N.B. I titoli ed i neretti sono redazionali e funzionali al commento sviluppato nella catechesi. Anche la disposizione dei testi non segue un ordine cronologico, ma è relativa alla successione dei temi così come è stata organizzata per la catechesi di S.Melania. Lo sviluppo delle singole parti non dipende dalla loro importanza, ma dal materiale a disposizione. Solo il testo finale, a firma della Congregazione della Dottrina della fede, è un testo sintetico dell’intera problematica. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi brani non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
L’Areopago (20.03.2006)
Nella seconda parte (dell’enciclica) si parla della carità, il
servizio d’amore comunitario della Chiesa per tutti coloro che soffrono nel corpo o
nell’anima e hanno bisogno del dono dell’amore.
Qui si presentano anzitutto due domande: la Chiesa non può lasciare questo servizio
alle altre organizzazioni filantropiche che si formano in molti modi?
Ecco la risposta: no, la Chiesa non lo può fare. Essa deve praticare l’amore
per il prossimo anche come comunità, altrimenti annuncia il Dio dell’amore in modo
incompleto e insufficiente.
La seconda domanda: non bisognerebbe piuttosto tendere a un ordine della giustizia in cui
non vi sono più i bisognosi e per questo la carità diventa superflua?
Ecco la risposta: indubbiamente il fine della politica è creare un giusto ordinamento
della società, in cui a ciascuno viene riconosciuto il suo e nessuno soffre di miseria.
In questo senso, la giustizia è il vero scopo della politica, così come lo
è la pace che non può esistere senza giustizia. Di sua natura la Chiesa non fa
politica in prima persona, bensì rispetta l’autonomia dello Stato e del suo
ordinamento. La ricerca di questo ordinamento della giustizia spetta alla ragione comune,
così come la politica è interesse di tutti i cittadini. Spesso, però, la
ragione è accecata da interessi e dalla volontà di potere. La fede serve a
purificare la ragione, perché possa vedere e decidere correttamente. È compito
allora della Chiesa di guarire la ragione e di rafforzare la volontà di bene. In questo
senso – senza fare essa stessa politica – la Chiesa partecipa appassionatamente
alla battaglia per la giustizia. Ai cristiani impegnati nelle professioni pubbliche spetta
nell’agire politico di aprire sempre nuove strade alla giustizia.
Questa, però, è solo la prima metà della risposta alla nostra domanda. La
seconda metà, che a me sta particolarmente a cuore nell’enciclica, dice: la
giustizia non può mai rendere superfluo l’amore. Al di là della giustizia,
l’uomo avrà sempre bisogno di amore, che solo dà un’anima alla
giustizia. In un mondo talmente ferito come lo sperimentiamo ai nostri giorni, non
c’è davvero bisogno di dimostrare quanto detto. Il mondo si aspetta la
testimonianza dell’amore cristiano che ci viene ispirato dalla fede. Nel nostro mondo,
spesso così buio, con questo amore brilla la luce di Dio.
(dalla Lettera di Benedetto XVI ai lettori di Famiglia cristiana, numero 6/2006 del 1
febbraio 2006, per presentare l’enciclica Deus Caritas est)
23. ...Può risultare utile un riferimento alle primitive strutture giuridiche
riguardanti il servizio della carità nella Chiesa. Verso la metà del IV
secolo prende forma in Egitto la cosiddetta «diaconia»; essa
è nei singoli monasteri l'istituzione responsabile per il complesso delle
attività assistenziali, per il servizio della carità appunto. Da questi inizi si
sviluppa in Egitto fino al VI secolo una corporazione con piena capacità giuridica, a
cui le autorità civili affidano addirittura una parte del grano per la distribuzione
pubblica. In Egitto non solo ogni monastero ma anche ogni diocesi finisce per avere la sua
diaconia — una istituzione che si sviluppa poi sia in oriente sia in occidente.
Papa Gregorio Magno († 604) riferisce della diaconia di Napoli. Per Roma le
diaconie sono documentate a partire dal VII e VIII secolo; ma naturalmente già prima, e
fin dagli inizi, l'attività assistenziale per i poveri e i sofferenti, secondo i
principi della vita cristiana esposti negli Atti degli Apostoli, era parte essenziale della
Chiesa di Roma. Questo compito trova una sua vivace espressione nella figura del diacono
Lorenzo († 258). La descrizione drammatica del suo martirio era nota già a
sant'Ambrogio († 397) e ci mostra, nel suo nucleo, sicuramente l'autentica figura del
Santo. A lui, quale responsabile della cura dei poveri di Roma, era stato concesso qualche
tempo, dopo la cattura dei suoi confratelli e del Papa, per raccogliere i tesori della Chiesa e
consegnarli alle autorità civili. Lorenzo distribuì il denaro disponibile ai
poveri e li presentò poi alle autorità come il vero tesoro della Chiesa. Comunque
si valuti l'attendibilità storica di tali particolari, Lorenzo è rimasto presente
nella memoria della Chiesa come grande esponente della carità ecclesiale.
24. Un accenno alla figura dell'imperatore Giuliano l'Apostata († 363) può
mostrare ancora una volta quanto essenziale fosse per la Chiesa dei primi secoli la
carità organizzata e praticata. Bambino di sei anni, Giuliano aveva assistito
all'assassinio di suo padre, di suo fratello e di altri familiari da parte delle guardie del
palazzo imperiale; egli addebitò questa brutalità — a torto o a ragione
— all'imperatore Costanzo, che si spacciava per un grande cristiano. Con ciò la
fede cristiana risultò per lui screditata una volta per tutte. Divenuto imperatore,
decise di restaurare il paganesimo, l'antica religione romana, ma al contempo di
riformarlo, in modo che potesse diventare realmente la forza trainante dell'impero. In questa
prospettiva si ispirò ampiamente al cristianesimo. Instaurò una gerarchia di
metropoliti e sacerdoti. I sacerdoti dovevano curare l'amore per Dio e per il prossimo. In
una delle sue lettere aveva scritto che l'unico aspetto del cristianesimo che lo colpiva era
l'attività caritativa della Chiesa. Fu quindi un punto determinante, per il suo nuovo
paganesimo, affiancare al sistema di carità della Chiesa un'attività equivalente
della sua religione. I « Galilei » — così egli diceva —
avevano conquistato in questo modo la loro popolarità. Li si doveva emulare ed anche
superare. L'imperatore in questo modo confermava dunque che la carità era una
caratteristica decisiva della comunità cristiana, della Chiesa.
25. Giunti a questo punto, raccogliamo dalle nostre riflessioni due dati essenziali:
a) L'intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della
Parola di Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia),
servizio della carità (diakonia). Sono compiti che si presuppongono a vicenda e
non possono essere separati l'uno dall'altro. La carità non è per la Chiesa una
specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma
appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza...
26. Fin dall'Ottocento contro l'attività caritativa della Chiesa è stata
sollevata un'obiezione, sviluppata poi con insistenza soprattutto dal pensiero marxista. I
poveri, si dice, non avrebbero bisogno di opere di carità, bensì di giustizia. Le
opere di carità — le elemosine — in realtà sarebbero, per i ricchi,
un modo di sottrarsi all'instaurazione della giustizia e di acquietare la coscienza,
conservando le proprie posizioni e frodando i poveri nei loro diritti. Invece di contribuire
attraverso singole opere di carità al mantenimento delle condizioni esistenti,
occorrerebbe creare un giusto ordine, nel quale tutti ricevano la loro parte dei beni del mondo
e quindi non abbiano più bisogno delle opere di carità. In questa argomentazione,
bisogna riconoscerlo, c'è del vero, ma anche non poco di errato. È vero
che norma fondamentale dello Stato deve essere il perseguimento della giustizia e che lo scopo
di un giusto ordine sociale è di garantire a ciascuno, nel rispetto del principio di
sussidiarietà, la sua parte dei beni comuni. È quanto la dottrina cristiana
sullo Stato e la dottrina sociale della Chiesa hanno sempre sottolineato. La questione del
giusto ordine della collettività, da un punto di vista storico, è entrata in una
nuova situazione con la formazione della società industriale nell'Ottocento. Il sorgere
dell'industria moderna ha dissolto le vecchie strutture sociali e con la massa dei salariati ha
provocato un cambiamento radicale nella composizione della società, all'interno della
quale il rapporto tra capitale e lavoro è diventato la questione decisiva — una
questione che sotto tale forma era prima sconosciuta. Le strutture di produzione e il capitale
erano ormai il nuovo potere che, posto nelle mani di pochi, comportava per le masse lavoratrici
una privazione di diritti contro la quale bisognava ribellarsi.
27. È doveroso ammettere che i rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo
lentamente che il problema della giusta struttura della società si poneva in modo
nuovo. Non mancarono pionieri: uno di questi fu, ad esempio, il Vescovo Ketteler di Magonza
(† 1877). Come risposta alle necessità concrete sorsero pure circoli,
associazioni, unioni, federazioni e soprattutto nuove Congregazioni religiose, che
nell'Ottocento scesero in campo contro la povertà, le malattie e le situazioni di
carenza nel settore educativo. Nel 1891, entrò in scena il magistero pontificio con
l'Enciclica Rerum novarum di Leone XIII. Vi fece seguito, nel 1931, l'Enciclica di Pio XI
Quadragesimo anno. Il beato Papa Giovanni XXIII pubblicò, nel 1961, l'Enciclica Mater et
magistra, mentre Paolo VI nell'Enciclica Populorum progressio (1967) e nella Lettera apostolica
Octogesima adveniens (1971) affrontò con insistenza la problematica sociale, che nel
frattempo si era acutizzata soprattutto in America Latina. Il mio grande Predecessore Giovanni
Paolo II ci ha lasciato una trilogia di Encicliche sociali: Laborem exercens (1981),
Sollicitudo rei socialis (1987) e infine Centesimus annus (1991). Così nel confronto con
situazioni e problemi sempre nuovi è venuta sviluppandosi una dottrina sociale
cattolica, che nel 2004 è stata presentata in modo organico nel Compendio della
dottrina sociale della Chiesa, redatto dal Pontificio Consiglio Iustitia et Pax. Il
marxismo aveva indicato nella rivoluzione mondiale e nella sua preparazione la panacea per la
problematica sociale: attraverso la rivoluzione e la conseguente collettivizzazione dei
mezzi di produzione — si asseriva in tale dottrina — doveva improvvisamente andare
tutto in modo diverso e migliore. Questo sogno è svanito. Nella situazione difficile
nella quale oggi ci troviamo anche a causa della globalizzazione dell'economia, la dottrina
sociale della Chiesa è diventata un'indicazione fondamentale, che propone orientamenti
validi ben al di là dei confini di essa: questi orientamenti — di fronte al
progredire dello sviluppo — devono essere affrontati nel dialogo con tutti coloro che si
preoccupano seriamente dell'uomo e del suo mondo.
28. Per definire più accuratamente la relazione tra il necessario impegno per la
giustizia e il servizio della carità, occorre prendere nota di due fondamentali
situazioni di fatto:
a) Il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale
della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe ad una grande
banda di ladri, come disse una volta Agostino: «Remota itaque iustitia quid sunt
regna nisi magna latrocinia?». Alla struttura fondamentale del cristianesimo
appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di
Dio (cfr Mt 22, 21), cioè la distinzione tra Stato e Chiesa o, come dice il
Concilio Vaticano II, l'autonomia delle realtà temporali. Lo Stato non può
imporre la religione, ma deve garantire la sua libertà e la pace tra gli aderenti alle
diverse religioni; la Chiesa come espressione sociale della fede cristiana, da parte sua, ha la
sua indipendenza e vive sulla base della fede la sua forma comunitaria, che lo Stato deve
rispettare. Le due sfere sono distinte, ma sempre in relazione reciproca.
La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La
politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici
ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa
è di natura etica. Così lo Stato si trova di fatto inevitabilmente di fronte
all'interrogativo: come realizzare la giustizia qui ed ora? Ma questa domanda presuppone
l'altra più radicale: che cosa è la giustizia? Questo è un problema che
riguarda la ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo
essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere
dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente
eliminabile.
In questo punto politica e fede si toccano. Senz'altro, la fede ha la sua specifica natura di
incontro con il Dio vivente — un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di
là dell'ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza
purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi
accecamenti e perciò l'aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione
di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è
proprio. È qui che si colloca la dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire
alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede
prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire
alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che
è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato.
La dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale,
cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano. E
sa che non è compito della Chiesa far essa stessa valere politicamente questa
dottrina: essa vuole servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire
affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la
disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con
situazioni di interesse personale. Questo significa che la costruzione di un giusto ordinamento
sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è
un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un
compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome
è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire
attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo
specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e
politicamente realizzabili.
La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per
realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al
posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per
la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve
risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche
rinunce, non può affermarsi e prosperare. La società giusta non può
essere opera della Chiesa, ma deve essere realizzata dalla politica. Tuttavia l'adoperarsi per
la giustizia lavorando per l'apertura dell'intelligenza e della volontà alle esigenze
del bene la interessa profondamente.
b) L'amore — caritas — sarà sempre necessario, anche nella
società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che
possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a
sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di
consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni
di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un
concreto amore per il prossimo. Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in
sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può
assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente — ogni uomo — ha bisogno:
l'amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò
che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del
principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e
uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una
di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell'amore suscitato dallo Spirito di
Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e
cura dell'anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale.
L'affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero superflue le opere di
carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell'uomo: il pregiudizio secondo
cui l'uomo vivrebbe «di solo pane» (Mt 4, 4; cfr Dt 8, 3) —
convinzione che umilia l'uomo e disconosce proprio ciò che è più
specificamente umano.
29. Così possiamo ora determinare più precisamente, nella vita della Chiesa, la
relazione tra l'impegno per un giusto ordinamento dello Stato e della società, da una
parte, e l'attività caritativa organizzata, dall'altra. Si è visto che la
formazione di strutture giuste non è immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene
alla sfera della politica, cioè all'ambito della ragione autoresponsabile. In questo, il
compito della Chiesa è mediato, in quanto le spetta di contribuire alla purificazione
della ragione e al risveglio delle forze morali, senza le quali non vengono costruite strutture
giuste, né queste possono essere operative a lungo.
Il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è invece
proprio dei fedeli laici. Come cittadini dello Stato, essi sono chiamati a partecipare in prima
persona alla vita pubblica. Non possono pertanto abdicare «alla molteplice e svariata
azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere
organicamente e istituzionalmente il bene comune». Missione dei fedeli laici
è pertanto di configurare rettamente la vita sociale, rispettandone la legittima
autonomia e cooperando con gli altri cittadini secondo le rispettive competenze e sotto la
propria responsabilità. Anche se le espressioni specifiche della carità
ecclesiale non possono mai confondersi con l'attività dello Stato, resta tuttavia vero
che la carità deve animare l'intera esistenza dei fedeli laici e quindi anche la loro
attività politica, vissuta come «carità sociale».
Le organizzazioni caritative della Chiesa costituiscono invece un suo opus proprium,
un compito a lei congeniale, nel quale essa non collabora collateralmente, ma agisce come
soggetto direttamente responsabile, facendo quello che corrisponde alla sua natura. La
Chiesa non può mai essere dispensata dall'esercizio della carità come
attività organizzata dei credenti e, d'altra parte, non ci sarà mai una
situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché
l'uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell'amore.
31. ...
b) L'attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti ed
ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico e non sta al servizio
di strategie mondane, ma è attualizzazione qui ed ora dell'amore di cui l'uomo ha sempre
bisogno. Il tempo moderno, soprattutto a partire dall'Ottocento, è dominato da diverse
varianti di una filosofia del progresso, la cui forma più radicale è il marxismo.
Parte della strategia marxista è la teoria dell'impoverimento: chi in una situazione
di potere ingiusto — essa sostiene — aiuta l'uomo con iniziative di carità,
si pone di fatto a servizio di quel sistema di ingiustizia, facendolo apparire, almeno fino a
un certo punto, sopportabile. Viene così frenato il potenziale rivoluzionario e quindi
bloccato il rivolgimento verso un mondo migliore. Perciò la carità viene
contestata ed attaccata come sistema di conservazione dello status quo. In
realtà, questa è una filosofia disumana. L'uomo che vive nel presente viene
sacrificato al moloch del futuro — un futuro la cui effettiva realizzazione rimane
almeno dubbia. In verità, l'umanizzazione del mondo non può essere promossa
rinunciando, per il momento, a comportarsi in modo umano. Ad un mondo migliore si contribuisce
soltanto facendo il bene adesso ed in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la
possibilità, indipendentemente da strategie e programmi di partito. Il programma del
cristiano — il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù —
è «un cuore che vede». Questo cuore vede dove c'è bisogno di amore e
agisce in modo conseguente. Ovviamente alla spontaneità del singolo deve aggiungersi,
quando l'attività caritativa è assunta dalla Chiesa come iniziativa comunitaria,
anche la programmazione, la previdenza, la collaborazione con altre istituzioni simili.
(dalla prima enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est)
Quando il cristianesimo cercò nel mondo romano una parola, con la
quale potesse esprimere, in modo sintetico e comprensibile per tutti, cosa significava
Gesù Cristo per loro, ci si imbatté nella parola Conservator, con la
quale era descritto a Roma il compito essenziale e il servizio più elevato, che era
necessario rendere all’umanità. Ma proprio questo titolo i cristiani non poterono
e non vollero trasferire sul loro redentore; non potevano proprio tradurre in tal modo la
parola Messia-Cristo, il compito del salvatore del mondo.
Dal punto di vista dell’impero romano doveva in realtà apparire come il più
importante compito quello di conservare la situazione dell’impero contro tutte le sue
minacce interne ed esterne, poiché questo impero incarnava uno spazio di pace e di
diritto, nel quale gli uomini potevano vivere in sicurezza e dignità. Di fatto i
cristiani – già anche la generazione apostolica – hanno saputo apprezzare
questa garanzia di diritto e di pace che l’impero romano offriva.
Ai padri della Chiesa davanti al caos minacciante, che si annunciava con le invasioni di
altri popoli, interessava certamente il mantenimento dell’impero, delle sue garanzie
giuridiche, del suo ordinamento di pace. Nondimeno i cristiani non potevano semplicemente
volere che tutto rimanesse come era; l’Apocalisse, che certamente con la sua
visione dell’impero si colloca al margine del Nuovo Testamento, dimostrava chiaramente
per tutti che vi era anche qualcosa che non poteva essere conservato, ma doveva essere
cambiato.
Che Cristo non potesse essere designato come Conservator, ma come Salvator,
non aveva certamente alcun significato politico-rivoluzionario, ma indicava nondimeno i
limiti della pura conservazione e rinviava a una dimensione dell’esistenza umana, che va
al di là delle funzioni di pace e di ordine proprie della politica.
Cerchiamo di approfondire un poco questo episodio particolare di una forma della comprensione
esistenziale del compito della politica. Dietro l’alternativa, che si era a noi mostrata
finora in modo piuttosto indistinto nella contrapposizione fra il titolo di Conservator
e di Salvator, si evidenziano in realtà due diverse visioni di ciò che
l’agire politico ed etico deve e può realizzare, in cui non solo politica e
morale, ma anche politica, religione e morale appaiono reciprocamente intrecciate in diverse
modalità.
Da una parte vi è la visione statica, orientata alla conservazione, che forse si
manifesta nel modo più evidente nell’universalismo cinese: l’ordine del
cielo, eternamente eguale, offre il suo criterio anche all’agire terreno. È il
Tao, la legge dell’essere e della realtà, che gli uomini devono
riconoscere e riprendere nell’agire. Il Tao è legge sia cosmica che morale.
Garantisce l’armonia di cielo e terra e così anche l’armonia della vita
politica e sociale. Disordine, turbamento della pace, caos insorgono quando l’uomo si
rivolge contro il Tao, vive ignorandolo o contro di esso.
Allora contro tali turbamenti e devastazioni della vita comune deve essere restaurato il
Tao e così il mondo reso nuovamente vivibile. Tutto dipende dalla conservazione
dell’ordine durevole o dal ritorno a esso, qualora fosse stato abbandonato. Qualcosa
di analogo è espresso nel concetto indiano del Dharma, che significa
l’ordine tanto cosmico che etico e sociale, al quale l’uomo deve adeguarsi,
perché la vita si sviluppi armonicamente.
Il buddismo ha relativizzato questa visione insieme cosmica, politica e religiosa, in quanto
ha spiegato tutto quanto il mondo come un ciclo di sofferenze; la salvezza non va cercata nel
cosmo, ma nell’uscire da esso. Ma non ha creato nessuna nuova visione politica, in
quanto la ricerca della salvezza è concepita in modo non mondano – come
orientamento al Nirvana; per il mondo in quanto tale non vengono proposti nuovi
modelli.
Diversamente la fede d’Israele. Anch’essa in realtà con l’alleanza
stretta da Dio con Noè conosce qualcosa come un ordine cosmico e la promessa della sua
stabilità. Ma per la fede dello stesso Israele l’orientamento verso il futuro
diventa sempre più evidente. Non l’eternamente immobile, l’oggi sempre
uguale a se stesso, ma il domani, il futuro non ancora presente appare come il luogo della
salvezza.
Il libro di Daniele, la cui redazione si colloca per altro nel corso del Secondo secolo
avanti Cristo, offre due grandi visioni storico-teologiche, che divennero di enorme significato
per l’ulteriore sviluppo del pensiero politico e religioso. Nel secondo capitolo si trova
la visione della statua, che è costituita in parte d’oro, in parte
d’argento, in parte di ferro e infine anche di argilla. Questi quattro elementi indicano
una successione di quattro regni.
Alla fine tutti vengono distrutti da una pietra che si stacca da una montagna senza
partecipazione di mano d’uomo e che riduce il tutto in polvere, così che il vento
ne porta via i resti e di essi non ne rimane più alcuna traccia. La pietra invece
diventa una grande montagna e riempie tutta quanta la terra – simbolo di un regno, che
il Dio del cielo e della terra erigerà e che non verrà meno per
l’eternità (2,44).
