabilità
dell'eternità. Ma, se ci si spoglia della nostra abituale comprensione
del tempo che scorre, ora dopo ora, giorno dopo giorno, a sua volta legato al
movimento rotatorio degli astri, per abbracciare invece una nuova idea della
condivisione personale, allora anche questa forma di successione eterna viene
meno per lasciare spazio a un unico momento di grande gioia.
Dovremmo perciò immaginarci l'eternità secondo la categoria
della pienezza di un istante al di là del tempo.
Lei donerebbe gli organi?
Sì, per quanto supponga che i miei vecchi organi non siano più
di grande utilità.
(da Joseph Ratzinger, Dio e il mondo. In colloquio con Peter Seewald, Cinisello
Balsamo, San Paolo, 2001, pagg.395-401 )
N.B. Tutti i diritti dei materiali sono dei rispettivi titolari.
Riproduzione riservata.