Nel settimo capitolo del medesimo libro appare con un simbolismo forse ancora più
impressionante la successione dei regni come il susseguirsi di quattro belve, sulle quali alla
fine Dio – presentato come «vegliardo» – esercita un giudizio. Le
quattro belve – i grandi imperi della storia del mondo – erano salite dal mare, che
rappresenta il simbolo della potenza di minaccia contro la vita per mezzo della morte e dei
suoi poteri; dopo il giudizio tuttavia giunge dal cielo l’uomo («un figlio
d’uomo»), e gli vengono consegnati tutti i popoli, le nazioni e le lingue per un
regno, che è eterno, intramontabile e che mai passerà.
Mentre nelle concezioni del Tao e del Dharma gli ordinamenti eterni del cosmo
hanno un ruolo, l’idea di «storia» quindi non appare affatto, qui ora la
«storia» è concepita come una realtà specifica, non riconducibile al
cosmo, e con questa realtà antropologica e dinamica precedentemente non avvertita si
inaugura una visione totalmente diversa.
È evidente che una tale rappresentazione di una successione storica di regni, che sono
belve voraci in forme sempre più spaventose, non poteva formarsi in uno dei popoli
dominatori, ma presuppone quale suo supporto sociologico un popolo che ha coscienza di
essere esso stesso minacciato dalla voracità di queste belve e ha anche sperimentato
un susseguirsi di potenze che gli hanno conteso il diritto all’esistenza.
È la visione degli oppressi, che guardano a una svolta della storia e non possono
essere interessati alla conservazione dell’esistente. Nella visione di Daniele la svolta
della storia si realizza non per un’azione politica o militare – a questo fine
mancano semplicemente le forze necessarie. Essa subentra solo per un intervento di Dio: la
pietra, che distrugge i regni, si stacca da una montagna «non per mano di uomo»
(2,34).
I Padri della Chiesa videro qui un misterioso preannuncio della nascita di Gesù dalla
Vergine, solo per la potenza di Dio; in Cristo essi vedono la pietra, che alla fine diventa
montagna e riempie la terra. Nuovo rispetto alle visioni cosmiche, nelle quali
semplicemente il Tao o il Dharma stesso si presentano come la potenza del divino,
come il «divino», è dunque non solo l’apparire della storia non
riducibile al cosmo, ma questa terza realtà e allo stesso tempo prima: un Dio che
agisce, al quale si rivolge la speranza degli oppressi.
Ma già con i Maccabei, che sono da collocare all’incirca nella stessa epoca
delle visioni di Daniele, anche l’uomo stesso deve prendere in mano la causa di Dio con
un’azione politica e militare; in alcune parti della letteratura di Qumran la fusione
di speranza teologica e di azione propriamente umana diventa ancora più evidente. Infine
la lotta di Bar Kocheba ha il senso di una chiara politicizzazione del messianismo: Dio si
serve per la svolta di un «Messia», che per incarico e con l’autorità
di Dio introduce la novità per mezzo di un’azione politica e militare.
Il Sacrum imperium dei cristiani sia nella sua variante bizantina che in quella
latina non ha potuto né voluto riprendere tali concezioni, tanto più in quanto i
mpegnato nuovamente nella conservazione dell’ordine mondiale fondato ora
cristianamente, con la convinzione per altro che si era nella sesta epoca della storia,
nell’età della vecchiaia e poi sarebbe venuto l’altro mondo, che come ottavo
giorno di Dio già correva parallelamente alla storia e quindi sarebbe a questa
definitivamente subentrato.
In realtà l’apocalittica – come si definisce la corrente della
speranza critica della storia, al cui inizio sta il libro di Daniele – non è
mai del tutto scomparsa. Essa emerge nuovamente con crescente virulenza a partire
dall’illuminismo e diviene ora a partire dal Diciannovesimo secolo in forma secolarizzata
e in variazioni contrastanti, la visione politica dominante. La sua forma radicale si trova
nel marxismo, che si ricollega a Daniele in quanto valuta negativamente tutta la storia
precedente come storia di oppressione e inoltre presuppone come supporto sociologico la
classe degli sfruttati, degli operai innanzitutto privati di ogni diritto e dei contadini
dipendenti.
Con un capovolgimento sorprendente, sui motivi del quale non si è ancora riflettuto
abbastanza, è però poi divenuto sempre più la religione degli
intellettuali, mentre i lavoratori erano giunti per mezzo di riforme a diritti che rendevano
per essi superflua la rivoluzione – la grande evasione dall’attuale forma
storica. Per essi non era più necessaria la pietra che distruggeva i regni:
puntavano piuttosto sull’altra figura di Daniele, quella del leone, che fu messo sui due
piedi come un uomo e al quale fu dato un cuore di uomo (7,4).
Ma dobbiamo forse esaminare ancora un poco più da vicino la fisionomia del nuovo
messianismo secolare, come esso si è manifestato nel marxismo, perché esso si
aggira ancora come uno spettro in forme diverse nelle anime di molti. Il fondamento di
questa nuova concezione della storia è costituito da una parte dalla teoria
dell’evoluzione trasferita sulla storia, dall’altra – non senza un legame
con la precedente – dalla fede nel progresso nella versione che Hegel le aveva
dato.
Il collegamento con la teoria dell’evoluzione significa che la storia è vista in
modo biologistico, anzi, materialistico e deterministico: essa ha le sue leggi e il suo corso,
contro il quale si può lottare, ma che alla fine non può essere arrestato.
L’evoluzione è subentrata al posto di Dio. «Dio» significa ora:
sviluppo, progresso. Ma questo progresso – qui entra Hegel – si realizza in
movimenti dialettici; anch’esso ultimamente è compreso in forma deterministica.
L’ultima tappa dialettica è il salto dalla storia dell’oppressione nella
definitiva storia della salvezza – il passaggio dalle belve al figlio dell’uomo, si
potrebbe dire con Daniele. Il regno del Figlio dell’uomo si chiama ora
«società senza classi».
Sebbene da una parte i salti dialettici come eventi naturali avvengano necessariamente,
concretamente essi si verificano di fatto attraverso un cammino politico. Il corrispondente
politico del salto dialettico è la rivoluzione. Esso è l’opposto della
riforma, che si deve respingere, poiché essa in realtà suscita
l’impressione che alla belva sia dato un cuore d’uomo e non sia più
necessario combatterla. Le riforme distruggono lo slancio rivoluzionario; pertanto si
collocano contro la logica interna della storia, sono un’involuzione invece di
un’evoluzione, quindi alla fine nemiche del progresso.
Rivoluzione e utopia – la nostalgia di un mondo perfetto – sono collegate:
sono la forma concreta di questo nuovo messianismo, politico e secolarizzato. L’idolo del
futuro divora il presente; l’idolo della rivoluzione è l’avversario
dell’agire politico razionale in vista di un concreto miglioramento del mondo. La
visione teologica di Daniele, dell’apocalittica in genere, è applicata alla
realtà secolare, ma allo stesso tempo mitizzata. Infatti entrambe le due idee politiche
portanti – rivoluzione e utopia – sono, nel loro legame con l’evoluzione e la
dialettica, un mito assolutamente antirazionale: la smitizzazione è urgentemente
necessaria, perché la politica possa svolgere la sua opera in modo veramente
razionale.
Dove si colloca ora però, prescindendo da Daniele e dal messianismo politico, la fede
cristiana? Qual è la sua visione della storia e per quanto riguarda il nostro agire
storico? Prima che io possa tentare di formulare un giudizio complessivo, dobbiamo dare uno
sguardo ai più importanti testi del Nuovo Testamento. Qui si possono, senza grandi
analisi, distinguere facilmente due gruppi di testi: da una parte vi sono i testi dei Vangeli e
degli Atti degli apostoli, che al massimo da lontano lasciano intravedere legami con
l’apocalittica; dall’altra parte vi è l’Apocalisse di Giovanni, che
– come già dice il nome – appartiene alla corrente
dell’apocalittica.
È noto che i testi delle lettere degli apostoli – in consonanza con la
visione tratteggiata nei Vangeli – non sono affatto toccate dal pathos della
rivoluzione, anzi, vi si oppongono chiaramente. I due testi fondamentali di Rom 13,1-6 e di
1 Pt 2,13-17 sono molto chiari e da sempre una spina nell’occhio per tutti i
rivoluzionari. Romani 13 chiede che «ciascuno» (letteralmente: ogni anima) stia
sottomesso alle autorità costituite, perché non c’è alcuna
autorità se non da Dio. Un’opposizione all’autorità sarebbe pertanto
un’opposizione contro l’ordine stabilito da Dio. Ci si deve sottomettere quindi non
solo per costrizione, ma per ragioni di coscienza.
In modo del tutto analogo la prima Lettera di Pietro richiede sottomissione alle
autorità legittime «per amore del Signore»: «Perché questa
è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca
all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della
libertà come di un velo per coprire la malizia...». Né Paolo né
Pietro esprimono qui un’esaltazione acritica dello Stato romano. Sebbene essi affermino
l’origine divina degli ordinamenti giuridici statali, sono ben lontani da una
divinizzazione dello Stato.
Proprio perché essi vedono i limiti dello Stato, che non è Dio e non si
può presentare come Dio, riconoscono la funzione dei suoi ordinamenti e il suo valore
morale. Si collocano così in una buona tradizione biblica – pensiamo a Geremia,
che esorta gli israeliti esiliati alla lealtà nei confronti dello Stato oppressore di
Babilonia, nella misura in cui questo Stato garantisce il diritto e la pace e così anche
il relativo benessere di Israele, che è la condizione della sua restaurazione come
popolo.
Pensiamo al Deutero-Isaia, che non ha paura di designare Ciro come l’unto di Dio: il
re dei persiani, che non conosce il Dio d’Israele e fa ritornare il popolo in patria per
considerazioni puramente pragmatico-politiche, agisce nondimeno, dal momento che si impegna per
il ristabilimento del diritto, come strumento di Dio. In questa linea si muove la risposta
di Gesù ai farisei e agli erodiani in merito alla questione delle tasse: ciò che
è di Cesare, deve essere dato a Cesare (Mc 13,12–17).
Nella misura in cui l’imperatore romano è garante del diritto, egli può
esigere obbedienza; naturalmente l’ambito del dovere di obbedienza viene allo stesso
tempo ridotto: esiste ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio.
Laddove Cesare si innalza a Dio, ha superato i suoi limiti e l’obbedienza sarebbe allora
rinnegamento di Dio. Sostanzialmente è in questa linea anche la risposta di
Gesù a Pilato, nella quale il Signore proprio di fronte al giudice ingiusto riconosce
tuttavia che il potere per l’esercizio del ruolo di giudice, del servizio al diritto,
può essere dato solo dall’alto (Gv 19,11).
Se si considerano queste correlazioni, appare una concezione dello Stato molto sobria: non
è determinante la credibilità personale o le buone intenzioni soggettive degli
organi dello Stato. Nella misura in cui garantiscono la pace e il diritto, corrispondono a
una disposizione divina; con una terminologia di oggi diremmo: rappresentano un ordinamento
creaturale.
Lo Stato è da rispettare proprio nella sua profanità; è necessario
a partire dall’essenza dell’uomo come animal sociale et politicum, si fonda
su questa natura umana e così è corrispondente alla creazione. In tutto questo
è allo stesso tempo contenuta una delimitazione dello Stato: esso ha il suo ambito,
che non può superare; deve rispettare il più alto diritto di Dio. Il rifiuto
dell’adorazione dell’imperatore e in genere il rifiuto del culto dello Stato
è in fondo semplicemente il rifiuto dello Stato totalitario.
Nella prima lettera di Pietro si manifesta molto chiaramente questa linea di demarcazione,
quando l’apostolo dice: «Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro o
malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non ne arrossisca; glorifichi anzi Dio
per questo nome» (4,15s). Il cristiano è vincolato all’ordine giuridico
dello Stato come a un ordinamento morale. Qualcosa di diverso è quando egli soffre
«come cristiano»: laddove lo Stato punisce l’essere cristiano come tale,
non esercita il potere come garante, ma come distruttore del diritto. Allora non è
vergogna, ma un onore, essere puniti.
Chi soffre per questo motivo, si pone proprio nella sofferenza nella sequela di Cristo: il
Cristo crocifisso indica i limiti del potere statale e mostra ove hanno fine i suoi diritti e
la resistenza nella sofferenza diventa una necessità. La fede del Nuovo Testamento non
conosce il rivoluzionario, ma il martire: il martire riconosce l’autorità dello
Stato, conosce però anche i suoi limiti. La sua resistenza consiste nel fatto che
egli fa tutto ciò che è al servizio del diritto e della comunità
organizzata, anche se proviene da autorità estranee o ostili alla fede, ma egli non
obbedisce laddove gli viene ordinato di fare il male, cioè di mettersi contro la
volontà di Dio. La sua resistenza non è la resistenza della violenza attiva, ma
la resistenza di colui che è pronto a soffrire per la volontà di Dio: il
combattente della resistenza, che muore con l’arma in mano, non è un martire nel
senso del Nuovo Testamento.
La medesima linea si rivela anche se guardiamo ad altri testi del Nuovo Testamento, che
prendono posizione nei confronti del problema dell’atteggiamento cristiano davanti allo
Stato. Tito 3,1 dice: «Ricorda loro di essere sottomessi ai magistrati e alle
autorità, di obbedire, di essere pronti per ogni opera buona...». Molto indicativo
è 2 Tess 3,10-12, laddove l’apostolo si rivolge contro coloro che –
certamente con il pretesto dell’attesa cristiana del ritorno del Signore – non
lavorano e non vogliono fare niente di utile. Essi vengono invece esortati a lavorare
pacificamente, perché «chi non lavora, non mangia». L’escatologia
entusiasta viene fortemente richiamata a ridimensionarsi.
Un aspetto importante appare anche in 1 Tim 2,2, dove i cristiani vengono esortati a pregare
per il re e per tutte le autorità, «perché possiamo trascorrere una vita
calma e tranquilla». Due cose appaiono qui chiaramente: i cristiani pregano per il re
e per le autorità, ma non adorano il re. Il testo data o dal tempo di Nerone –
se ne è autore Paolo – o, se è da collocare più tardi,
all’incirca dal tempo di Domiziano, quindi due tiranni ostili ai cristiani.
Nondimeno i cristiani pregano per colui che governa, perché egli possa adempiere il suo
compito. Naturalmente qualora egli si faccia Dio, gli rifiutano obbedienza. Il secondo elemento
consiste nel fatto che viene formulato il compito dello Stato in una forma straordinariamente
sobria, che sembra quasi banale: deve preoccuparsi della pace interna ed esterna. Ciò
può, come detto, suonare piuttosto banale, ma in realtà vi è espressa una
istanza essenzialmente morale: la pace interna ed esterna sono possibili solo quando sono
assicurati i diritti essenziali dell’uomo e della comunità.
Cerchiamo ora brevemente di inserire queste indicazioni nelle prospettive che abbiamo
incontrato in precedenza. A me sembra che si potrebbero dire due cose. La visione storica
dinamicizzata dell’apocalittica e delle speranze messianiche fa la sua apparizione solo
indirettamente; il messianismo è essenzialmente modificato dalla figura di
Gesù. Esso rimane politicamente rilevante, in quanto indica il punto in cui il martirio
diventa necessario e così viene precisato il limite dei diritti dello Stato.
Ogni martirio tuttavia sta sotto la promessa del Cristo risorto e che ritornerà; in
questo senso rinvia al di là del mondo presente a una nuova, definitiva comunione degli
uomini con Dio e fra di loro. Ma questa delimitazione dell’ambito dello Stato e
questa apertura dell’orizzonte a un futuro mondo nuovo non dissolve gli attuali
ordinamenti statali che sulla base della ragione naturale e della sua logica devono continuare
a governare e sono ordinamenti validi per il tempo della storia. Un messianismo entusiasta
escatologico-rivoluzionario è assolutamente estraneo al Nuovo Testamento.
La storia è per così dire il regno della ragione; la politica non instaura il
Regno di Dio, ma certamente deve preoccuparsi per il giusto regno dell’uomo, ciò
vuol dire: creare i presupposti per una pace interna ed esterna e per una giustizia, nella
quale tutti «possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e
dignità» (1 Tim 2,2). Si potrebbe dire che qui è espresso anche il
postulato della libertà di religione, come viceversa si ritiene la ragione capace
di conoscere i fondamenti morali essenziali dell’essere umano e di realizzarli
politicamente. In questo senso vi è una vicinanza con le posizioni che il Tao
o il Dharma propongono a fondamento dello Stato.
Per questo i cristiani potevano guardare positivamente all’idea stoica della legge
morale naturale, che proponeva analoghe concezioni nel contesto della filosofia greca. La
dinamicizzazione della storia, particolarmente visibile nel libro di Daniele, che non considera
la storia semplicemente in modo cosmico, ma la interpreta come dinamica di bene e male in
movimento progressivo, rimane presente attraverso la speranza messianica.
Essa evidenzia i criteri morali della politica e indica i limiti del potere politico; grazie
all’orizzonte della speranza, che lascia intravedere al di là della storia e in
essa dà il coraggio per il retto agire e per il retto soffrire. In questo senso si
può parlare di una sintesi della visione cosmica e storica. Io credo che a partire di
qui si può perfino definire esattamente dove corre il confine fra l’apocalittica
cristiana e quella non cristiana, gnostica.
L’apocalittica è cristiana allorquando mantiene il legame con la fede nella
creazione; laddove la fede nella creazione, la sua permanenza e la sua fiducia nella ragione
vengono abbandonate, là si compie il trapasso dalla fede cristiana alla gnosi.
All’interno di queste opzioni di fondo vi è senza dubbio una grande
possibilità di variazioni, ma certamente una opzione di fondo comune.
Un’analisi dei testi, che qui non è possibile, potrebbe mostrare che
l’Apocalisse di Giovanni, per quanto il suo pathos di resistenza la distingua
dagli scritti apostolici, resta molto chiaramente all’interno dell’opzione
cristiana.
(Libertà e religione nell'identità dell'Europa, discorso del
card.J.Ratzinger, nel ricevere il premio “Liberal” in occasione delle Giornate
internazionali del pensiero filosofico sul tema: “Le due libertà: Parigi o
Filadelfia?", il 20 settembre del 2002
di Cardinale Joseph Ratzinger)
Quando cinquant'anni fa ho cominciato a dialogare con sant'Agostino, l'ho
trovato quasi subito come un mio contemporaneo. Un uomo che non parla da lontano e da un
contesto totalmente diverso dal nostro, ma che, avendo vissuto in un contesto molto simile al
nostro, risponde, naturalmente alla sua maniera, a problemi che sono proprio anche problemi
nostri. Il primo problema nascosto sotto la parola "potere" è quello della cosiddetta
teologia politica, della relazione tra mondo politico e mondo religioso... Agostino ha
vissuto in un Impero giuridicamente cristiano, dove il cristianesimo era religione di Stato
anche se la maggioranza dei cittadini ancora non erano cristiani. L'imperatore era cristiano e
si considerava il protettore della Chiesa, anzi, la personificazione della Chiesa, che era per
lui quasi identificata con l'Impero. E in uno Stato in cui il cristianesimo è religione
ufficiale, intrecciandosi con i gradi più alti dello Stato, è grande il pericolo
che anche il teologo e il vescovo perdano di vista la differenza tra le due cose e si arrivi a
una politicizzazione della fede incompatibile sia con la sua libertà sia anche con la
sua universalità. In realtà, nel periodo e nella generazione precedenti a
sant'Agostino, Eusebio di Cesarea aveva creato una teologia politica in questo senso, nella
quale l'Impero e la Chiesa quasi si identificano. L'Impero diventa il modo in cui Dio realizza
il suo progetto per la storia. Il problema di quest'identificazione si è rivelato nella
crisi ariana, che non è solo una crisi di insegnamento cristologico, di fede
cristologica, ma è soprattutto una crisi del problema della giusta relazione tra Stato e
Chiesa, tra politica e fede. Pensiamo soltanto all'episodio relativo al Sinodo di Milano del
355, quando Eusebio di Vercelli, una delle grandi figure che resistettero a questa
identificazione, rifiutò di sottostare alla volontà dell'imperatore che voleva
che egli firmasse un documento di fede ariana. A Eusebio, che considera questo documento non
compatibile con le leggi della Chiesa, l'imperatore Costanzo risponde: "La legge della Chiesa
sono io". La fede è divenuta, quindi, una funzione dell'Impero. Eusebio è, con
pochi altri, una della grandi figure che, come ho detto, resistono a queste insinuazioni e
difendono la libertà della Chiesa, la libertà della fede e anche la sua
universalità. Mi arreca realmente gioia il fatto che una rivista di informazione
come 30Giorni abbia presentato per mesi al grande pubblico questa figura in un dialogo col
nostro tempo. Un dialogo che realmente evidenzia la profondità e l'attualità del
suo pensiero. Questo fatto, che sant'Agostino diventa accessibile alle nostre domande, e nella
nostra attualità, è il mio motivo di gioia Questo, una generazione dopo, nella
vita di sant'Agostino, appare già più difficile perché la fede nicena nel
frattempo è accettata anche dagli imperatori. Quindi, non esistendo più questi
conflitti, si potrebbe facilmente essere tentati di entrare in questa identificazione,
arrivando così a un'inculturazione della fede nella quale fede e cultura si identificano
in un modo inseparabile, e la fede perde così la sua universalità sia diacronica
che sincronica. La fede non è, cioè, più in grado di comunicarsi ad altri
mondi di cultura, né ad altri tempi con altre culture. Sant'Agostino era, in questa
grande tentazione, la figura che ha difeso la differenza essenziale, che anche in situazioni
privilegiate di quasi identità della popolazione, non può mai scomparire.
Certamente egli fu aiutato dal fatto che nell'anno 410 i goti conquistarono Roma, la
saccheggiarono, e i pagani reagirono dicendo: "Ecco, questo è successo adesso con il
cristianesimo. Quando c'erano ancora gli dèi della patria, Roma era difesa, era la
capitale del mondo. Adesso avete espulso gli dèi, e san Pietro e san Paolo, i vostri
patroni, non sono in grado di difendere la città. Vediamo che bisogna tornare agli
dèi". E così i pagani si fanno (giustamente dal loro punto di vista) propagatori
di una teologia politica in cui gli dèi sono in funzione dello Stato e lo Stato è
in funzione delle divinità. Proprio in questa situazione di profonda crisi
spirituale, sant'Agostino capisce e vede che l'identificazione è una caratteristica
della religione pagana, in cui le divinità sono autoctone, sono le divinità
parziali di questa realtà. Mentre una fede che crede nell'unico Dio, nel Dio di tutti i
popoli e di tutte le culture, non può conoscere questa identificazione. E così
insiste sul fatto che Chiesa e Stato non possono confondersi. La Chiesa in tutta la sua
fragilità, in tutto il suo inserimento nelle cose umane di un determinato tempo, anche
nei peccati di un certo tempo, tuttavia è una realtà diversa, un segno di una
nuova società futura che adesso non è Stato, ma che si annuncia, tramite la
Chiesa, per il futuro e muove la storia verso il futuro. Mentre lo Stato rimane lo Stato del
presente e la sua funzione è distinta dalla Chiesa.
Non vorrei adesso approfondire questo, ma mi sembra che il grande merito di sant'Agostino sia
di aver creato questa filosofia, questa teologia della diversità delle funzioni, nella
responsabilità comune guidata dai valori che possono costruire una società
giusta. Sappiamo bene quanto fosse difficile per i contemporanei di sant'Agostino comprendere
questa distinzione. Già il suo amico Orosio, nel suo libro sulla storia, sulla
città di Dio, cade più o meno nella identificazione. Poi, il Medioevo ha creato
un agostinismo politico che era un malinteso del vero agostinismo. Ma, con le letture
approfondite, riappare la grandezza della figura di sant'Agostino. E penso che una filosofia
politica e una vera ecclesiologia, una fede nell'unico Dio che è Dio di tutti, la
ricerca di una vera universalità della fede che si esprime in tutte le culture non
identificandosi mai con una sola di esse possano anche oggi imparare molto dal dialogo con
sant'Agostino.
(dalla relazione per la presentazione del libro di 30Giorni sull’attualità
di sant’Agostino, Il potere e la grazia)
L’incontro tra il messaggio di pace di Betlemme e la promessa augustea
della pax romana ha significato di sintomo rispetto all’urto tra due mondi, alla loro
affinità e alla loro diversità profonda. L’idea dell’unità del
mondo e dell’umanità aveva il suo posto ben saldo nella fede biblica con la
confessione di fede in un unico Dio e col radicarsi di tutta la storia in un unico Adamo e
ancora una volta in un antenato solo, Noè; i due fattori – il punto di
riferimento superiore nella unità di Dio e quello inferiore nell’unità del
capostipite dell’umanità – erano inoltre tenuti uniti dalla concezione di
‘Adamo’, cioè dell’uomo per eccellenza come immagine di Dio e
dall’idea del patto noachico, il cui arco si tende sulla terra intera e la cui protezione
abbraccia tutti gli uomini. Dall’altro lato la filosofia ellenistica aveva colto
l’idea orfica secondo la quale il Tutto nella sua interezza riposa nel gran corpo di Zeus
e di qui aveva elaborato speculativamente a suo modo l’unità tra
divinità,cosmo, umanità; l’impero romano però era conscio di essere
l’attuazione di questa idea nella politica reale, il suo princeps concretava la monarchia
divina sulla terra. Immediatamente balza agli occhi una distinzione fondamentale:
l’unità del mondo nello ambito greco-romano è pensata a partire da una
impostazione panenteistica, la divinità è essa stessa del mondo, ed il mondo ha
rango divino. Pertanto l’unità degli uomini può essere trasposta
direttamente in realtà politica, l’unità è latente entro il mondo
stesso e perciò la si può attuare anche in esso medesimo per mezzo delle forze
che gli sono proprie. L’imperatore romano sa di essere colui che dà esecuzione a
questa potenza cosmica divina e quindi di essere colui che media tra il divino e il mondo degli
uomini. Nella Bibbia, al contrario, Dio si erge libero di fronte al mondo; la storia della
costruzione della torre di Babele, che segue immediatamente l’elenco dei popoli con la
sua dimostrazione dell’unità fra tutti gli uomini, fa sapere al lettore che Dio
per punizione disgregò l’umanità, resasi colpevole, nella
molteplicità delle lingue separate e separanti (Gn 11,1-10). Così la
suddivisione dell’umanità è bensì colpa propria degli uomini, ma al
tempo stesso loro castigo e pertanto non affatto cosa unicamente loro propria, che, a loro
talento, essi possano magari, un giorno, revocare di iniziativa e con forze proprie. Il
contrapporsi di Dio al mondo, nella sua potenza libera e indipendente da esso, limita il potere
e la possibilità dell’uomo, egli non può per nulla produrre di per
sé la unità del mondo, poiché la separazione gli è imposta dal
volere sovrano di Dio. Lo sguardo dell’Antico Testamento va, bensì, sempre a
questo momento avvenire, in cui tutti i popoli peregrineranno al monte Sion, e Gerusalemme
sarà capitale e centro d’una umanità unita, esso però non vede in
tale evento un compito da svolgere direttamente in senso politico, ma una speranza
escatologica, la cui realizzazione, in ultima analisi, è nelle mani di Dio.
Nel Nuovo Testamento questa contrapposizione tra l’idea biblica dell’unità
e quella greco-romana si inasprisce ancor più, poiché, di fronte alla dottrina
dell’Adamo uno, fino allora dominante, se ne presenta una incentrata sui due Adami; essa
conseguenzialmente porta anche a una ulteriore strutturazione della dottrina, già
impostata nell’Antico Testamento, delle due πόλεις in
contrasto con l’idea greco-romana dell’una e unica
χοσμόπολις che dapprima implicò
l’autoidentificazione di ogni πόλις col
χόσμος, più tardi ebbe come conseguenza la
trasposizione della equiparazione πόλις =
χόσμος alla πόλις Roma, unica
rimasta. La dottrina dei due Adami significa che l’umanità finora esistita, la
quale, presa nel suo insieme è ‘un Adamo’, non rappresenta nulla di
definitivo, che essa nella sua totalità reca il marchio del suo inizio difettoso e
perciò, in quanto totalità, è anche qualcosa che deve essere superato, che
deve passare attraverso la Croce, cioè la morte e la rovina. Significa inoltre che
con Cristo, crocifisso e risorto, ha avuto principio la seconda e definitiva umanità,
cui si è incorporati non per discendenza di sangue, ma mediante la sottomissione al
destino di morte del Crocifisso, quindi col superare la condizione umana finora vigente, di
carattere naturale, e con la vita che fluisce dalla umanità nuova, ‘seconda’
del Dio fatto uomo, la quale smaschera come disumanità l’umanità del puro
uomo in atto di deificarsi. In tal modo la comunità dei credenti in Cristo rivendica
il titolo d’essere il secondo e definitivo genere umano, che già da ora va
costruendosi di traverso di mezzo all’umanità antica, essa si pone in analogia
non con le sette misteriche, nemmeno semplicemente con un popolo e una polis (sebbene in un
primo momento lo faccia, intendendo se stessa come il vero Israele), ma con
l’umanità. Pertanto, nella genealogia di Gesù, il Signore viene
presentato non semplicemente come figlio di Abramo e padre di un nuovo Israele, ma anche come
figlio di Adamo, rivendicazione questa di appartenenza al piano universalmente umano (Mt
1,1-17 e Lc 3,23-38). La Chiesa è la nuova cosmopoli, che perciò, di conseguenza,
promette anche realmente un nuovo cosmo (per esempio Ap 21,1).Il suo mettersi di fronte alla
cosmopoli politica Roma è quindi di natura senz’altro diversa dalla
contrapposizione di due πόλεις antiche. In questo secondo
caso, ciascuna pretendeva di impersonare tale cosmo, e perciò di dominarlo. La Chiesa
non pensava a una pretensione del genere, essa confermava espressamente a Roma che per il cosmo
presente questa rappresentava di fatto la cosmopoli; ciò per esempio risultava
presupposto nello sfondo quando la cristianità primitiva designava Roma col nome cosmico
di Babilonia, tratto da Gn 11, il testo fondamentale sull’essenza
dell’umanità attuale, mentre il giudaismo contemporaneo chiamava Roma non
Babilonia, ma Edom. Essa tuttavia dichiarava al tempo stesso che appena nella Chiesa si
preannunciava il cosmo definitivo e vero, cui quello antico un giorno avrebbe dovuto cedere.
La dottrina delle due πόλεις, che fin
dall’Apocalisse apparteneva al patrimonio consolidato della predicazione cristiana, non
è che l’applicazione della dottrina dei due Adami all’immagine di
Gerusalemme il cui significato cosmico ed escatologico era stato già ripensato e
trasformato in senso cristiano da Paolo (Gal 4,26 ss.).
Di fatto non v’è da meravigliarsi che la voce della rivoluzione cristiana sia
potuta spesso risuonare tanto simile a quella della rivoluzione gnostica, da dar ansa allo
scambio; certo, nel fondo, esse si distinguevano nella maniera più radicale. Infatti,
per quanto la fede cristiana volesse designare il cosmo presente e l’umanità
attuale come passeggeri, sconvolti e contaminati dal peccato, mai essa lasciò sorgere un
dubbio che nondimeno questo cosmo fosse opera propria di Dio, e perciò buona, e che il
Dio del cosmo e il Dio di Gesù Cristo fossero un solo e medesimo Dio. I cristiani
sapevano bensì che Dio avrebbe sostituito alla fine questo mondo con uno migliore, il
quale, attraverso di loro, già cominciava a entrare nella realtà, sapevano
altresì tuttavia che il mondo presente non era totalmente malvagio, ma aveva solo
bisogno della trasformazione e trasfigurazione, nella quale doveva risorgere alla gloria
eterna. Perciò non riuscì loro nemmeno difficile capire che l’ordine
presente del mondo, sebbene transitorio, possedeva tuttavia un relativo diritto, perciò,
nel suo ambito, meritava anche rispetto e doveva essere respinto unicamente quando esorbitava
da questo suo quadro e si assolutizzava. Ciò essi trovavano espresso nella nota parola
del Signore: “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di
Dio” (Mc 12,17); trovavano la stessa dottrina nelle lettere dell’apostolo
Pietro (1Pt 2,13-17) e Paolo (Rom 13,1-7). Fondandosi sull’Antico Testamento, sapevano
distinguere tra la funzione e il suo detentore: come il re di Babilonia era potuto essere
‘servo di Dio’ (Ger 25,9), senza conoscere né onorare da parte sua questo
Dio, pure le forze statali dell’impero romano potevano adempiere un mandato, che viene
da Dio, per questo nostro tempo, anche se tali poteri erano amministrati da titolari sommamente
discutibili e indegni. Il cristiano doveva rispettare in essi la disposizione di Dio,
finché e nella misura in cui, cioè, essi stessi si muovevano nella sfera di
questo ordinamento rimesso e destinato loro. Quindi, mentre la rivoluzione gnostica era
anarchica, ponendo per principio in discussione ogni specie di ordinamento che rientrasse in
questo mondo, la rivoluzione cristiana rimaneva limitata, negando bensì la comprensione
che lo stato fino allora aveva avuto di sé, e in tal modo, d’altra parte, le sue
fondamenta teoretiche fino allora vigenti, ma attribuendogli tuttavia, nel proprio nuovo mondo
intellettuale, un nuovo ambito di validità, certo sostanzialmente ridotto.
(Su Origene)
Il problema del come si rapportino mutuamente i valori di ciò che è
universalmente umano e quelli del fattore nazionale costituisce uno dei punti principali della
disputa tra Celso e Origene. Celso non rinfaccia semplicemente ai cristiani una congiura
illegale, ma egli sostiene che essi sono compagni senza patria, che non hanno appartenenza ad
alcun luogo, che tradiscono la legge del loro popolo e quindi si sono posti al di fuori di
tutte le leggi. “Voglio chiedere loro donde siano venuti e qual legge patria seguano.
Nessuna, diranno; dal momento che, derivando essi stessi dalla medesima origine, non hanno un
maestro e capo da un’altra; sono tuttavia giudei apostati”. I cristiani
però, abbandonando le leggi patrie, hanno lasciato il valore dell’elemento
nazionale, si sono posti fuori dall’ordinamento divino del mondo, cui è essenziale
l’inserimento dei singoli uomini nell’ambito di una nazione del tutto determinata e
delle sue forme politiche e religiose. Dio, cioè, non amministra la terra direttamente
lui stesso, ma l’ha distribuita fin dall’inizio sotto diversi sorveglianti, che
hanno dato ai singoli popoli le loro leggi religiose e politiche. La religione è
quindi una parte della realtà nazionale, l’inserimento dell’uomo
nell’ordine della nazione è una disposizione del governo divino del mondo.
A priori, per Origene Israele esula dal problema del fattore nazionale, non è
mai stato ‘nazione’ in senso vero e proprio, ma quell’unica parte
dell’umanità che non entrò nella prigionia dell’elemento nazionale,
bensì rimase ciò che tutti sarebbero potuti e dovuti essere: umanità che
è in contatto diretto, senza mediazione, con Dio. Perciò Origene non
poté, da un lato, accogliere la lode che Celso tributava agli Ebrei perché in
antitesi con i cristiani seguivano una religione nazionale e permanevano nell’ordinamento
del fattore etnico dato da Dio. Pertanto egli dovette però anche assumerne la difesa
contro il rimprovero che la loro coscienza di elezione fosse arrogante e stolta, poiché
altri popoli avevano leggi eguali o simili, e onoravano sotto diversi nomi lo stesso Dio
supremo. No, Israele ha donato al mondo i santi simboli della città di Dio, del
tempio e del suo culto venerabile e con ciò segni che rimandavano, al di sopra delle
nazioni, alla Realtà originaria e più autentica, comune a tutti. Soprattutto:
aveva dato all’uomo quel vero stato, di cui aveva sognato Platone, senza riuscire a
pensarlo in tutta la sua purezza. Se Origene vede il privilegio di Israele nel fatto che non
era entrato nello schema del fattore nazionale, ma era rimasto ‘umanità’ e
in tal modo aveva eretto il vero stato, l’unica vera patria di tutti gli uomini, con
ciò si delinea già chiaramente la sua interpretazione della Chiesa e del suo
rapporto con gli ordinamenti nazionali. Anzitutto è importante però mettere
in risalto ancora più preciso la sua concezione della nazione. Che gli angeli delle
genti esprimano la categoria della realtà nazionale, per noi risulta chiaramente dal
fatto che sono essi ad assegnare ai singoli popoli linguaggio e paese, gli autentici elementi
costitutivi della nazione, e inoltre che anche le culture nazionali sono ricondotte ad essi. Da
quanto si è detto finora, è già chiaro per di più che Origene vede
in tali angeli un ordinamento emanato a modo di punizione, che seguì la defezione
dei popoli dalla unità spirituale dell’umanità. Tuttavia egli va ancora
oltre. Egli vede, negli angeli delle genti, usurpatori che hanno illegalmente avocato a
sé il potere e si sono cercati ambiti di dominio in corrispondenza
dell’empietà degli uomini, che ha aperto loro la porta d’accesso al potere.
L’unico dominatore dell’umanità per diritto è Gesù Cristo.
Gli arconti, come Origene chiama gli angeli delle genti, sono forze del disordine, non
dell’ordine, il loro diritto è iniquità e le loro leggi sono illegali.
Pertanto Satana nella tentazione di Gesù poté riferirsi ai regni di questo mondo
come a regioni della sua sovranità, poiché i suoi arconti, in verità, sono
servi del diavolo.
Origene senza dubbio nella radicalità del suo ethos rivoluzionario si è spinto
sino a giungere a stretto contatto con i confini della concezione gnostica, con la sua
negazione per principio degli ordinamenti naturali. Tuttavia egli - anche nella sua
teologia dell’umanità e dei popoli – è rimasto cristiano ecclesiale;
cioè la rivoluzione predicata da lui non è semplicemente rinnegamento del cosmo,
della struttura d’ordine del mondo; ma, in ultima istanza, addirittura, essa soltanto
è la sua vera conferma e assicurazione.
I cristiani, per lui, in verità erano addirittura maggiori benefattori della patria
che gli altri cittadini, poiché servivano all’educazione del genere umano e
insegnavano la pietà religiosa verso il Dio di tutti gli stati.
Chi si sottopone alla categoria del nazionale, si è, così facendo, portato
“nella prigione”, si è rimesso al potere dominatore del male.
(Su Agostino)
Da una parte (secondo Agostino) Dio ha dato ai suoi — in Israele - un dominio terreno
per annunciare che anch’esso riposa nella sua mano; d’altro lato agli
adoratori dei demoni — nei grandi imperi orientali dapprima, poi a Roma — ha
concesso potenza terrena, per mostrare che questo intero settore non è un valore ultimo,
bensì qualcosa che è senz’altro penultimo, al di sopra del quale
l’uomo deve salire, trascendendolo, per giungere al suo vero fine:
«L’uno e vero Dio dà ai regni terreni beni e mali..., (la vera)
felicità però solo ai buoni. Tanto i sudditi quanto anche i padroni
cioè possono averla e non averla, essa sarà piena poi in quella vita, in cui non
vi saranno più schiavi. I regni terreni però vengono concessi da lui a buoni e
cattivi, affinché i suoi adoratori, rimasti ancora piccoli nella crescita spirituale,
non desiderino da Lui tali cose come alcunché di grande». Il dominio
terreno nelle mani di buoni e cattivi è quindi il segno duplice e unitario insieme di
Dio nella storia, che allude tanto al potere assoluto di Dio come alla relatività dei
valori immanenti al mondo, e particolarmente della grandezza politica. La storia di Roma in
quanto stato terreno in cui alla fine confluì la storia del mondo, consente che si
giunga a una comprensione ancora più profonda di questo dato di fatto. Anzitutto
v’è la storia della repubblica romana che riuscì a spostare innanzi i suoi
confini fino alle estremità della terra. Anche questa fortuna di Roma lascia scorgere
allo sguardo più profondo la medesima dialettica che sta dietro ogni grandezza terrena.
Agli occhi di Agostino il motivo del successo di Roma è la prisca virtus
romana. Ma di che cosa si tratta in verità, nel caso di questa virtù
romana? Essa consiste, per usare l’espressione di Virgilio, nell’amor patriae
laudumque immensa cupido. Essa è rinuncia agli altri vizi in favore dell’unico
vizio della illimitata ambizione, brama di onore patriottico e della volontà di potenza.
Quindi i Romani erano buoni secundum quandam formam terrenae civitatis, buoni se si
assume quale bene sommo la grandezza terrena della nazione. La loro virtù è
sacrificio di molti vizi per amore di uno, quello dell’assolutizzazione della
nazione. Perciò non fu se non giusto che venisse loro concesso pure in realtà
ciò che si sforzavano con tanto ardore di conseguire e per cui erano pronti a
sacrificare tutto: la grandezza nazionale. Ma questa ricompensa che loro elargì il
giusto Iddio costituì al tempo stesso la loro punizione: avevano fatto della grandezza
terrena della nazione il valore supremo e con ciò stesso si erano preclusi
l’accesso alla realtà più grande, ai valori dell’eternità.
Essi appartenevano al novero di coloro sui quali è stata pronunciata la parola del
Signore: “In verità vi dico, voi avete già ricevuto la vostra
mercede” (Mt 6,2).
Alla repubblica seguì in Roma l’età imperiale, essa pure a sua volta con un
duplice volto, poiché aveva prodotto tanto un Nerone quanto un Costantino. Pure
Nerone, modello di ogni ignominia, aveva posseduto il potere su un impero mondiale. Anche
a tali persone il dominio viene concesso soltanto in virtù della provvidenza
dell’altissimo Iddio, quando Egli ritiene che per le cose umane convengano ancora
soltanto tali padroni. Parola poderosa di un uomo che conosceva impietosamente
l’abissalità dell’uomo e la esprimeva senza orpelli o scusanti...
Frattanto, a lato di Nerone sta Costantino ed esclude anche qui ogni unilaterale ripudio della
realtà politica, che la muti in elemento demoniaco. Certo, il potere politico viene
concesso a servi dei demoni per denunciare la esiguità del suo valore; ma è Dio a
darlo, e lo consegna e lo elargisce, in aggiunta, anche ai suoi, per dimostrarsi quale Signore
che fa come vuole. La fortuna politica e militare di un Costantino e di un Teodosio mostra che
non c’è bisogno di ricorrere ai demoni per conseguire tali doni; la politica
non è necessariamente demonizzata, essa non vive di necessità della menzogna e
dell’inosservanza del diritto, ma può prosperare anche nutrendosi dal terreno
della verità e della giustizia.
Per Agostino gli stati e le patrie della terra passano ad un rango secondario perché
egli ha trovato la città, lo stato di Dio e in esso la patria unica di tutti gli uomini.
Qui non è consentito abbandonarsi ad alcuna illusione: tutti gli stati di questa terra
sono “stati terreni”, anche quando sono retti da imperatori cristiani e abitati
più o meno completamente da cittadini cristiani. Sono stati su questa terra e quindi
“terreni” e nemmeno possono divenire di fatto qualcosa d’altro. In quanto
tali, sono forme di ordinamento necessarie di quest’epoca del mondo ed è giusto
preoccuparsi del loro bene; Agostino stesso ha amato lo stato romano come sua patria e si
è preoccupato amorevolmente del suo perdurare. Ma giacché tutte queste formazioni
non sono infine e non rimangono che stati terreni, rappresentano un valore relativo e non
meritano una sollecitudine d’ordine supremo. Essa spetta soltanto alla patria eterna di
tutti gli uomini, alla civitas caelestis. Di nuovo qui troviamo Agostino in
unità con Origene e con l’intera tradizione cristiana, quando è convinto
che con questo nome, civitas caelestis, può essere chiamata non solo la celeste
Gerusalemme avvenire, ma già anche il popolo di Dio nel pellegrinaggio attraverso il
deserto del tempo terreno: la Chiesa. In essa si raccoglie, attraverso tutti i tempi e i
popoli, e al di là dei confini dell’impero romano, la comunità di coloro
che insieme con gli angeli santi di Dio formeranno una polis dell’eternità. Su
questa terra, certo, essa viene in condizione di straniera in esilio e non può vivere
altrimenti che così, poiché ormai il suo vero luogo è altrove.
Così gli stati di questo mondo rimangono “stati terreni” fino alla fine
dei tempi e la Chiesa rimane comunità di stranieri, parimenti fino alla fine dei tempi.
Ciò si mostra nel fatto che la Chiesa è per essenza Chiesa dei martiri.
Il vescovo d’Ippona, quindi, non solo si è rassegnato alla realtà, anzi
necessità, ma anche alla permanente imperfezione dello stato o meglio degli stati in
questo mondo. Pertanto la radicalità escatologica della rivoluzione cristiana in lui
è chiaramente moderata rispetto a Origene. Questa distinzione
nell’atteggiamento si può constatare anche nella concezione dell’unione
dell’intera umanità. Origene come Agostino, con la tradizione tardo-ebraica e
cristiana primitiva, hanno avvertito la suddivisione dell’umanità in nazioni
soprattutto in rapporto al problema del linguaggio: gli uomini sono ineluttabilmente separati
gli uni dagli altri dalla molteplicità dei differenti idiomi. Entrambi vedono in questa
confusione delle lingue il segno del peccato originale, il cui superamento ha avuto
l’esordio in Gesù Cristo. Origene a tal proposito guarda direttamente
all’εσχατον, in cui gli uomini parleranno
tutti un unico linguaggio, e così sarà istituita l’unità
dell’umanità. L’unificazione delle lingue è un dono rigorosamente
escatologico, la speranza si orienta direttamente verso
l’εσχατον. Altrimenti Agostino. In parole di
grandiosa efficacia incisiva, egli contrappone il prodigio delle lingue a Pentecoste alla
confusione delle lingue a Babilonia. Ma, mentre per Origene il prodigio pentecostale era
rimasto un segno escatologico unico e non ripetibile, Agostino vi scorge una rappresentazione
di ciò che avviene d’allora in poi nella Chiesa: l’unica Chiesa
abbraccia nella sua estensione tutti i paesi e le lingue; la comunione nell’amore per il
Signore raccoglie coloro che sono linguisticamente separati: nel corpo di Cristo il miracolo
pentecostale è presenza permanente, esso parla tutte le lingue. “Perché non
vuoi parlare in tutte le lingue? Ecco là risonarono tutte le lingue. Perché ora
colui, cui viene elargito lo Spirito Santo, non può parlare in tutte le lingue? Quello,
voglio dire, era allora il segno del conferimento dello Spirito Santo agli uomini, il fatto che
essi padroneggiavano tutte le lingue. Che cosa dirai quindi ora, eretico? Forse che lo Spirito
Santo non viene dato? Perché lo Spirito Santo non appare in tutte le lingue? Eppure Egli
appare pure oggi ancora in tutte le lingue. Allora la Chiesa non s’era ancora diffusa
sull’orbe terrestre, cosicché membri di Cristo parlassero presso tutti i popoli.
Allora si adempì in uno quanto per preannuncio valeva per tutti. Già il corpo di
Cristo parla tutte le lingue, e quelle che non parla le parlerà. Dunque la Chiesa deve
crescere, per apprendere tutte le lingue... Io parlo in tutte le lingue, oso dirti. Nel corpo
di Cristo io sono, se il corpo di Cristo parla già in tutte le lingue, allora
anch’io sono in tutte le lingue: a me appartiene il greco, a me il siriano, a me
l’ebraico, a me ciò che è di tutti i popoli, perché io sono
nell’unità di tutte le genti”. Ciò che quella torre aveva disperso,
già raduna la Chiesa. Da una lingua ne vennero molte; non meravigliarti –
l’υβρις l’ha fatto. Di tante lingue, se ne forma una,
non meravigliarti, è l’amore che l’ha fatto”.
Sarebbe stimolante, ma porterebbe troppo lontano, contrapporre a queste due teologie del
linguaggio, quella escatologica di Origene, accanto alla quale certo presso di lui se ne trova
una intemporale-mistico-spiritualistica, e quella sacramentale di Agostino quella terza, che si
andò formando nella linea inaugurata da Eusebio di Cesarea, linea secondo la quale
l’unificazione escatologica dei linguaggi è stata creata nell’unità
della lingua imperiale della nuova Roma, quindi sulla via verso la teocrazia politica.
Ciò caratterizza la teologia di questa cerchia in genere, che equivoca
l’universalismo cristiano con quello romano, abbassa quindi il primo al livello politico
e così gli toglie la sua vera e propria grandezza. La breccia attraverso il nazionalismo
è ormai solo apparente: è fissata di nuovo a un’entità politica.
All’opposto presso Agostino l’elemento di novità cristiana è
mantenuto: la sua dottrina delle due civitates non mira né ad ecclesializzare lo stato
né a statalizzare la Chiesa, ma, in mezzo agli ordinamenti di questo mondo, che
rimangono e devono restare ordinamenti mondani, aspira a rendere presente la nuovo forza della
fede nell’unità degli uomini nel corpo di Cristo, come elemento di trasformazione,
la cui forma completa sarà creata da Dio stesso, una volta che questa storia abbia
raggiunto il suo fine.
La sua civitas Dei non è bensì una comunità puramente ideale di tutti gli
uomini che credono in Dio, ma non ha neppure la menoma comunanza con una teocrazia terrena, con
un mondo strutturato cristianamente, bensì è un’entità
sacramentale-escatologica, che vive in questo mondo quale segno del mondo avvenire. Quanto
sia precaria la causa di un mondo cristiano, glielo aveva mostrato l’anno 410, in cui
veramente non erano stati solo i pagani a invocare gli antichi dèi di Roma.
Così per lui lo stato, pure in tutta la reale o apparente cristianizzazione, rimase
“stato terreno” e la Chiesa comunità di stranieri, che accetta e usa le
realtà terrene, ma non è a casa propria in esse. Certo, la convivenza delle due
comunità era divenuta più pacifica di quanto fosse ai tempi di Origene; Agostino
non parlò più della cospirazione contro lo stato “scitico”; ma
ritenne giusto che i cristiani, membri della patria eterna, prestassero servizio in Babilonia
come funzionari, anzi come imperatori. Mentre dunque in Origene non si vede bene come
questo mondo possa proseguire, ma si percepisce soltanto il mandato di tendere allo sbocco
escatologico, Agostino mette in conto una permanenza della situazione attuale, che ritiene
tanto giusta per quest’epoca del mondo, da desiderare un rinnovamento dell’impero
romano. Ma rimane fedele al pensiero escatologico in quanto reputa tutto questo mondo
un’entità provvisoria e non cerca perciò di conferirgli una costituzione
cristiana, ma lascia ch’esso sia mondo, che deve tendere lottando a conseguire il proprio
relativo ordinamento. In tal misura anche il suo cristianesimo, fattosi consapevolmente
legale, rimane, in un senso ultimo, “rivoluzionario”, poiché non può
considerarsi identico ad alcuno stato, ma è invece una forza che relativizza tutte le
realtà immanenti al mondo, indicando e rinviando all’unico Dio assoluto e
all’unico mediatore tra Dio e l’uomo: Gesù Cristo.
Pertanto è del tutto una deviazione dichiarare Agostino padre della concezione
teocratica della Chiesa, propria del medioevo, basandosi sul compelle intrare della
controversia antidonatistica, anche se il cosiddetto agostinismo medievale si appellò a
lui per tale concezione. L’aiuto imperiale, accettato con esitanza da Agostino contro i
partigiani donatisti, i circumcelliones, e infine contro il movimento donatista in
genere, non ha qui eliminato il suo atteggiamento di principio di fronte alla civitas
terrena, né, quando si consideri il complesso della situazione, l’ha realmente
contraddetto. Non si può lealmente chiamare responsabile Agostino stesso
dell’interpretazione errata, che più tardi si è collegata a questi
avvenimenti.
(da J.Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei padri della Chiesa,
Morcelliana, Brescia, 1973)
Un elemento della tradizione cristiana vorrei ancora ricordare, di
fondamentale importanza nelle avversità del nostro tempo. La fede cristiana ha
soppresso, seguendo il cammino di Cristo, l’idea della teocrazia politica.
Per dirla in termini moderni, essa ha fondato la secolarità dello Stato nel quale i
cristiani coabitano, nella libertà, con gli esponenti di altre convinzioni. Una
coabitazione fondata peraltro sulla comune responsabilità morale, insita nella natura
dell’uomo e nella natura della giustizia.
La fede cristiana fa distinzione tra questa forma secolare e il Regno di Dio, che come
realtà politica non esiste e non può esistere in quanto tale su questa terra, ma
vive nella fede, nella speranza e nella carità e deve trasformare il mondo
dall’interno. Le tentazioni di Gesù hanno come tema di fondo proprio questa
distinzione, il rifiuto della teocrazia politica, la relatività dello Stato e il diritto
della ragione, e anche la libertà di scelta, garantita a tutti gli uomini.
In questo senso, lo Stato laico è un esito della decisione cristiana fondamentale,
anche se è stata necessaria una lunga lotta per comprenderne tutte le conseguenze.
Questo carattere secolare, “laico” dello Stato include nella sua essenza
quell’equilibrio tra ragione e religione...
Ed è per questa sua natura che si oppone anche a quel laicismo ideologico che
vorrebbe stabilire qualcosa come uno “Stato della pura ragione”, uno Stato separato
dalle sue radici storiche e perciò incapace di riconoscere i fondamenti morali che alla
ragione si impongono. Altro non resta allo Stato, su queste basi, che il positivismo del
principio di maggioranza e la decadenza del diritto, con la conseguenza che quest’ultimo
risulta essere retto in fin dei conti da criteri statistici.
Se gli Stati d’Occidente si caratterizzassero integralmente in questo senso, alla lunga
non potrebbero resistere alla pressione delle ideologie e delle teocrazie politiche. Uno Stato,
anche se laico, ha il diritto e persino l’obbligo di trovare sostegno nelle radici morali
che lo hanno segnato nel suo sorgere; esso può e deve riconoscere quei valori
fondamentali in assenza dei quali non sarebbe diventato quello che è e non potrebbe
sopravvivere. Uno Stato della ragione astratta, antistorica, non potrebbe sussistere.
Sul piano pratico tutto ciò significa che noi cristiani dobbiamo sforzarci, insieme ai
nostri concittadini tutti, di dare al diritto e alla giustizia un fondamento morale che si
ispiri alle idee cristiane fondamentali, qualunque sia il modo in cui ciascuno ne interpreta le
origini e le armonizza con l’insieme della sua vita. Ma per far sì che simili
convinzioni razionali comuni siano possibili, è necessario che noi stessi viviamo con
energia e purezza la nostra eredità, in modo che diventi visibile ed efficace e eserciti
la sua forza interiore di persuasione nell’insieme della società.
Vorrei concludere con le parole del filosofo di Kiel, Kurt Hübner, che illustrano
limpidamente questo intento: “Potremo evitare il conflitto con le culture che oggi ci
sono ostili solo se riusciremo a smentire il veemente rimprovero di aver dimenticato Dio,
tornando ad essere pienamente coscienti del radicamento profondo della nostra cultura nel
cristianesimo. Certamente questo non basterà a cancellare il risentimento prodotto dalla
superiorità occidentale che in molti campi connota la vita del nostro tempo, ma
potrà contribuire in misura significativa a spegnere il fuoco religioso che, a ben
vedere, si alimenta naturalmente”. E’ un fatto: se non siamo fedeli alla memoria
del Dio della Bibbia, del Dio che si è fatto prossimo in Gesù Cristo, non
troveremo la strada della pace.
(dal discorso per il 60° anniversario dello sbarco alleato in Normandia, tenuto il 4
giugno 2004)
La moderna idea di libertà è perciò un legittimo prodotto dello spazio
vitale cristiano; essa non poteva svilupparsi in nessun altro ambito se non in esso. Bisogna
anzi aggiungere: essa non è affatto impiantabile in qualsiasi altro sistema, come si
può oggi constatare con chiara evidenza nella rinascita dell’islam. Il
tentativo di innestare i cosiddetti criteri occidentali, staccati dal loro fondamento
cristiano, nelle società islamiche, misconosce la logica interna dell’islam come
la logica storica cui appartengono i criteri occidentali.
Un tale tentativo era perciò destinato al fallimento in questa forma. La costruzione
sociale dell’islam è teocratica, quindi monistica, non dualistica. Il dualismo che
è la condizione previa della libertà presuppone a sua volta la logica cristiana.
Dal punto di vista pratico, ciò sta a significare: solo lì dove è
preservato il dualismo di Chiesa e Stato, di istanza sacrale e politica, vi è la
condizione fondamentale per la libertà. Dove la Chiesa diviene essa stessa Stato, la
libertà va perduta. Ma anche lì dove la Chiesa viene soppressa come istanza
pubblica e pubblicamente rilevante, viene a cadere la libertà, perché lì
lo Stato reclama di nuovo per sé la fondazione dell’etica. Nel mondo profano,
post-cristiano lo Stato avanza questa istanza non nella forma di autorità sacrale, ma
come autorità ideologica, cioé lo stato si fa partito e dato che non gli si
può contrapporre nessuna altra istanza con un suo proprio ruolo, esso stesso diventa
nuovamente totalitario. Lo stato ideologico è totalitario; esso deve diventare
ideologico quando non si dà nei suoi confronti una autorità libera e
pubblicamente riconosciuta.
(da Teologia e politica della Chiesa in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni Paoline,
Cinisello Balsamo 1987, pag.156)
La sua (N.d.R. di Marcello Pera) idea di una religione civile
cristiana mi fa venire in mente l'opera di Alexis de Tocqueville, La democrazia in
America. Durante i suoi studi negli Stati Uniti, lo studioso francese aveva constatato
– per dirla in breve – che il sistema di regole di per sé instabile e
frammentario di cui, vista da fuori, questa democrazia era costituita funzionava soltanto
perché nella società americana era vivo tutto un insieme di convinzioni religiose
e morali di ispirazione cristiano-protestante, che nessuno aveva prescritto o definito, ma che
veniva semplicemente presupposto da tutti come ovvia base spirituale. Il riconoscimento di
tali orientamenti di fondo, religiosi e morali, che oltrepassavano le singole confessioni ma
determinavano la società dall'interno, dette forza all’insieme degli orientamenti;
definiti i limiti della libertà individuale dall'interno, offrendo proprio per questo le
condizioni di una libertà condivisa e partecipata.
Vorrei, a tale riguardo, citare un'espressione significativa di Tocqueville: “Il
dispotismo può fare a meno della fede, la libertà no”. Lei stesso,
nella Sua lettera a me indirizzata, ha citato un'espressione di John Adams che va nella stessa
direzione: la costituzione americana “è fatta soltanto per un popolo morale e
religioso”. Benché anche in America la secolarizzazione proceda a ritmo accelerato
e la confluenza di molte differenti culture sconvolga il consenso cristiano di fondo,
lì si percepisce, assai più chiaramente che in Europa, l'implicito
riconoscimento delle basi religiose e morali scaturite dal cristianesimo e che oltrepassano le
singole confessioni. L’Europa – contrariamente all'America – è in
rotta di collisione con la propria storia e si fa spesso portavoce di una negazione così
viscerale di qualsiasi possibile dimensione pubblica dei valori cristiani.
La società americana fu costruita in gran parte da gruppi che erano fuggiti dal sistema
di chiese di Stato vigente in Europa, e avevano trovato la propria collocazione religiosa nelle
libere comunità di fede al di fuori della Chiesa di Stato. Il fondamento della
società americana è costituito pertanto dalle chiese libere, per le quali –
a causa del loro approccio religioso – è strutturale non essere Chiesa dello
Stato, ma fondarsi su un'unione libera degli individui.
In questo senso si può dire che alla base della società americana c'era una
separazione fra Stato e Chiesa determinata, anzi reclamata dalla religione; separazione, di
conseguenza, ben altrimenti motivata e strutturata rispetto a quella imposta, nel segno del
conflitto, dalla Rivoluzione francese e dai sistemi che a essa hanno fatto seguito. Lo
Stato in America non è altro che lo spazio libero per diverse comunità religiose;
è nella sua natura riconoscere queste comunità nella loro particolarità e
nel loro essere non statali, e lasciarle vivere. Una separazione che intende lasciare alla
religione la sua propria natura, che rispetta e protegge il suo spazio vitale distinto dallo
Stato e dai suoi ordinamenti, è una separazione concepita positivamente.
Questo ha poi comportato un rapporto particolare tra sfera statale e sfera
“privata”, del tutto diverso da quello che conosciamo in Europa: la sfera
“privata” ha un carattere assolutamente pubblico, ciò che non è
statale non è affatto escluso per questo dalla dimensione pubblica della vita sociale.
La maggior parte delle istituzioni culturali non è statale – prendiamo le
università oppure gli enti per la tutela delle discipline artistiche eccetera;
l'intero sistema giuridico e fiscale favorisce questo tipo di cultura non statale e la rende
possibile, mentre da noi, per esempio le università private costituiscono un fenomeno
recente e di fatto marginale.
Il principio cattolico contrasta con il sistema della Chiesa di Stato: esso sottolinea
il carattere universale della Chiesa, che non coincide con nessuna nazione e con nessuna
comunità statale, vive in tutte le nazioni malgrado la fedeltà al proprio paese,
crea comunque una comunità che va oltre i confini nazionali. Bisogna inoltre aggiungere
che la Riforma gregoriana era riuscita, dopo tanti sforzi, a ottenere la distinzione tra
sacerdotium e imperium, creando così anche le basi per una separazione
delle due sfere. In realtà, anche in ambito cattolico, in Europa – almeno a
partire dall'inizio dell'età moderna – il sistema delle chiese di Stato è
riuscito ad affermarsi in modo da far diventare la fede praticamente una cosa dello
Stato.
Tuttavia, nel protestantesimo e nel cattolicesimo, propria a causa della peculiarità
di ciascuno di essi, la ricezione dell'Illuminismo è avvenuta in due modi del tutto
differenti. Di fronte alla proclamata autonomia della ragione e alla sua emancipazione dalla
fede tradizionale, la Chiesa cattolica rimase fortemente attaccata al suo patrimonio di fede,
così che Illuminismo e cattolicesimo si trovarono contrapposti l'uno all'altro in un
conflitto insanabile. Nonostante tanti disordini, i paesi cattolici non avevano conosciuto
alcuno scisma nel XVI secolo; esso doveva verificarsi più tardi, nel XVIII secolo. Da
lì scaturì la nuova “confessione” dei “laici”.
Da allora la separazione tra cattolici e laici è tipica dei paesi latini, mentre
l'area linguistica germanica protestante non solo non conosce l'uso della parola
“laico”, ma trova il termine stesso del tutto incomprensibile. Essere
“laico” indica l'appartenenza – nel senso più vasto della parola
– alla corrente spirituale dell'Illuminismo, e da quel momento non sembra esserci
più nessun ponte che conduca alla fede cattolica; i due mondi sembrano essere diventati
impenetrabili l'uno all'altro.
Siccome “laicità” significa anche libero pensiero e libertà da ogni
costrizione religiosa, ciò comporta anche l'esclusione dei contenuti e dei valori
cristiani della vita pubblica; ne deriva naturalmente anche la fondamentale
“soggettivizzazione” dell'intero ambito della fede e della morale nella coscienza
moderna. Grazie a Dio nel frattempo i fronti si sono un po' ammorbiditi; il panorama della
laicità ora è vario, e, d'altro canto, il Concilio Vaticano II ha fatto suoi
tutti gli sforzi compiuti da teologia e filosofia in duecento anni affinché si aprissero
le porte che dividevano Illuminismo e fede e potesse iniziare un secondo scambio. Così,
da una parte, vista la frattura fra cattolici e laici, una forma di religione civile sembra da
escludere; dall'altra emergono delle aperture che bisogna saper cogliere.
E così sorge la domanda: come può l'Europa arrivare a una religione civile
cristiana che vada oltre i confini delle confessioni e rappresenti valori che non solo siano di
consolazione per l’individuo ma che possano sostenere la società? E’ chiaro
che essa non può essere costruita da esperti, in quanto nessuna commissione e nessuna
riunione, quali che esse siano, possono produrre un éthos mondiale. Qualcosa di
vivo non può nascere altrimenti che da una cosa viva. E’ qui che vedo l'importanza
delle minoranze creative. Certo, dal punto di vista numerico, in gran parte dell'Europa i
cristiani costituiscono ancora la maggioranza, anche se il numero dei battezzati è ormai
in declino in alcuni paesi, specialmente nell'Est e nel Nord della Germania, tanto che nella
Germania ex comunista i battezzati non sono più la maggioranza. Ma anche le maggioranze
ancora esistenti sono diventate stanche e mancano di fascino.
Dunque la mia prima tesi è che una religio civilis che realmente abbia la
forza morale di sostenere tutti presuppone delle minoranze convinte che hanno trovato la
“perla” e che vivono questo in modo convincente anche per gli altri. Senza tali
forze sorgive non si costruisce niente.
La seconda tesi poi è che ci devono essere forme di appartenenza o di
riferimento, o semplicemente di contatto con tali comunità, o, piuttosto, che esse si
creano da sé quando la loro capacità di convincere è sufficientemente
grande. Il Signore ha paragonato il Regno di Dio a un albero sui cui rami fanno il nido
vari uccelli (Mt 13,32). Forse la Chiesa ha dimenticato che l'albero del Regno di Dio giunge
oltre i rami della Chiesa visibile, ma che proprio per questo essa stessa deve essere, per
così dire, un luogo ospitale nei cui rami molteplici ospiti trovano posto.
Come terza tesi, direi che queste minoranze creative evidentemente non possono stare in
piedi da sé, né vivere di sé. Vivono naturalmente del fatto che la
Chiesa nel suo insieme resta, vive della fede nella sua origine divina e di conseguenza
difende ciò che non ha inventato lei stessa ma che riconosce come un dono della cui
trasmissione è responsabile. Le “minoranze” rendono di nuovo vitale questa
grande comunità, ma attingono, nello stesso tempo, alla forza di vita che è
nascosta in essa ed in grado di creare sempre nuova vita.
Come quarta tesi, infine, direi che laici e cattolici, coloro che cercano e quelli che
credono, nel folto intreccio dei rami dell'albero con tanti uccelli, devono andare incontro gli
uni agli altri con una nuova capacità di apertura. Anche i credenti non smettono mai
di cercare, e chi cerca, d'altra parte, è toccato dalla verità e come tale non
può essere classificato come un uomo senza fede o senza principi morali ispirati alla
fede cristiana. Ci sono modi di appartenenza alla verità nei quali gli uni danno agli
altri, ed entrambi possono sempre imparare qualcosa dall'altro.
È per questo che la distinzione tra cattolici e laici dev’essere
relativizzata. I laici non sono un blocco rigido, non costituiscono una confessione fissa,
o peggio un’ “anti-confessione”. Sono uomini che non si sentono in grado di
fare il passo della fede cristiana con tutto ciò che un tale passo comporta; ma molto
spesso sono uomini che cercano appassionatamente la verità, che soffrono per la mancanza
di verità dell'uomo, riprendendo proprio così i contenuti essenziali della
cultura e della fede e spesso rendendoli, con il loro impegno, ancora più luminosi di
quanto possa fare una fede scontata, accettata più per abitudine che per conoscenza
sofferta.
Gradi diversi di appartenenza hanno anche un senso positivo. Tra l'interno e l'esterno –
come già detto – c’è un reciproco dare e ricevere. Negli anni
Cinquanta Hans Urs von Balthasar parlò dell' “abbattimento delle barriere”,
intendendo proprio questa nuova reciproca apertura. In un tale andare oltre i confini, oltre le
classificazioni irrigidite, si potrebbe – se Dio vuole – formare una religione
civile cristiana che non sia una costruzione artificiale di ciò che è
presumibilmente ragionevole per tutti, ma una viva partecipazione alla grande tradizione
spirituale del cristianesimo, nella quale questi valori vengono resi presenti e condotti a
nuova forza vitale.
(dalla Lettera a Marcello Pera del card. J.Ratzinger in J.Ratzinger-M.Pera, Senza Radici,
Mondadori, Milano, 2004)
Per vedere tutta l'ampiezza del problema bisogna, accanto al dubbio di fede
nella concezione democratica, collocare nel contesto... l'ipocrisia che si è
impadronita nel frattempo dell'opinione pubblica mondiale. La critica al comportamento
non democratico nei paesi del terzo mondo ammutolisce quando vi si stabilisce un regime
comunista. "Per la vittoria del popolo vietnamita", era scritto a grosse lettere rosse
sulle pareti della mensa della nostra università di Ratisbona quando la guerra nel
Vietnam volgeva alla fine. Oggi si cercherebbe inutilmente una scritta di questo genere. Il
Vietnam, come gli altri paesi diventati marxisti, non è più tema di pubblica
discussione. I paesi a regime marxista del terzo mondo non si devono criticare.
La democrazia pluralista non è mai pienamente consolidata. Essa non si appoggia
su se stessa, in modo tale da essere lei a unire i suoi cittadini in un consenso fondamentale.
Anche quando funziona relativamente bene - come è stato il caso, nonostante tutto, da
noi negli ultimi trent'anni - non genera automaticamente la convinzione che sia sotto tutti gli
aspetti la migliore forma di Stato. Non soltanto le crisi economiche la possono fare
crollare, ma anche le tempeste spirituali possono toglierle il terreno su cui si appoggia.
Ernst Wolfgang Bockenforde, tenendo conto di questo stato di cose, ha potuto avanzare la
tesi che l'attuale Stato liberale e secolarizzato non è più societas perfecta:
"esso, per il suo proprio fondamento e conservazione si appoggia su altre potenze e forze"; in
altri termini: vive di presupposti, "che esso stesso non può garantire". Cioè, vi
è "qualcosa di irrinunciabile" per la democrazia pluralista che non risiede nel campo
politico.
Che cosa minaccia oggi la democrazia?... Vi è, anzitutto, l'incapacità di
accettare francamente l'imperfezione delle cose umane. La pretesa dell'assoluto nella storia
è il nemico del bene che vi è in essa. Manès Sperber parla di un
fanatismo che nasce dalla nausea davanti a ciò che esiste. La nausea davanti a
ciò che esiste è oggi in crescita, e con essa cresce il gusto dell'anarchia, a
partire dalla convinzione che da qualche parte il mondo buono ci deve proprio essere. Oggi
certamente nessuno vuole più rendere omaggio alla fede nel progresso dell'illuminismo,
ma un certo messianismo profano è profondamente penetrato nella coscienza collettiva. La
frase di Ernesto Cardenal "Io credo nella storia" esprime il credo nascosto di molti: in
qualche modo l'idea di Hegel che la storia stessa, alla fine, ci porterà la grande
sintesi si è installata nella coscienza collettiva. L'idea che tutta la storia
precedente sia storia della schiavitù e che però ora finalmente può e deve
essere presto edificata la società giusta, è oggi - in svariati slogan - diffusa
sia fra atei che fra cristiani, e si è introdotta perfino nelle pastorali dei vescovi e
nei testi liturgici. In un modo curioso ritorna la mistica del Regno del periodo fra le guerre
[mondiali], che ha poi avuto un esito così macabro. Di nuovo si preferisce parlare,
anziché di "Regno di Dio", di "Regno" semplicemente. Realtà, questa, per la
quale noi lavoriamo, che costruiamo, che si avvicina in modo tangibile grazie ai nostri sforzi.
Il "Regno", la "nuova società" si è trasformata in un moralismo che dispensa da
ulteriori argomentazioni politiche ed economiche. Il fatto che noi lavoriamo per un nuovo e
definitivo mondo migliore è da lungo tempo diventato qualcosa di ovvio. Il lato
filosoficamente e politicamente sospetto di questa escatologia dell'imminente si può
capire, a mio avviso, soffermandosi su (alcuni) aspetti fondamentali di tale concezione.
1. Nella società liberata il bene non riposa più sullo sforzo etico degli
uomini che compongono questa società, ma è previamente dato, in modo semplice e
irrevocabile, mediante le strutture. Il mito della società liberata riposa su questa
rappresentazione perché l'ethos è sempre minacciato, non è mai perfetto e
deve sempre essere raggiunto.
Per questo uno Stato che si appoggia sull'ethos - cioè sulla libertà - non
è mai compiuto, mai totalmente giusto, mai assolutamente protetto. E' imperfetto come
l'uomo stesso.
Anzi, l'ethos viene in fondo trasferito dall'uomo alle strutture. Le strutture attuali sono
peccaminose, quelle future saranno giuste: bisogna inventarle e costruirle come si costruisce
una macchina - poi, però, vi sono. Per questo anche il peccato diventa peccato sociale,
strutturale e deve essere di nuovo ridefinito come tale. Per questo la salvezza riposa
sull'analisi delle strutture e dell'attività politico-economica che ne consegue. Non
è l'ethos a sorreggere le strutture, piuttosto le strutture sorreggono l'ethos, e questo
perché l'ethos rappresenta l'elemento fragile, mentre le strutture sono l'elemento
solido e sicuro. In questo rovesciamento che soggiace al mito del mondo migliore io vedo
l'autentica essenza del materialismo, che non consiste semplicemente nella negazione di un
ambito della realtà, ma più profondamente è un programma antropologico
che naturalmente si collega con una determinata idea di come i singoli ambiti nella
realtà si relazionano tra di loro. La tesi che lo spirito è solo un prodotto
di processi materiali e non il principio della materia, corrisponde all'idea che l'ethos
è una produzione dell'economia, e non è l'economia a essere in definitiva
determinata dalle scelte umane fondamentali. Però, se si guarda ai presupposti e
alle conseguenze di questo così sorprendente esonero dell'uomo dalla sua
responsabilità, si riconosce che questo esonero - "liberazione" - riposa sulla
dimissione dell'ethos, cioè sulla dimissione della responsabilità e della
libertà, sulla dimissione della coscienza. Perciò, questo tipo di "Regno"
è una mistificazione con la quale l'Anticristo ci prende in giro: la società
"liberata" presuppone la perfetta tirannide. Penso che oggi dobbiamo di nuovo chiarire con
ogni decisione che né la ragione né la fede ci promettono che vi sarà,
prima o poi, il mondo perfetto. Esso non esiste.
Viceversa è immorale quell'apparente moralismo che si ritiene soddisfatto solo con
ciò che è perfetto. Qui è necessario un esame di coscienza anche
riguardo alla predicazione ecclesiastica o para-ecclesiastica, le cui eccessive esigenze e
speranze favoriscono la fuga dal morale all'utopico.
2. Il tentativo di rendere superflua la morale nella sua insufficienza e precarietà
mediante la quasi meccanica garanzia da parte della società bene strutturata ha
però anche altre radici. Esse risiedono nella unilateralità del moderno
concetto di ragione, come è stato dapprima formulato con Francesco Bacone e poi si
è affermato sempre di più nel secolo XIX: solo la ragione quantitativa, la
ragione del calcolo e dell'esperimento, appare soprattutto come ragione; tutto il resto appare
come arazionale, che deve essere lentamente superato e nello stesso tempo trasferito
nell'ambito della conoscenza "esatta".
Una volta che il funzionamento di una macchina è stato eretto a modello della
ragione, allora alla morale classica non resta altro spazio che quello dell'irrazionale.
Nel frattempo si fanno strada i tentativi di presentare anche la morale come scienza esatta.
Essa viene allora ricondotta nell'una o nell'altra forma al tipo della matematica, al calcolo
dei rapporti tra effetti piacevoli e spiacevoli di una azione umana. In questo modo,
però, viene liquidata la morale in quanto tale; perché il bene in sé e il
male in sé non esistono più, ma resta soltanto una contabilità di vantaggi
e di svantaggi, dove le cose non cambiano, anche se ci viene assicurato che, in generale,
verranno mantenuti gli stessi criteri finora considerati come norme di azione.
In questo modo anche il diritto perde il terreno sotto i piedi. Non posso evitare di portare
qui un esempio - preso dalla giurisprudenza di Monaco di Baviera - che fa apparire in modo
sorprendentemente chiaro la perdita di sostanza della giuridicità nel nostro diritto.
Per almeno due volte, negli ultimi tempi sono state respinte querele per offesa alla
religione, ultimamente con la motivazione che la pubblica quiete non era stata minacciata dalle
azioni incriminate. Prescindo qui dalla questione relativa al merito di quelle querele,
l'aspetto che interessa è solo la motivazione del loro rifiuto, perché in questa
motivazione è contenuta, in realtà, una esaltazione del diritto del più
forte. Se gli offesi avessero minacciato di provocare disordini per la loro causa, il caso
avrebbe potuto essere preso sul serio. E' la conseguenza di una tale premessa. Questo
però significa che non si proteggono più beni giuridici, ma ci si preoccupa
soltanto di evitare lo scontro di interessi contrastanti. Questo è logico,
naturalmente, se la morale in se stessa non viene più riconosciuta come bene giuridico
degno di protezione perché è qualcosa che deriva dall'apprezzamento soggettivo,
che rientra nell'ambito della giustizia solo se la pace pubblica corre pericoli.
Riassumendo, risulta chiaramente confermata la tesi di Bockenforde che lo Stato moderno
è una societas imperfecta. Imperfetta non solo nel senso che le Sue istituzioni restano
sempre imperfette come i suoi cittadini, ma anche nel senso che ha bisogno di forze
dall'esterno per potere sussistere. Dove sono queste forze che gli sono indispensabili?
Un primo sguardo al cristianesimo come possibile fonte di una tale energia non è del
tutto incoraggiante. Per questo, un'autocritica dei cristianesimo è indispensabile
proprio a chi vuole riconoscere in esso l'elemento risolutivo. E' stata prospettata la tesi
secondo cui il marxismo non può mettere piede in nessun posto, dove prima il
cristianesimo non abbia fatto scomparire le religioni tradizionali. Sembra che l'elemento
cristiano debba precedere, affinché la logica marxista possa trovare il suo punto
d'aggancio. Non so fino a quanto questa tesi si lasci empiricamente verificare. In ogni caso,
però, non è campata per aria.
Già a partire dall'Alto Medioevo, con la recezione di Aristotele e della sua idea di
diritto naturale, la teologia cattolica aveva elaborato un concetto positivo dello Stato
profano, non messianico. Però, con frequenza, l'idea del diritto naturale apparve
in questa teologia così caricata di contenuti cristiani che andò perduta la
necessaria capacità del compromesso e lo Stato non poté essere inteso nei limiti
della profanità che gli sono essenziali. Questa teologia pretese troppo, si
ostruì in questo modo la strada verso il possibile e il necessario.
La fede cristiana aveva fatto saltare, dal punto di vista del contenuto, l'antica idea di
tolleranza. Il cristianesimo, infatti, non si lasciò inserire nel Pantheon,
che era lo spazio della convivenza pacifica delle religioni e rappresentava lo scambio e il
mutuo riconoscimento degli dei. Considerando le cose giuridicamente il cristianesimo non poteva
simpatizzare per la tolleranza religiosa, perché rifiutava di lasciarsi confinare
nell'ambito del diritto privato, nel quale trovavano posto le differenti forme religiose. Un
tale inserimento nel diritto privato non era possibile per la fede dei cristiani, perché
il diritto pubblico era diritto degli dei. Per questo il monoteismo cristiano non poteva
ritirarsi nel privato: sarebbe stato rinunciare alla sua pretesa di verità in quanto
monoteismo. Il cristianesimo doveva aspirare al riconoscimento giuridico pubblico, per lo
meno in forma negativa, cioè ottenendo il diritto a negare il carattere religioso del
diritto pubblico vigente. In questo senso, fin dal principio, per quanto piccolo fosse il
numero dei suoi aderenti, ha avanzato la pretesa a un riconoscimento pubblico e si è
posto su un piano giuridico paragonabile a quello dello Stato. Per questo la figura del
martire appartiene alla struttura interna del cristianesimo. Qui sta la sua grandezza come
controparte di ogni totalitarismo statale, Qui, però, può stare anche il pericolo
di una esagerazione teocratica, che si trova in relazione con il fatto che la pretesa di
verità del cristianesimo può trasformarsi in intolleranza politica, come è
successo più di una volta.
Vale quindi anche per il cristianesimo, considerato come una delle realtà vissute
dall'uomo, la legge della imperfezione e della minaccia. La sua influenza politica
positiva non è garantita in modo automatico. Questa promessa non gli è stata
proprio fatta e gli uomini di Chiesa, nelle loro attività politiche, non dovrebbero mai
dimenticarlo. Ciò non cambia nulla al fatto che lo Stato è societas imperfecta e
per questo cerca qualche cosa di "altro" che lo possa completare e offrirgli le energie morali
che non può creare da solo. Dove le può trovare? Se facciamo un inventario delle
possibilità esistenti nel mondo e diamo un'occhiata a eventuali altre soluzioni, ci si
offrono - al di fuori del cristianesimo - solo due alternative: il tentativo di un ritorno
al pre-cristiano, per esempio a un aristotelismo purificato, oppure il collegamento con culture
non europee da una parte e con l'islam dall'altra. Ma la ricostruzione del precristiano
rimane pur sempre una astrazione non sostenibile. Le visioni del mondo da laboratorio che ci
vengono tanto spesso proposte sono prodotti artificiali che, nel migliore dei casi, non valgono
come modello universale. Un esempio di questa impostazione è il progetto di Karl
Jaspers. Jaspers pensava di avere trovato nella sua filosofia esistenziale un modello
universale che potesse subentrare al cristianesimo, tacciato di particolarismo (10). Oggi non
sono più molti a conoscere la sua filosofia. Tali iniziative non superano mai lo stadio
dell'esperimento intellettuale interessante. Manca loro il soffio di vita di una
realtà storica matura. L'islam, in quanto realtà che si muove alla ribalta
della storia come alternativa alle forme di Stato nate dal cristianesimo, dovrebbe senz'altro
ricevere maggiore attenzione di quanto non sia stato fatto finora. Ma è a tutti noto
che l'islam si presenta proprio come contromodello rispetto alla democrazia pluralista e non
può quindi diventare la forza che possa dare fondamento a essa. Rimane, quindi, che
questa democrazia è un prodotto della commistione fra eredità greca e
cristiana e che anche perciò può sopravvivere solo mantenendo il collegamento
con queste radici fondamentali.
A questo bisogna aggiungere, a titolo di maggiore precisione, che la democrazia, nella sua
accezione contemporanea, non deve essere ricondotta meccanicamente a tali radici. Di fatto si
è formata nel particolare contesto del modello congregazionalistico americano,
cioè al di fuori della tradizione classica europea e dei rapporti Stato-Chiesa che si
sono in essa storicamente sviluppati. Per questo l'opinione che l'illuminismo abbia condotto
alla democrazia può essere accettata solo con molte condizioni, come ha mostrato
Hannah Arendt, nel suo libro On Revolution, Londra 1962. Ancora meno ha potuto aprirgli la
strada la Riforma europea con la sua concezione della Chiesa legata allo Stato. Tutto questo
non deve invece impedire di scorgere l'esistenza di fondamentali elementi democratici nella
società cristiana pre-rivoluzionaria.
Il Nuovo Testamento conosce un ethos politico, ma nessuna teologia politica. Proprio
attraverso questa distinzione corre la linea di demarcazione che Gesù stesso e poi,
molto esplicitamente, le lettere apostoliche hanno tracciato fra cristianesimo e fanatismo
[Schwarmerei]. Per quanto frammentari e occasionali possano singolarmente essere i diversi
pronunciamenti del Nuovo Testamento in campo politico, sono assolutamente concordi e chiari in
questa impostazione di fondo. Pensiamo al racconto delle tentazioni di Gesù con le loro
implicazioni politiche, al racconto della moneta del tributo che appartiene all'imperatore, o
alle esortazioni politiche nelle lettere di Paolo e di Pietro, o anche all'Apocalisse, per
tanti aspetti così diversa: si rifiuta sempre l'esaltazione entusiastica che vuole
fare del Regno di Dio un programma politico (12). Rimane sempre valido che la politica
non è l'ambito della teologia, ma dell'ethos che certamente deve, in ultima analisi,
fondarsi teologicamente. Proprio in questo modo il Nuovo Testamento rimane fedele al suo
rifiuto della giustificazione mediante le opere, perché teologia politica, in senso
stretto, significa che la perfetta giustizia del mondo deve essere prodotta mediante la nostra
opera, che la giustizia nasce come opera e solo come opera. La giustizia è possibile e
viene fatta. Quando invece lo Stato viene fondato sull'ethos, l'uomo viene certamente
coinvolto, ma resta di Dio quello che è di Dio. La derivazione della giustizia dello
Stato dall'ethos, e non dalle strutture, significa il riconoscimento della imperfezione
dell'uomo. Questa visione è umanamente realistica, cioè ragionevole e
teologicamente vera. Il rifiuto delle opere non si dirige contro la morale; al contrario,
solo la perseveranza nella moralità ci fa rimanere fedeli a questo dato del Nuovo
Testamento.
Il vero pericolo del nostro tempo, il nòcciolo della nostra crisi culturale è
la destabilizzazione dell'ethos, che deriva dal fatto che non siamo più in grado di
afferrare la ragione della moralità e abbiamo ridotto la ragione nell'ambito del
calcolabile.
Questo significa, inoltre, che l'atto fondamentale per lo sviluppo e la sopravvivenza di
società giuste è l'educazione morale, nella quale l'uomo impara a usare la sua
libertà. I greci avevano assolutamente ragione quando facevano dell'educazione il
concetto centrale della loro soteriologia e vedevano nell'educazione la forza che si oppone
alla barbarie. Quando la morale viene considerata superflua, la corruzione diventa normale;
e la corruzione corrompe insieme i singoli e gli Stati.
Tuttavia l'ethos non si fonda da sé, stesso. Anche l'ethos illuministico che tiene
ancora insieme i nostri Stati vive della eredità del cristianesimo, che gli ha dato i
fondamenti della sua razionalità e della sua intima coesione. Quando il fondo cristiano
viene tolto via del tutto, niente sta più insieme.
Qui tocchiamo certamente il punto nevralgico nei rapporti fra cristianesimo e democrazia
pluralistica. Da noi, nessuno contesta il diritto al cristianesimo - come agli altri gruppi
sociali - di coltivare la sua scala di valori e di sviluppare la sua forma di vita, cioè
di agire come una forza sociale fra le altre. Solo che questo ripiegamento nel privato, questa
sistemazione nel Pantheon di tutti i possibili sistemi contraddice la pretesa di
verità della fede che, in quanto tale, è una pretesa di riconoscimento
pubblico. Robert Spaemann, a questo proposito, parla di una tendenza fatale delle Chiese
cristiane di comprendersi come parte dell'insieme "forze sociali", il che comporta
automaticamente la revoca della propria pretesa di verità ed elimina con ciò lo
specifico della Chiesa e quello che la rende anche "un valore" per lo Stato. Spaemann
sostiene invece che la Chiesa non può ritirarsi nel ruolo di rappresentanza di un
"bisogno religioso", ma deve comprendere se stessa "come luogo di una rilevanza pubblica
assoluta, che supera lo Stato e che si legittima in base a una pretesa divina". Così
risulta chiaro che proprio questa autocomprensione non può trovare alcuna adeguata
rappresentazione nella sfera del diritto statale. Ci troviamo di fronte a una aporia: se la
Chiesa rinuncia a questa pretesa, non è più per lo Stato quella di cui lo Stato
ha bisogno, se però lo Stato la accetta, smette di essere pluralistico e così sia
lo Stato che la Chiesa perdono se stessi.
Per arrivare a un equilibrio fra queste due possibilità-limite si è lottato
soprattutto nella Chiesa occidentale in tutti i secoli. Da tale equilibrio dipendono la
libertà della Chiesa e la libertà dello Stato. A seconda della situazione
storica è maggiore il pericolo di eliminare l'uno o l'altro dei due poli.
Nell'attuale situazione generale della cultura il pericolo teocratico è scarso:
si affaccia tutt'al più dove il connubio tra cristianesimo e marxismo evoca il miraggio
di un Regno di Dio da costruire politicamente. In generale, nel secolo contemporaneo è
chiaro che la pretesa di riconoscimento pubblico della fede non può compromettere il
pluralismo e la tolleranza religiosa dello Stato. Ma da qui non si può dedurre una
piena neutralità dello Stato di fronte ai valori. Esso deve riconoscere che un
patrimonio fondamentale di valori, fondati sulla tradizione cristiana, è il presupposto
della sua consistenza. Deve in questo senso semplicemente per così dire,
riconoscere il proprio luogo storico, il proprio humus da cui non si può separare del
tutto senza distruggersi. Deve imparare che vi è un patrimonio di verità
che non è sottoposto al consenso, ma lo precede e lo rende possibile.
Mi si permetta in conclusione di ricorrere di nuovo a un esempio, che riassume tutto quanto si
è detto e nel quale diventa percepibile tutta la drammaticità della cosa. La
battaglia per i crocifissi nelle scuole, che viene condotta oggi in Polonia e che, al tempo del
Terzo Reich, fu condotta dai nostri genitori in Germania ha un carattere assolutamente
sintomatico. Per i genitori polacchi - come allora per i nostri - il crocifisso nella scuola
è il segno di un ultimo brandello di libertà, che non ci si vuole lasciare
strappare dallo Stato totalitario. E' la garanzia di una dignità umana nella cui
abolizione i genitori vedono la pretesa dello Stato di disporre liberamente degli uomini
pretesa che non si lascia più misurare dalla Croce e che, dunque, non ha più
alcuna misura. Quegli uomini lottano per il riconoscimento pubblico del cristianesimo e
lottano per il patrimonio di dignità e di misura umana di cui anche lo Stato ha bisogno.
Se non abbiamo però la forza di comprendere e di conservare questi segni nella loro
imprescindibilità, il cristianesimo diventa qualcosa di cui si può fare a meno.
Ma lo Stato non diventa per questo più pluralistico e più libero, bensì
rimane senza fondamenti. Lo Stato ha bisogno di segni pubblici della realtà che lo
sostiene. Anche i giorni di festa, come configurazione pubblica del tempo, hanno lo stesso
significato.
Per questo il cristianesimo deve difendere tali segni pubblici della sua rilevanza per gli
uomini. Però, lo può fare solo se lo sostiene la forza del riconoscimento
pubblico.
In questo consiste la sfida. Se non siamo coscienti e non sappiamo convincere, non abbiamo
alcun diritto a reclamare un riconoscimento pubblico. Se le cose stanno così, siamo
superflui e lo dobbiamo riconoscere. Allora, però, con la nostra stessa mancanza di
convinzione priviamo la società di ciò che le è oggettivamente
indispensabile: i fondamenti spirituali della sua umanità e della sua
libertà. La sola forza, con la quale il cristianesimo può ottenere il
riconoscimento pubblico, è in fondo la forza della sua intrinseca verità.
Questa forza però è oggi indispensabile come sempre, perché l'uomo senza
verità non può sopravvivere. Questa è la sicura speranza del
cristianesimo, questa è la gigantesca provocazione che lancia a ciascuno di noi.
(Cristianesimo e democrazia pluralista, Christliche Orientierung in der pluralistichen
Demokratie? Uber die Unverzichtbarkeit des Christentums in der modernen Welt, conferenza del 24
aprile 1984, pubblicata in tedesco in Pro Fide et Justitia. Festschrift fur Agostino Kardinal
Casaroli zum 70. Geburtstag, a cura di Herbert Schambeck, Duncker & Humblot, Berlino 1984,
pp. 747-761, traduzione di don Pietro Cantoni)
La questione di cosa sia... veramente il bene – soprattutto nel
contesto attuale – e perché lo si debba mettere in pratica anche a costo di
ricavarne un danno personale, tale questione fondamentale rimane ampiamente senza
risposta.
Ora, mi sembra evidente che la scienza come tale non può produrre un’etica e
dunque una rinnovata consapevolezza etica non si realizza come prodotto di dibattiti
scientifici. D’altra parte è anche innegabile che il fondamentale cambiamento
della concezione del mondo e dell’essere umano, risultato delle crescenti conoscenze
scientifiche, abbia svolto un ruolo essenziale nella distruzione delle antiche certezze
morali.
A tale riguardo, esiste però una responsabilità della scienza nei confronti
dell’essere umano in quanto tale, e soprattutto una responsabilità della filosofia
nell’accompagnare criticamente lo sviluppo delle singole scienze e
nell’esaminare criticamente conclusioni affrettate e finte certezze su cosa sia
l’essere umano, da dove venga e perché esista; in altre parole, nel separare
l’elemento non scientifico dai risultati scientifici – con cui spesso è
mescolato – e mantenere lo sguardo sull’insieme, sulle altre dimensioni della
realtà umana, di cui nella scienza si possono mostrare solo aspetti parziali...
Dal momento che difficilmente c’è unanimità tra gli esseri umani, per il
processo decisorio democratico rimane come strumento indispensabile esclusivamente la delega
della rappresentanza da un lato e la decisione a maggioranza dall’altro; per quanto
riguarda quest’ultima, in base all’importanza della decisione si possono richiedere
diversi ordini di grandezza della maggioranza. Anche le maggioranze, però, possono
essere cieche o ingiuste. La storia lo dimostra in modo più che evidente: quando una
maggioranza – per quanto preponderante – opprime con norme persecutorie una
minoranza, per esempio religiosa o etnica, si può parlare ancora di giustizia o in
generale di diritto? Il principio di maggioranza lascia pertanto sempre aperta la questione
dei fondamenti etici della legge: la questione se non esista qualcosa che non può mai
diventare legittimo, qualcosa dunque che di per sé rimane sempre un’ingiustizia,
oppure al contrario anche qualcosa che per sua natura è legge immutabile, a prescindere
da ogni decisione della maggioranza, e da essa deve essere rispettata.
L’età moderna ha formulato un patrimonio di simili elementi normativi nelle
differenti dichiarazioni dei diritti umani e li ha sottratti al gioco delle maggioranze. Ci si
può accontentare, nella coscienza contemporanea, dell’evidenza interna di questi
valori; tuttavia, anche una simile rinuncia autoimposta ad indagare ha carattere filosofico. Ci
sono dunque valori che valgono per se stessi, che provengono dalla natura umana e perciò
sono inattaccabili per tutti coloro che possiedono questa natura. Sulla portata di una
simile rappresentazione dovremo tornare ancora in seguito, tanto più che tale evidenza
oggi non è assolutamente riconosciuta in tutte le culture.
Inoltre è spaventoso che almeno in parte il terrorismo si legittimi moralmente. I
messaggi di Bin Laden presentano il terrorismo come la risposta dei popoli oppressi e senza
potere alla superbia dei potenti, come la giusta punizione per la loro arroganza e per il loro
sacrilego autoritarismo e la loro crudeltà. Per persone in determinate condizioni
sociali e politiche simili motivazioni evidentemente sono convincenti. In parte il
comportamento dei terroristi è rappresentato come la difesa di una tradizione religiosa
contro l’empietà della società occidentale.
A questo punto si impone un’altra questione su cui dovremo tornare: se il terrorismo
è alimentato dal fanatismo religioso, come è, la religione è salvifica
e risanatrice, o non piuttosto un potere arcaico e pericoloso, che crea falsi universalismi e
perciò induce all’intolleranza e al terrorismo? La religione non deve pertanto
essere posta sotto la tutela della ragione e attentamente delimitata? Sorge dunque
spontaneamente la domanda: chi può farlo? Come si può fare? Ma la domanda
generale rimane: l’annullamento generalizzato della religione, il suo superamento, deve
essere considerato un necessario progresso dell’umanità sulla via della
libertà e della tolleranza universale, o no?
Nel frattempo è apparsa in primo piano un’altra forma di potere, che sembra
del tutto benefica e meritevole di approvazione, ma in realtà può diventare una
nuova minaccia per l’essere umano: l’uomo è ora in grado di creare essere
umani, per così dire di produrli in provetta. L’uomo diventa un prodotto, e di
conseguenza cambia radicalmente l’atteggiamento dell’uomo verso se stesso. Non
è più un dono della natura o del Dio creatore; è prodotto di se stesso.
L’uomo è giunto alla sorgente del potere, nel luogo di origine della propria
stessa esistenza. La tentazione di creare infine l’uomo perfetto, di condurre esperimenti
sugli esseri umani, di vedere gli esseri umani come spazzatura e di metterli da parte, non
è una fantasticheria di moralisti nemici del progresso.
Se poco fa ci si è posta la questione se la religione sia davvero una forza morale
positiva, ora deve affiorare il dubbio sulla affidabilità della ragione. Alla fin
fine, anche la bomba atomica è un prodotto della ragione e l’allevamento e la
selezione di esseri umani sono stati ideati dalla ragione. Ora non dovrebbe dunque a sua volta
essere messa sotto osservazione la ragione? Ma da chi o da cosa? O forse religione e ragione
dovrebbero limitarsi a vicenda, e ciascuna mettere l’altra al suo posto e condurla sulla
propria via positiva? A questo punto di nuovo si pone la questione di come, in una
società globale con i suoi meccanismi di potere e con le sue forze senza freni, con le
sue differenti visioni di ciò che è giusto e di ciò che è morale,
si possa trovare una evidenza etica operativa, con sufficiente potere di motivarsi e di
imporsi, per rispondere alle sfide delineate in precedenza e aiutare a superarle.
Si raccomanda innanzi tutto uno sguardo alle situazioni storiche comparabili con la nostra,
fino al punto in cui la comparazione è possibile. Vale la pena almeno di considerare
brevemente che la Grecia conobbe il suo illuminismo, che il diritto fondato sugli
dèi perse la sua evidenza e si dovette indagare alla ricerca di più profondi
fondamenti del diritto. Così nacque l’idea che di fronte alla giurisprudenza, che
può essere iniqua, deve esserci una legge che promani dalla natura,
dall’essenza stessa dell’essere umano. Tale legge deve essere trovata e rappresenta
quindi il correttivo del diritto positivo.
In un’epoca più vicina a noi, si può considerare la doppia frattura che si
è verificata all’inizio dell’evo moderno per la coscienza europea e che ha
costretto ad una nuova riflessione sul contenuto e sull’origine del diritto, sin dai
fondamenti. In primo luogo, dunque, l’evasione dai confini del mondo europeo e cristiano,
che si compie con la scoperta dell’America. Si incontrano popoli che non appartengono
alla compagine di credo e di diritto cristiana, che era stata fino ad allora l’origine
del diritto per tutti e gli aveva conferito la sua fisionomia. Ma sono dunque privi di diritto,
come molti pensarono allora e come fu praticato largamente, o esiste un diritto che supera
tutti i sistemi giuridici e lega e delimita gli esseri umani come tali nel loro incontrarsi?
Francisco de Vitoria in questa situazione ha sviluppato il concetto preesistente dello
«ius gentium», il «diritto dei popoli», in cui nella parola
«gentes» è compreso anche il significato di pagani, non cristiani. La
seconda frattura nel mondo cristiano si compì all’interno della cristianità
stessa, attraverso lo scisma con cui la comunità dei cristiani si divise in
comunità diverse e in parte ostili. Di nuovo occorre sviluppare un diritto comune
precedente al dogma, almeno un minimum giuridico, le cui basi devono trovare il proprio
fondamento non più nella fede, ma nella natura, nella ragione umana. Hugo Grotius,
Samuel von Pufendorf e altri hanno sviluppato il concetto di un diritto naturale come diritto
razionale, che oltre le barriere di fede pone in vigore la ragione come l’organo di
comune costruzione del diritto.
Il diritto naturale è rimasto, soprattutto nella chiesa cattolica, la figura
argomentativa con cui essa richiama alla ragione comune nel dialogo con le società
laiche e con le altre comunità di fede e con cui ricerca i fondamenti di una
comprensione attraverso i principi etici del diritto in una società laica e pluralista.
Ma questo strumento è purtroppo diventato inefficace, e non vorrei basarmi su di esso in
questo intervento. Il concetto del diritto di natura presuppone un’idea di natura in
cui natura e ragione si compenetrano, la natura stessa è razionale. Questa visione della
natura, con la vittoria della teoria evoluzionista si è persa. La natura come tale
non sarebbe razionale, anche se in essa v’è un atteggiamento razionale: questa
è la diagnosi che per noi ne deriva e che oggi appare per lo più inoppugnabile.
Delle differenti dimensioni del concetto di natura, su cui si fondava un tempo il diritto
naturale, rimane dunque solo quella sintetizzata da Ulpiano (III secolo d. C.) nella nota
formulazione: «Ius naturae est, quod natura omnia animalia docet». Ma ciò
non basta per le nostre questioni, in cui si tratta di individuare non già cosa riguarda
tutti gli «animalia», ma gli specifici doveri, che la ragione umana ha creato per
gli uomini e ai quali non si possono fornire risposte senza la ragione.
Come ultimo elemento del diritto naturale, che vuole essere il più profondamente
possibile un diritto razionale – almeno nell’età moderna – sono
rimasti i diritti umani. Essi non sono comprensibili senza presupporre che l’uomo
in quanto tale, semplicemente per la sua appartenenza alla specie umana, sia soggetto di
diritti, che il suo essere stesso comporti valori e norme che devono essere individuati, ma non
inventati. Forse oggi la teoria dei diritti umani dovrebbe essere integrata da una dottrina dei
doveri umani e dei limiti umani, e ciò potrebbe però aiutare a rinnovare la
questione, se non ci possa essere una ragione naturale, e dunque un diritto razionale, per
l’uomo e la sua esistenza nel mondo. Un simile discorso dovrebbe oggi essere interpretato
e applicato interculturalmente. Per i cristiani ciò avrebbe a che fare con la
creazione e con il Creatore. Nel mondo indiano corrisponderebbe al concetto di
«Dharma», la legge interna all’essere, nella tradizione cinese all’idea
degli ordinamenti celesti.
Che fare, dunque? Per ciò che riguarda le conseguenze pratiche, mi trovo in ampio
accordo con ciò che Habermas ha esposto sulla società post-secolare, riguardo la
disponibilità ad apprendere e la autolimitazione da entrambe le parti. Vorrei riassumere
la mia opinione personale in due tesi. In primo luogo, abbiamo visto che ci sono patologie
nella religione, che sono assai pericolose e che rendono necessario considerare la luce divina
della ragione come un organo di controllo, dal quale la religione deve costantemente lasciarsi
chiarificare e regolamentare; questo era anche il pensiero dei Padri della Chiesa. Ma nelle
nostre riflessioni si è anche mostrato che esistono patologie anche nella ragione
(cosa che all’umanità oggi non è altrettanto nota): una hybris della
ragione, che non è meno pericolosa, ma a causa della sua potenziale efficacia è
ancora più minacciosa: la bomba atomica, l’uomo visto come un prodotto.
Perciò anche alla ragione devono essere rammentati i suoi limiti ed essa deve imparare
la capacità di ascolto nei confronti delle grandi tradizioni religiose
dell’umanità. Quando essa si emancipa completamente e rifiuta questa
capacità di apprendere, questo rapporto correlativo, diventa distruttiva.
Kurt Hübner ha brevemente formulato una simile esortazione dicendo che con una tesi del
genere non si tratterebbe di un «ritorno alla fede», ma della «liberazione
dall’errore epocale, che essa (cioè la fede) non abbia più nulla da dire ai
contemporanei, perché in contrasto con la loro idea umanistica di ragione, illuminismo e
libertà» (in Das Christentum im Wettstreit der Religionen, Mohr Siebeck, 2003,
pag. 148). Di conseguenza parlerei della necessità di un rapporto correlativo tra
ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca chiarificazione e
devono far uso l’una dell’altra e riconoscersi reciprocamente.
In secondo luogo, questa regola di base deve essere messa in pratica nel contesto
interculturale della contemporaneità. Senza dubbio, i due partner principali in
questo rapporto correlativo sono la fede cristiana e la razionalità laica occidentale:
si può e si deve dirlo senza falso eurocentrismo. Entrambi determinano la situazione
globale come nessun’altra delle forze culturali. Ciò non significa però
che sia lecito accantonare le altre culture come un’entità in qualche modo
trascurabile. Ciò sarebbe una hybris occidentale, che pagheremmo cara e in parte
già paghiamo. È importante per entrambe le grandi componenti della cultura
occidentale acconsentire ad un ascolto, ad un rapporto di scambio anche con queste culture.
È importante accoglierle nel tentativo di una correlazione polifonica, in cui esse si
aprano spontaneamente alla complementarità essenziale di ragione e fede, cosicché
possa crescere un processo universale di chiarificazione, in cui infine le norme e i valori
essenziali in qualche modo conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani possano acquistare
nuovo potere di illuminare, cosicché ciò che tiene unito il mondo possa
nuovamente conseguire un potere efficace nell’umanità.
(dalla relazione del card. J.Ratzinger in occasione del Colloquio con J.Habermas,
tenutosi a Monaco, presso la Katholische Akademie in Bayern, il 19 gennaio 2004, pubblicata
nella traduzione italiana di Lorenzo Lozzi Gallo qui riportata nel numero 83 di Reset,
maggio-giugno 2004, con il titolo “Ragione e fede. Scambio reciproco per un’etica
comune” e sul numero 2 di Humanitas 2004, con il titolo “Ciò che tiene unito
il mondo. Etica, religione e stato liberale”)
Nello scorso gennaio ho avuto un dialogo con Habermas, il filosofo
considerato nel mondo di lingua tedesca come il laico più puro. Nella sorpresa dei
suoi ammiratori aveva detto, più o meno due anni fa, a Francoforte, che conviene per
un laico essere attento alla saggezza nascosta nelle tradizioni religiose. Era per lui stesso
una scoperta nuova, e in quell'incontro ha espresso il desiderio che si trovino delle persone
religiose capaci di decifrare il linguaggio tradizionale e di tradurre in linguaggio laico il
tesoro di saggezza che, nella sua convinzione strettamente laica, è nelle tradizioni
religiose.
Ci troviamo in una situazione del mondo in cui conviene mobilitare tutte le forze morali per
riuscire a stabilire una convivenza pacifica. Abbiamo bisogno del dialogo di tutti i
responsabili. Vediamo certamente che nel mondo di oggi esistono tante nuove possibilità
positive, tante speranze, ma anche tante minacce e tanti pericoli. E su questo sottofondo del
nostro dialogo vorrei indicare due elementi. Il primo: il nostro mondo, come vediamo e
tocchiamo ogni giorno, è caratterizzato da una progressiva unificazione. Tutte le
culture si toccano in permanenza, in Europa sono presenti l'Asia e l'Africa, è presente
il mondo musulmano e nelle altre parti del mondo sono presenti le altre culture. Soprattutto
c'è una presenza universale della cultura tecnica nata in occidente e determinante in
tutte le parti del mondo per la vita di ogni giorno. C'è una presenza unificante, in
un certo senso, della cultura tecnica e così della cultura laica.
Vediamo come gli edifici siano uguali ovunque nel mondo, la televisione dà uniformazione
al nostro comportamento, fino al vestiti e ai canti, e questo fattore tuttavia ha due aspetti:
da una parte crea unificazione fino alla uniformità, ma nello stesso tempo provoca
ribellione, resistenza contro questa imposizione, contro una cultura aliena che appare
anche, nonostante tutti i vantaggi che comporta, una imposizione straniera e una minaccia
contro la propria identità. Così vediamo che insieme a questa unificazione cresce
anche una ribellione contro l'uniformità, un desiderio, una volontà ferma,
radicale, anzi violenta di difendere la propria identità contro questa uniformazione,
un'esacerbazione contro un'imposizione che appare da una parte utile, dall'altra come
schiavitù.
C'è da aggiungere che si vede in tutte le parti del mondo il lusso del mondo
occidentale, si può immaginare che tutti qui vivano nella ricchezza e nel lusso, e fare
esperienza nello stesso momento della propria povertà e della propria espropriazione non
solo culturale ma anche materiale. La contraddittorietà di questa cultura che appare
dall'occidente e si mostra nel proprio mondo radicalizza il senso di una schiavitù
contro la quale ci si deve difendere. Così l'uniformazione crea anche la
parzializzazione delle culture del mondo e l'opposizione tra queste culture.
Questa cultura è considerata occidentale, l'occidente è identificato con
cristianesimo e quindi questa opposizione si dirige non solo contro l'occidente ma diventa
anche un'opposizione crescente contro la cristianità e il cristianesimo. Trovare una
risposta giusta tra unità e molteplicità mi sembra una cosa importante, nel
rispetto delle altre culture, e tra l'insieme della cultura uniformante dell'occidente e la
ricchezza delle grandi culture. E' un compito di grande importanza e priorità.
L'altro punto della nostra situazione al quale volevo accennare consiste nel fatto che è
cresciuto, in un modo inimmaginabile fino a poco tempo fa, il potere dell'uomo. Potere che
arriva fino alla possibilità dell'autodistruzione, della distruzione del proprio
pianeta, potere che d'altra parte è arrivato alle radici del nostro essere: l'uomo
è capace di fare l'uomo, di produrre in laboratorio l'uomo. L'uomo non appare più
come un dono della natura, di Dio, ma diventa un prodotto nostro, che si può
fabbricare, e quando si può fabbricare si può anche distruggere, sostituire con
altre cose. Così, questa capacità di per sé positiva di andare fino alle
radici del suo essere, diventa man mano una minaccia più pericolosa dei mezzi di
distruzione, perché tocca l'essere umano nel più intimo fondamento.
L'uomo “fatto”, l'uomo fabbricato, diventa anche una merce; si possono
produrre esseri umani per scopi di ricerca, sempre con apparenti benefici. Tuttavia l'uomo
diventa, la stessa creatura umana diventa, un laboratorio con il quale cercare dei progressi in
certi settori. E così automaticamente si è introdotto anche il commercio
dell'essere umano, l'uomo come merce. Lo vediamo non solo nel mercato degli organi, ma anche
nel mercato della prostituzione e della pedofilia, in tutti questi fenomeni di una
società veramente ammalata, che non vede più nell'uomo lo splendore divino ma
solo un prodotto fatto da noi.
Da una parte abbiamo questa crescita, inimmaginabile fino a poco tempo fa, delle nostre
capacità, delle nostre possibilità, del nostro potere, che potrebbe essere, ed
è in molti sensi, una cosa positiva. Ma è anche, come ho accennato, qualcosa che
implica grandi pericoli. Dobbiamo dire che con questa capacità di fare, con questa
capacità di produrre, con queste conoscenze della ricerca che arrivano fino alle radici
dell'essere non è cresciuta ugualmente la nostra capacità morale.
Questa mi sembra la formula più precisa per esprimere il dilemma del nostro tempo che
vediamo con il crescere permanente delle nostre capacità, del nostro potere, e una
crescita non equivalente delle nostre capacità morali. Questo squilibrio tra potere
tecnico, potere di fare, e la capacità di dominare il nostro essere con principi che
garantiscono la dignità dell'uomo e il rispetto della creatura, del mondo, questo
squilibrio è la grande sfida alla quale rispondere positivamente è dovere di noi
tutti.
Quindi provoca necessariamente la necessità di un dialogo aperto, franco, tra
rappresentanti della fede cristiana e laici di diverse sfumature, perché sappiamo bene
che il concetto di laico, come quello di cristiano, implica tante diverse realizzazioni.
(dall’intervento del card.J.Ratzinger nel Dialogo su storia, politica e religione
con lo storico Ernesto Galli della Loggia, tenutosi nell’ottobre 2004 nell'ambito degli
incontri organizzati dal Centro di orientamento politico, presieduto da Gaetano Rebecchini. La
trascrizione è tratta da “Il Foglio”, 27 e 28-10-2004 ed è già
apparsa on-line nell’agenzia di stampa Zenit)
In due tesi vorrei brevemente raccogliere indicazioni...
1. La politica è l’ambito della ragione, e più precisamente non di una
ragione semplicemente tecnica-calcolatrice, ma morale, poiché il fine dello Stato e
così il fine ultimo di ogni politica è di natura morale, cioè la pace e la
giustizia. Ciò significa che la ragione morale o – forse meglio – il
discernimento razionale di ciò che serve alla giustizia e alla pace, e quindi è
morale, deve essere continuamente esercitato e difeso contro oscuramenti che diminuiscono la
capacità di discernimento della ragione.
Lo spirito di parte, che si accompagna al potere, produrrà continuamente miti in diverse
forme che si presentano come la vera via della realtà morale nella politica, ma in
verità sono mascheramenti e rivestimenti del potere. Nel secolo scorso abbiamo
sperimentato due grandi elaborazioni mitiche con conseguenze terribili: il razzismo con la
sua falsa promessa di salvezza da parte del nazionalsocialismo; la divinizzazione della
rivoluzione sullo sfondo dell’evoluzionismo storico dialettico; in entrambi i casi furono
di fatto cancellate le intuizioni morali originarie dell’uomo sul bene e sul male.
Tutto ciò che serve il dominio della razza, ovvero tutto ciò che serve
l’instaurazione del mondo futuro, è bene – così ci veniva detto
–, anche se ciò, secondo le conoscenze dell’umanità finora acquisite,
fosse stato un male.
Dopo la caduta delle grandi ideologie oggi i miti politici sono presentati in modo meno chiaro,
ma esistono anche oggi forme di mitizzazione di valori reali che appaiono credibili, proprio
per il fatto che si ancorano ad autentici valori, ma appunto anche per questo sono
pericolosi, per il fatto che unilateralizzano questi valori in un modo che si può
definire mitico. Direi che oggi tre valori sono dominanti nella coscienza comune, la cui
unilateralizzazione mitica rappresenta allo stesso tempo un pericolo per la ragione morale di
oggi. Questi tre valori continuamente miticamente unilateralizzati sono il progresso, la
scienza, la libertà.
Il progresso è da sempre una parola mitica, che si impone come norma
dell’agire politico e umano in generale e appare come la sua più alta
qualificazione morale. Chi guarda anche solo al cammino degli ultimi cento anni, non può
negare che sono stati raggiunti progressi enormi nella medicina, nella tecnica, nella
conoscenza e nello sfruttamento delle forze della natura e progressi ulteriori possono essere
sperati. Nondimeno permane di attualità anche l’ambivalenza di questo
progresso: il progresso comincia a minacciare la creazione – la base della nostra
esistenza; esso produce disuguaglianze fra gli uomini e produce anche sempre nuove minacce al
mondo e all’umanità. In questo senso orientare il progresso secondo criteri morali
è indispensabile. Secondo quali criteri? Questo è il problema.
Innanzitutto però deve essere chiaro che il progresso si estende al rapporto
dell’uomo con il mondo materiale ma non dà luogo in quanto tale – come il
marxismo e il liberalismo avevano insegnato – all’uomo nuovo, alla nuova
società. L’uomo come uomo resta uguale nelle situazioni primitive come in quelle
tecnicamente sviluppate e non cresce di livello semplicemente per il fatto che ha imparato ad
adoperare strumenti meglio sviluppati. L’essere uomo ricomincia da capo in ogni essere
umano. Perciò non può esistere la definitivamente nuova, progredita e sana
società, nella quale non solo hanno sperato le grandi ideologie, ma che diviene sempre
più – dopo che la speranza nell’aldilà è stata demolita
– l’obiettivo generale da tutti sperato.
Una società definitivamente sana presupporrebbe la fine della libertà.
Poiché però l’uomo rimane sempre libero, ricomincia a ogni generazione,
pertanto si deve anche di nuovo operare per la forma giusta di società nelle sempre
nuove condizioni. L’ambito della politica pertanto è il presente e non il
futuro – il futuro solo nella misura in cui la politica odierna cerca di creare forme
di diritto e di pace che possano valere anche domani e invitare a corrispondenti riforme, che
riprendano e continuino ciò che si è raggiunto. Ma non possiamo garantirlo. Io
penso che è molto importante tenere presenti questi limiti del progresso ed evitare
false scappatoie nel futuro.
Al secondo posto vorrei menzionare il concetto di scienza. La scienza è un
grande bene, proprio perché è una forma di razionalità controllata e
confermata dall’esperienza. Ma vi sono anche patologie della scienza, stravolgimenti
delle sue possibilità in favore del potere, in cui allo stesso tempo viene intaccata la
dignità dell’uomo. La scienza può anche servire alla disumanità, se
pensiamo alle armi di distruzione di massa o agli esperimenti umani o al commercio di persone
per l’esplantazione di organi ecc. Pertanto deve essere chiaro che anche la scienza deve
sottostare a criteri morali e la sua vera natura va sempre perduta allorquando invece che della
dignità dell’uomo si mette al servizio del potere o del commercio o semplicemente
del successo come unico criterio.
Infine vi è il concetto di libertà. Anch’esso nell’epoca moderna ha
assunto diversi tratti mitici. La libertà non di rado viene concepita in modo
anarchico e semplicemente antistituzionale e così diviene un idolo: la libertà
umana può essere sempre solo la libertà del giusto rapportarsi reciproco, la
libertà nella giustizia, altrimenti diventa menzogna e conduce alla
schiavitù.
2. Il fine di ogni sempre necessaria smitizzazione è la restituzione della ragione a
se stessa. Qui però deve ancora una volta essere smascherato un mito che solo ci
mette davanti all’ultima decisiva questione di una politica ragionevole: la decisione
a maggioranza è in molti casi, forse nella maggioranza dei casi, la via
«più ragionevole» per giungere a soluzioni comuni. Ma la maggioranza non
può essere il principio ultimo; ci sono valori che nessuna maggioranza ha il diritto di
abrogare. L’uccisione degli innocenti non può mai divenire un diritto e non
può essere elevato a diritto da alcun potere. Anche qui si tratta ultimamente della
difesa della ragione: la ragione, la ragione morale, è superiore alla
maggioranza.
Ma come possono essere conosciuti questi valori ultimi, che costituiscono i fondamenti di ogni
politica «ragionevole», moralmente giusta e pertanto vincolano tutti al di
là di ogni cambiamento delle maggioranze? Quali sono questi valori? La dottrina dello
Stato sia nell’antichità e nel Medioevo come anche nei contrasti dell’epoca
moderna ha fatto appello al diritto naturale che la recta ratio può riconoscere.
Ma oggi questa recta ratio sembra non dare più una risposta e il diritto naturale
non viene più considerato come ciò che è evidente per tutti, ma piuttosto
come una dottrina cattolica particolare. Questo significa una crisi della ragione politica, il
che equivale a una crisi della politica come tale.
Sembra che ormai esista solo la ragione partitica, non più la ragione comune a tutti
gli uomini almeno nei grandi ordinamenti fondamentali dei valori. Lavorare al superamento
di questa situazione è un compito urgente di tutti coloro che hanno nel mondo
responsabilità per la pace e la giustizia – e questo in definitiva lo siamo di
fatto noi tutti. Questo impegno non è affatto senza prospettive, non lo è proprio
per il fatto che la ragione si fa continuamente sentire contro il potere e lo spirito di parte.
Esiste oggi un canone dei valori mutato, che praticamente non è messo in discussione, ma
in realtà resta troppo indeterminato e mostra zone oscure.
La triade pace, giustizia, integrità della creazione è universalmente
riconosciuta, ma dal punto di vista del contenuto totalmente indeterminata: che cosa è
al servizio della pace? Che cosa è la giustizia? Come si protegge nel modo migliore la
creazione? Altri valori universalmente praticamente riconosciuti sono l’uguaglianza degli
uomini in opposizione al razzismo, la pari dignità dei sessi, la libertà di
pensiero e di fede.
Anche qui vi sono mancanze di chiarezza dal punto di vista dei contenuti, che possono perfino
diventare di nuovo minacce per la libertà del pensiero e della fede, ma gli orientamenti
di fondo sono da approvare e sono importanti. Un punto essenziale resta controverso: il diritto
alla vita per ciascun che sia un essere umano, l’inviolabilità della vita umana in
tutte le sue fasi. In nome della libertà e in nome della scienza vengono inferte ferite
sempre più gravi nei confronti di questo diritto: laddove l’aborto è
considerato un diritto di libertà, la libertà di uno è posta al di sopra
del diritto alla vita dell’altro. Laddove esperimenti umani con embrioni vengono
reclamati in nome della scienza, la dignità dell’uomo viene negata e calpestata
nell’essere più indifeso.
Qui si deve dare spazio alle smitizzazioni dei concetti di libertà e di scienza, se non
vogliamo perdere i fondamenti di ogni diritto, il rispetto per l’uomo e per la sua
dignità. Un secondo punto oscuro consiste nella libertà di deridere ciò
che è sacro per altri. Grazie a Dio presso di noi nessuno si può permettere
di deridere ciò che è sacro per un ebreo o per un musulmano. Ma si annovera fra i
diritti di libertà fondamentali il diritto di dileggiare e di coprire di ridicolo
ciò che è sacro per i cristiani. E infine vi è un ulteriore punto
oscuro: matrimonio e famiglia sembrano non essere più valori fondamentali di una
società moderna. È richiesto con urgenza un completamento della tavola dei
valori e una smitizzazione di valori miticamente alterati.
Nel mio dibattito con il filosofo Paolo Flores d’Arcais si toccò proprio questo
punto – i limiti del principio del consenso. Il filosofo non poteva negare che esistono
valori, i quali non possono essere messi in discussione anche da maggioranze. Ma quali?
Davanti a questo problema il moderatore del dibattito, Gad Lerner, ha posto la domanda:
perché non prendere come criterio il Decalogo? E in realtà il Decalogo non
è una proprietà privata dei cristiani o degli ebrei. È un’altissima
espressione di ragione morale che come tale si incontra largamente anche con la sapienza delle
altre grandi culture. Riferirsi nuovamente al Decalogo potrebbe essere essenziale proprio
per il risanamento della ragione, per un nuovo rilancio della recta ratio.
Qui emerge ora anche con chiarezza ciò che la fede può fare per una buona
politica: essa non sostituisce la ragione, ma può contribuire all’evidenza dei
valori essenziali. Attraverso la concretezza della vita nella fede conferisce a essi una
credibilità, che poi illumina e risana anche la ragione. Nel secolo trascorso
– come in tutti i secoli – proprio la testimonianza dei martiri ha posto dei limiti
agli eccessi del potere e ha così contribuito in modo decisivo al risanamento della
ragione.
(Libertà e religione nell'identità dell'Europa, discorso del
card.J.Ratzinger, nel ricevere il premio “Liberal” in occasione delle Giornate
internazionali del pensiero filosofico sul tema: “Le due libertà: Parigi o
Filadelfia?", svoltosi a Trieste il 20 settembre del 2002
di Cardinale Joseph Ratzinger)
Il puro positivismo dei diritti umani come tale non può essere in
nessun senso un'ultima parola. Forse è sufficiente per una costituzione, non lo
posso decidere, ma per il nostro dibattito culturale umano, per il nostro incontro con le altre
culture non è sufficiente.
Questo positivismo è però solo la facciata di un dilemma più profondo. Non
ci sono più motivazioni per i nostri grandi principi etici, per la dignità umana
e si arriva finalmente al positivismo perché anche il patriottismo costituzionale di
Habermas è un positivismo. La costituzione, così ha detto anche a
Monaco durante il nostro dialogo, di per sé produce la moralità. Ma non
è vero, non lo fa, ha bisogno di forze precedenti, e dobbiamo ritrovare e risvegliare
queste forze. Il relativismo da un parte può apparire come positivo, in quanto invita
alla tolleranza, facilita la convivenza, il riconoscimento fra culture, fino al punto di
ridimensionare le proprie convinzioni e riconoscere il valore degli altri relativizzando se
stessi: è un passo positivo.
Ma se si trasforma in un assoluto, il relativismo diventa contraddittorio in se stesso,
distrugge l'agire umano e in ultima istanza mi sembra una mutilazione della nostra ragione.
Ragionevole viene considerato allora soltanto ciò che è calcolabile e
falsificabile o provabile nell'esperimento del grande settore, settore ammirevole, delle
scienze. Qui si vede se questo è falso, se questo non lo è, se questo funziona e
questo non funziona. Questo settore appare come l'unica espressione della razionalità,
tutto il resto è soggettivo.
Il grande fisico Max Planck si considerava come un uomo religioso, tuttavia ha detto che
dobbiamo ripristinare la religione ma come una cosa del soggetto. Ma se le questioni essenziali
della vita umana, le grandi decisioni sulla vita, sulla famiglia, sulla morte, sui
comportamenti, sulla condivisione della libertà e il modo etico di condividerla, sono
tutti solo nella sfera della soggettività, allora non abbiamo più criteri. Ogni
uomo può e deve agire soltanto secondo la sua cosiddetta coscienza. Coscienza, nella
modernità, diventa la divinizzazione della soggettività, mentre nella tradizione
cristiana è proprio il contrario, è la convinzione che l'uomo è
trasparente e può sentire in se stesso la voce della ragione stessa, della ragione
fondante del mondo. E quindi il soggetto non è chiuso in sé, un'ultima
istanza, come una divinità, ma è una realtà aperta, per la ragione stessa
che ciò ci permette di comunicare nelle grandi decisioni della nostra vita.
Superare quindi un razionalismo unilaterale che in realtà non allarga la ragione, non
eleva la ragione ma amputa e riduce, e arrivare a una più larga concezione della
ragione, che è creata non soltanto per poter fare ma per poter conoscere le cose
essenziali della vita umana, è un imperativo urgente, del resto espresso nell'enciclica
“Fides et ratio”. Il professore (N.d.R. il prof.Ernesto Galli della Loggia)
ha notato la questione se il ius naturale difeso dalla Chiesa cattolica può
essere una risposta a questo e sappiamo bene che il mondo di oggi è convinto che non sia
una risposta. Per la Chiesa era l'idea, la visione di un diritto naturale insito nella stessa
creatura umana, il mezzo per poter dialogare con quanti non condividono la fede. Adesso anche
il concetto di natura è ridotto al puramente empirico, a quanto si può osservare
con la scienza, con la biologia nella dottrina dell'evoluzione. Quindi natura non indica
più niente di umano, il diritto naturale si riduce quindi, aveva detto Ulpiano
nel terzo secolo dopo Cristo, “natura naturale est quod natura omnia animalia
ducet”.
Ma noi non abbiamo bisogno soltanto di ciò che possono imparare tutti gli animali ma
proprio dello specifico umano, e questo in una natura così considerata non
appare. Ma dobbiamo forse tenere presente in quale senso nell'epoca moderna il concetto di
diritto naturale che viene dall'antichità è rinato ed è stato rafforzato
da due fonti: la scoperta delle Americhe era un grande appello, una grande domanda anche alla
cristianità. Queste genti, questi popoli che non appartengono alla cristianità,
che non sono battezzati, che non appartengono alla nostra sfera di diritto, hanno un diritto o
no? Sono da rispettare come soggetti di diritto o essendone fuori non hanno diritti e possiamo
farne ciò che vogliamo? La posizione che finalmente ha vinto, con tante
difficoltà, era quella che sì, hanno un diritto perché sono persone umane
e come creature umane hanno il diritto insito nell'essere umano come tale. Questa non è
una dottrina occidentale ma era proprio la difesa dei non occidentali contro l'occidente e
rimarrà tale. E' fondamentale, nel nostro essere insieme, che l'uomo di per sé,
senza nessun sistema precedente di diritto, è portatore di un diritto della persona
umana come tale.
Il secondo punto è la divisione confessionale dell'Europa. C'era da ritrovare tra gli
Stati una forma di pace anche morale, non solo giuridica e qui si è capito che se nella
fede siamo divisi, abbiamo tutti la natura umana che indica comportamenti morali
fondamentali. Penso che non dovrebbe essere così impossibile, con tutte le riserve
contro la metafisica che ben conosciamo, capire che questa non è un'invenzione cattolica
ma è proprio la risposta alle sfide dell'essere umano: il riconoscimento che l'uomo,
prima di tutte le costituzioni, ha diritti, e il diritto deve conformarsi ai diritti e non i
diritti alla costituzione.
Dobbiamo anche ritrovare questi elementi in un dialogo interculturale perché, in forme
diverse, questa stessa conoscenza è presente anche nelle altre culture, seppure non
nello stesso modo, e dal nostro punto di vista è ancora da migliorare, come le nostre
conoscenze. Pensiamo all'idea del Tao nel mondo cinese, del Dharma nel mondo
indiano: concetti che presuppongono che l'uomo si trovi in un ordine del cosmo, che gli indica
come vivere, e che precede le nostre decisioni. Quindi questa interculturalità, per
riguadagnare un concetto comprensibile e accettabile, che divenga la piattaforma per una
visione etica comune, mi sembra di grande importanza.
Arrivo al problema se la tradizione cristiana sia compatibile con il concetto di libertà
sviluppato nella modernità, nel laicismo. Io distinguo tra laicismo e laicità,
e se è così, per me è molto importante superare un malinteso concetto
individualistico della libertà. C'è un concetto di libertà per il
quale esiste solo, come portatore della libertà, il soggetto, l'individuo. E' il vecchio
sogno di essere come un dio. Ma da due punti di vista è assolutamente sbagliato. E'
sbagliato dal punto di vista antropologico, perché l'uomo è un essere finito,
è un essere creato per convivere con altri e quindi la sua libertà
necessariamente deve essere una libertà condivisa, che insieme garantisca per tutti la
libertà e quindi supponga anche la rinuncia alla assolutizzazione dell'io, che è
contro la verità e contro la realtà empirica.
Reimparare che la libertà è ben definita antropologicamente e sociologicamente
soltanto se interpretata come libertà condivisa, è una cosa che implica il
diritto comune, l'autorità. C'è il grande errore di considerare l'autorità
in contrasto con la libertà. In realtà, un'autorità ben definita è
la condizione della libertà, non in contrasto con essa. Siamo sulla strada delle
migliori tradizioni cristiane, che sempre suppongono che l'uomo è creato per la
libertà, una libertà umana, che è libertà condivisa. E' errata la
convinzione che la mia volontà sia la mia unica misura e il mio unico criterio, anche da
un punto di vista teologico. Questa idea, rendendo l'uomo come un dio, implica che possa fare
come vuole, vede un idolo e non Dio, perché il vero Dio è verità e amore,
e quindi la sua libertà è una libertà definita dalla verità e
dall'amore. Anche la nostra libertà diventa vera se si concilia con la nostra
verità umana che è quella di una dipendenza dal creatore, di una intercomunione
della libertà, e una dipendenza che è amore non è dipendenza ma è
la condizione del nostro essere.
Quando si vede nella relazione tra due persone l'amore come dipendenza siamo sulla strada
sbagliata, tanto più se consideriamo la nostra relazione con Dio come dipendenza. In
realtà siamo esseri relazionali e questo non è un limite ma un'apertura infinita
del nostro essere. In questo senso qui si nasconde, per tornare a Habermas, una
delle ricchezze della saggezza della fede che devono essere trasportate nel nostro mondo di
oggi...
Il monoteismo, soprattutto un monoteismo costruito artificialmente fuori dalla realtà
dei monoteismi concreti, non può essere comun denominatore. Non solo perché un
monoteismo astratto dalle realtà vissute non ha vita, quindi non ha forza, ma anche
perché il monoteismo copre solo una parte del mondo e delle culture. Abbiamo culture non
monoteiste, soprattutto il buddhismo, e abbiamo il fatto che in diverse parti del mondo il
laicismo radicale non ha distrutto la religione ma ha terribilmente debilitato la forza delle
religioni.
Pensiamo alla Cina, dove il marxismo, così come un tipo di presunto razionalismo ha
in ampia misura distrutto la tradizione religiosa. Pensiamo al Giappone, dove il laicismo
occidentale ha marginalizzato in gran parte le tradizioni religiose. Quindi abbiamo un
panorama culturale e religioso molto diversificato. Abbiamo le religioni monoteiste molto
divise tra di loro, con concetti diversi di monoteismo, abbiamo religioni non teiste, abbiamo
religioni cosmiche con idee della divinità diverse e abbiamo la presenza del laicismo,
una forza presente in tutte le civilizzazioni.
Così, invece della questione se il monoteismo possa essere un minimo comun
denominatore, chiediamoci se il laicismo potrebbe essere la forza che crea la convivenza,
essendo esso realmente presente in tutte le culture, in tutte le parti del mondo. Mi sembra che
si dovrebbe rispondere di no. Non solo perché il laicismo, nonostante tutta la sua
presenza, va considerato come un'imposizione non corrispondente alla propria cultura, ma anche
perché il laicismo è un'ideologia, lo dico non in un senso negativo,
un'ideologia parziale in un duplice senso: è parziale proprio perché vuol
rispondere alla sfida morale.
Si limita alla superficie dell'essere umano e lascia aperte tutte le questioni realmente
decisive per la vita umana, frammenta la persona umana e non dà le risposte che possono
dare una coesione comune. Al contrario, debilita decisamente queste forze, e in diverse parti
del mondo si vede come abbia paralizzato le capacità di convivenza. Pensiamo alle
eredità lasciate dal marxismo in Russia, ma dobbiamo pensare anche alla realtà
africana. Qui l'occidente ha importato la sua visione del mondo, ha armato l'Africa in
permanenza e ha distrutto i mores maiorum, cioè le regole morali che erano il
fondamento di quelle tribù. Naturalmente, prima della colonizzazione l'Africa non era
un paradiso. Era, parlando da cristiano, marcata dal peccato originale, da violenza, problemi,
aspetti negativi. Ma c'era una forza fondante, la vita comune, la condivisione della
libertà, la definizione dell'essere umano nelle diverse tribù. Questa forza
morale con l'illuminismo europeo è stata distrutta.
Ora vediamo gli effetti della duplice importazione di cui parlavo prima. Vediamo la violenza
crescente, che comincia a distruggere veramente i popoli, la distruzione morale, con l'epidemia
dell'Aids che distrugge intere popolazioni, e la responsabilità di introdurre un
razionalismo che non risponde a nessuna delle questioni fondamentali della nostra vita. Questa
duplice parzialità è importante anche nel senso che la laicità,
rappresentata da Habermas e da tanti altri, non è come tale considerata realmente
la risposta della nostra ragione.
Habermas raccontava che a Teheran un professore iraniano gli aveva suggerito di
riflettere sul fatto se anche la sua filosofia, il razionalismo, non fosse solo un'idea
parziale e non espressione universale della ragione. Non è vero che la
razionalità stessa sia la risposta della ragione. E' un'espressione cresciuta su un
humus culturale determinato, un'espressione parziale della ragione umana e non
semplicemente la luce della nostra ragione. Dobbiamo, insieme con gli altri, imparare una
totalità della ragione che ci aiuti a convivere. In questo senso il fondamentalismo
religioso è anche una reazione contro la violenza del razionalismo. Personalmente non
amo la parola fondamentalismo, perché copre troppe cose totalmente diverse. Ma
usiamola, in mancanza di un'altra parola, per definire l'affermazione cieca di se stessi, che
diventa poi violenta ed è certo una grande minaccia per noi tutti. Ma dobbiamo vedere
che essa reagisce a un pretesto di universalità che in realtà non è
verificabile e difende un'altra visione della realtà della vita.
Si difende soprattutto contro il cinismo e l'arroganza che calpesta il rispetto del sacro e
calpesta il rispetto delle grandi tradizioni morali cresciute nei secoli, che sono sacre alle
nazioni, e che, benché discutibili, garantiscono tuttavia un minimo di convivenza e
dovrebbero essere nel dialogo per la convivenza aperte, per aprirsi a una comunione e a una
comune definizione della vita. Il monoteismo come tale non è il comune denominatore,
ma possiamo noi creare nel laboratorio della nostra ragione una religione in grado di scoprire
tutto?
Tantomeno, a maggior ragione, il laicismo può essere una religione universale:
è parziale e non risponde alle sfide fondamentali dell'uomo. Mi sembra che le grandi
culture religiose debbano trovarsi in un dialogo interculturale e interreligioso per non
perdere i tesori di verità nel relativismo che li distrugge, i grandi tesori della
saggezza che sono comuni. Soprattutto mi sembra importante che ci siano persone e
comunità che vivono in purezza e con convinzione i grandi tesori della fede.
Per esempio Madre Teresa è divenuta una figura interculturale. Il Signore ha
detto una volta : “Chi crede in me diventa una fontana dalla quale si diffonde acqua viva
nei deserti del mondo”. Le persone che vivono in modo puro il nucleo fondamentale della
religione cristiana, o riescono forse a vivere il modo puro il loro nucleo, sono fontane di
vita che aiutano anche gli altri a vivere e ad andare al centro non astrattamente ma con
l'esperienza di verità che si verifica nella vita.
(dall’intervento del card.J.Ratzinger nel Dialogo su storia, politica e religione
con lo storico Ernesto Galli della Loggia, tenutosi nell’ottobre 2004 nell'ambito degli
incontri organizzati dal Centro di orientamento politico, presieduto da Gaetano Rebecchini. La
trascrizione è tratta da “Il Foglio”, 27 e 28-10-2004 ed è già
apparsa on-line nell’agenzia di stampa Zenit)
Chiesa e diritto, fede e diritto sono uniti da un legame profondo e
diversamente articolato. Basti ricordare che la parte fondamentale del canone
veterotestamentario é raccolta sotto il titolo "Torah" (legge). La liberazione di
Israele dall’Egitto non era conclusa con l'esodo, ma solo iniziata. Essa divenne
realtà piena solo quando Israele ricevette da Dio un ordinamento giuridico, che regolava
la relazione con Dio, con la comunità del popolo e dei singoli fra di loro così
anche come la relazione con gli stranieri: un diritto comune è la condizione della
libertà umana. Di conseguenza l'ideale veterotestamentario della persona pia era il
zaddik, il giusto, l’uomo che vive rettamente ed agisce rettamente secondo l'ordine del
diritto donato da Dio. Nel Nuovo Testamento di fatto la designazione zaddik e stata
sostituita dal termine pistos: l'atteggiamento essenziale del cristiano è la fede, che
lo rende "giusto". Ma con ciò è stata diminuita l'importanza del diritto?
È stato forse estromesso l'ordinamento giuridico dall'ambito del sacro ed e divenuto
semplicemente profano? E' questo un problema, che sopratutto dalla Riforma del 16° secolo
in poi è stato discusso con passione. Esso é acuito dal fatto che il concetto di
"legge" (torah) appare negli scritti paolini con accenti problematici e poi in Lutero è
considerato addirittura come l'opposto del Vangelo. Lo sviluppo del diritto nel tempo moderno
è stato profondamente segnato da queste contrapposizioni.
Non è questa la sede per sviluppare ulteriormente questo problema. Ma vorrei nondimeno
molto brevemente parlare dei due rischi attuali del diritto, che hanno entrambi anche una
componente teologica e pertanto non riguardano solo i giuristi, ma anche i teologi. La "fine
della metafisica", che in ampi settori della filosofia moderna viene presupposta come un fatto
irreversibile, ha condotto al positivismo giuridico che oggi ha assunto soprattutto la forma
della teoria del consenso: come fonte del diritto, se la ragione non è più in
grado di trovare il cammino verso la metafisica, vi sono per lo Stato solo le comuni
convinzioni sui valori dei cittadini, convinzioni che si rispecchiano nel consenso democratico.
Non la verità crea il consenso, ma il consenso crea non tanto la verità, quanto
ordinamenti comuni. La maggioranza determina ciò che deve valere come vero e come
giusto. Ciò significa che il diritto é esposto al gioco delle maggioranze e
dipende dalla coscienza dei valori della società del momento, che a sua volta è
determinata da molteplici fattori. Concretamente questo si manifesta in un progressivo
scomparire dei fondamenti del diritto ispirati alla tradizione cristiana.
Matrimonio e famiglia sono sempre meno le forme portanti della comunità statuale e
vengono sostituite da molteplici, spesso labili e problematiche forme di convivenza. La
relazione fra uomo e donna diviene conflittuale, ed ugualmente la relazione fra le generazioni.
L'ordine cristiano del tempo si dissolve; la domenica scompare e viene sempre più
sostituita da forme mobili di tempo libero. Il senso del sacro non ha più quasi alcun
significato per il diritto, il rispetto di Dio e di ciò che per gli altri e sacro,
è ormai difficilmente un valore giuridico; ad esso viene anteposto il valore supposto
più importante di una libertà senza confini del parlare... Anche la vita umana
è qualcosa di cui si può disporre - aborto ed eutanasia non vengono più
esclusi dagli ordinamenti giuridici. Nell'ambito degli esperimenti sugli embrioni e della
medicina dei trapianti si delineano forme di manipolazione della vita umana, nelle quali l'uomo
si arroga non solo di poter disporre della vita e della morte, ma anche del suo divenire e del
suo essere. Così recentemente si è giunti a reclamare perfino la selezione e
l'allevamento programmato per il continuo sviluppo del genere umano, e l'essenziale
diversità dell'uomo nei confronti dell'animale è messa in discussione.
Poiché negli stati moderni la metafisica e con essa il diritto naturale sembra essere
definitivamente venuto meno, è in corso una trasformazione del diritto, i cui passi
ulteriori non sono ancora prevedibili; il concetto stesso di diritto perde i suoi contorni
precisi.
Vi è ancora una seconda minaccia del diritto, che oggi sembra essere meno
attuale di quanto non lo era ancora dieci anni fa, ma può in ogni momento riemergere e
trovare agganci con la teoria del consenso. Penso alla dissoluzione del diritto per mezzo
dello spinta dell'utopia, cosi come aveva assunto forma sistematica e pratica nel pensiero
marxista. Il punto di partenza era qui la convinzione che il mondo presente è cattivo
- un mondo di oppressione e di mancanza di libertà. Esso dovrebbe essere sostituito da
un mondo migliore da pianificare e da realizzare adesso. La vera ed ultimamente unica fonte del
diritto diviene ora l'immagine della nuova società; morale e con importanza giuridica
è ciò che serve all'avvento del mondo futuro. A partire da questo criterio si
è venuto elaborando il terrorismo, che si riteneva pienamente come un progetto morale;
uccisione e violenza appaiono come azioni morali, perché erano al servizio della grande
rivoluzione, al servizio della distruzione dell'attuale mondo cattivo e servivano al grande
ideale della nuova società. Anche qui è data per scontata la fine della
metafisica, al cui posto subentra in questo caso non il consenso dei contemporanei, ma il
modello ideale del mondo futuro.
Vi è anche una origine criptoteologica di questa negazione del diritto. A partire da
questa si comprende perché vaste correnti della teologia - innanzitutto le diverse forme
di teologia della liberazione - erano così soggette a questa tentazione. Anche queste
connessioni non mi é possibile presentare qui per esteso. Mi accontenterò
dell'accenno al fatto che un malinteso paolinismo ha dato molto presto occasione per
interpretazioni del cristianesimo radicali ed anche anarchiche. Per non parlare dei movimenti
gnostici, nei quali inizialmente si svilupparono queste tendenze, che insieme con il no al Dio
creatore includevano anche un no alla metafisica, al diritto creaturale ed al diritto naturale.
Non ci soffermiamo qui sulle inquietudini e le agitazioni sociali del sedicesimo secolo,
nell'ambito delle quali le correnti radicali della riforma diedero vita a movimenti
rivoluzionari ed utopistici. Mi soffermo piuttosto su di un fenomeno apparentemente molto
più innocuo, su di una forma di interpretazione del cristianesimo che dal punto di vista
scientifico apparirebbe come totalmente rispettabile e che il grande giurista evangelico
Rudolph Sohm ha sviluppato nel secolo scorso. Egli propose la tesi, che il cristianesimo
come vangelo, come rottura della legge originariamente non avrebbe potuto e voluto includere
alcun diritto, ma la Chiesa sarebbe inizialmente nata come "anarchia spirituale", che poi
certamente a partire dalle necessità esterne dell'esistenza ecclesiale già verso
la fine del primo secolo sarebbe stata sostituita da un diritto sacramentale. Al posto di
questo diritto, che per cosi dire era fondato sulla carne di Cristo, sul corpo di Cristo ed era
di natura sacramentale, sarebbe poi subentrato nel medioevo il diritto non più del corpo
di Cristo, ma della corporazione dei cristiani, appunto quel diritto ecclesiale, che da allora
noi conosciamo. Ma il vero modello restava per Sohm, l'anarchia spirituale: in
realtà nella condizione ideale della Chiesa non dovrebbe esserci bisogno di nessun
diritto. Nel nostro secolo a partire da tali posizioni divenne di moda la contrapposizione fra
la Chiesa del diritto e la Chiesa dell'amore: il diritto fu presentato come l'opposto
dell'amore. Un simile contrasto può certamente emergere nella concreta applicazione del
diritto, ma innalzare questo a principio stravolge l'essenza del diritto così come
l'essenza dell'amore. Queste concezioni ultimamente avulse dalla realtà, che non
giungono fino allo spirito dell'utopia, ma le sono apparentate, si sono ampiamente diffuse
nella nostra società. Il fatto che dagli anni cinquanta "Law and Order" (Legge ed
ordine) siano divenute un insulto, anzi, "Law and Order" siano fatti passare come fascistoidi,
dipende da queste concezioni. L'ironizzazione del diritto apparteneva per altro ai fondamenti
del nazionalsocialismo (non conosco sufficientemente la situazione per quanto riguarda il
fascismo italiano). Nei cosiddetti anni della lotta il diritto fu molto consapevolmente
calpestato e contrapposto al cosiddetto sano sentimento popolare. Successivamente il "Fuhrer"
fu dichiarato come l'unica fonte del diritto e cosi l'arbitrio fu messo al posto del diritto.
La denigrazione del diritto non è mai ed in nessun modo al servizio della
libertà, ma è sempre uno strumento della dittatura. La eliminazione del
diritto è disprezzo dell'uomo; ove non vi è diritto, non vi è
libertà.
A questo punto anche alla vera domanda di fondo cui mi vado dirigendo con queste riflessioni,
può essere data una risposta purtroppo solo in modo assai sintetico - alla questione
cioè di che cosa la fede e la teologia possano e debbano fare in questa situazione per
la difesa del diritto. Vorrei in modo molto sommario e certamente insufficiente accennare ad
una risposta proponendo le seguenti due tesi:
1. L'elaborazione e la strutturazione del diritto non é
immediatamente un problema teologico, ma un problema della "recta ratio", della retta ragione.
Questa retta ragione deve cercare di discernere, al di là delle opinioni e delle
correnti di pensiero, ciò che è giusto, il diritto in se stesso, ciò che
è conforme all'esigenza interna dell'essere umano di tutti i luoghi e che lo distingue
da ciò che è distruttivo dell'uomo. Compito della Chiesa e della fede
é contribuire alla sanità della "ratio" e per mezzo della giusta educazione
dell'uomo conservare alla sua ragione la capacita di vedere e di percepire. Se questo
diritto in se lo si vuol chiamare diritto naturale od in altro modo, é un problema
secondario. Ma laddove questa esigenza interiore dell'essere umano, che come tale è
orientato al diritto, laddove questa istanza, che va al di là delle correnti mutevoli,
non può più essere percepita e quindi la "fine della metafisica" è totale,
l'essere umano nella sua dignità e nella sua essenza è minacciato.
2. La Chiesa deve fare un esame di coscienza sulle spinte distruttive del diritto, che hanno
avuto origine da interpretazioni unilaterali della sua fede e hanno contribuito a determinare
la storia di questo secolo. Il suo messaggio supera l'ambito della semplice ragione e rinvia a
nuove dimensioni della libertà e della comunione. Ma la fede nel creatore e nella sua
creazione è inseparabilmente congiunta con la fede nel redentore e nella redenzione.
La redenzione non dissolve la creazione ed il suo ordine, ma al contrario ci restituisce la
possibilità di percepire la voce del creatore nella sua creazione e così di
comprendere meglio i fondamenti del diritto. Metafisica e fede, natura e grazia, legge e
vangelo non si oppongono, ma sono intimamente legati. L'amore cristiano, come lo propone il
discorso della montagna, non può mai divenire fondamento di un diritto statuale. Esso va
molto al di là ed è realizzabile almeno embrionalmente solo nella fede. Ma esso
non è contro la creazione ed il suo diritto, bensì si fonda su di esso. Ove non
vi è un diritto, anche l'amore perde il suo ambiente vitale. La fede cristiana
rispetta la natura propria dello Stato, soprattutto dello Stato di una società
pluralista, ma sente anche la sua corresponsabilità affinché i fondamenti del
diritto continuino a rimanere visibili e lo Stato non sia esposto privo di orientamenti
soltanto al gioco di correnti mutevoli. Poiché in questo senso, pur con tutte le
distinzioni fra ragione e fede, fra diritto statuale da elaborare con l'aiuto della ragione e
struttura vitale della Chiesa, tuttavia entrambi gli ordinamenti sono in una relazione
reciproca od hanno una responsabilità l'uno per l'altro.
(dal discorso dell’allora card.J.Ratzinger in occasione del conferimento della
laurea honoris causa della Facoltà di giurisprudenza della LUMSA, pronunciato il
10.11.1999)
La Chiesa sostanzialmente non può riconoscersi nella categoria
“occidente”. Sarebbe sbagliato storicamente, empiricamente, ideologicamente.
Storicamente, sappiamo che il cristianesimo è nato nell'incrocio di Europa, Asia e
Africa, e questo indica anche qualcosa della sua essenza interna. E' nato in un incontro delle
culture come capacità, possibilità e sfida di una sintesi delle culture e come
possibilità di trascendere le culture in qualcosa che è l'essere umano come tale
e che precede e trascende le culture. Ai suoi inizi, l'espansione del cristianesimo andava
ugualmente a oriente, verso Cina, India, Persia, Arabia, e a occidente.
Purtroppo, dopo la nascita dell'islam gran parte di questa cristianità orientale
è scomparsa. Ma non del tutto, perché esistono elementi di queste
cristianità storiche che testimoniano la sua universalità, e anche la
cristianità europea si divide in occidentale e orientale. Quindi l'estensione della
Chiesa riferita alla nostra cultura è molto grande e si dettaglia in diverse
culture.
Empiricamente, non solo abbiamo questa grande eredità storica, ma il cristianesimo
è presente, con minoranze di forza spirituale riconosciuta, in tutti i continenti.
Sempre più l'asse della cristianità si sposta verso i nuovi continenti, verso
Africa, Asia, America latina. L'Europa è ancora una fonte essenziale per lo sviluppo
del cristianesimo, tuttavia comincia a emarginarsi proprio con la discussione sulla sua
identità.
Teologicamente, perché la Chiesa, per sua essenza, dovrebbe trascendere le culture,
essere il fatto che non è legato a una cultura determinata ma aiuta l'esodo dal carcere
di una cultura e la comunicazione delle culture. E' quanto gli Atti degli Apostoli dicono
sul giorno di Pentecoste, sulla presenza di tutte le culture conosciute e di tutte le lingue.
E' come la carta costituzionale che indica come dovrebbe essere l'essenza di una Chiesa che
parla in tutte le lingue, abbraccia, unisce le culture e allo stesso tempo ne rispetta le
diverse ricchezze. Non è un comportamento politico dettato dal bisogno di non perdere la
simpatia per la Chiesa in Africa, Asia o America latina, ma è un comportamento
teologico.
La Chiesa non può riconoscersi semplicemente come occidente, ma deve sempre di nuovo
trascendere la sua definizione occidentale e estendersi realmente verso l'universalità,
soprattutto trascendendo se stessa verso il divino, che è l'unica realtà che
può creare una comunicazione delle culture. E' vero, a volte la Chiesa si comporta
in modo politico, ma è anche giusto che avvenga.
Rispetto alla distruzione delle culture precedenti: c'è una differenza sostanziale tra
l'espropriazione fatta dall'invasione del laicismo in Africa, dove i mores maiorum sono
stati sostituiti con una razionalità che non conosce mores e non conosce risposte
in questo campo e quindi li distrugge come irrazionali ma non offre nuove risposte. La
visione cristiana ha almeno cercato di non distruggere semplicemente ma di assimilare l'essenza
delle religioni che, secondo la nostra convinzione, era in attesa di una risposta. Possiamo
osservare che le culture africane erano e sono in attesa di una risposta nuova, così
come lo erano le culture mediterranee del tempo di Cristo. Il politeismo greco-romano non
poteva sopravvivere, era superato, era divenuto irrazionale, pura tradizione senza cuore e
senza ragione, e aspettava una risposta che trasformasse profondamente.
La stessa cosa è avvenuta per i popoli africani, nell'Ottocento e Novecento. Si
attendeva una nuova risposta che integrasse le ricchezze al loro interno, trasformandole in una
nuova apertura che rispondesse alla nuova situazione storica. La predicazione cristiana ha
trovato in tutte quelle religioni una mistica di morte e resurrezione, prefigurazione di quanto
insegna la fede cristiana, idee di iniziazione, di sacramentalità. Anche in America
latina: pensiamo all'immagine della Madonna di Guadalupe, che è realmente una sintesi
interculturale incredibile, che nessuno poteva escogitare.
Così sono state salvate sostanze essenziali, e questi popoli non avrebbero accettato
con tanto entusiasmo il messaggio cristiano se non avessero trovato nel Dio sofferente una
risposta a quanto si aspettavano, e nella Madonna una risposta al desiderio di una madre. Ci
sono state distruzioni, certo, ma oso dire, da cattolico, che le due distruzioni sono state
diverse.
Ultimo punto, che cosa è l'Europa. E' evidente l'elemento geografico, ma la
geografia sola non crea un continente.
Nell'epoca greco-romana i limiti erano molto diversi, e solo per la religione e la cultura
comune si è formato questo continente, che non si definisce come tale senza quel
fondamento che non è solo una radice storica del passato ma è fonte e condizione
di vita, come la radice per un albero. Per ridefinire che cosa sia l'Europa non possiamo
fermarci al positivismo, a ciò che siamo, alle leggi e ai diritti definiti. Se vogliamo
definire l'Europa in modo che possa vivere e contribuire al mondo di oggi e non vivere
“contro” gli altri, ma per se stessa e gli altri essere una fonte di umanizzazione
nel mondo, abbiamo bisogno di ridefinire il nostro continente.
Ci sono due cose che a mio avviso dobbiamo difendere come la grande eredità europea che
vive e deve vivere. Il primo è la razionalità, che è un dono
dell'Europa al mondo ed è anche voluta dal cristianesimo. I Padri della Chiesa hanno
visto la preistoria della Chiesa non nelle religioni ma nella filosofia. Loro erano convinti
che “semina verbi”, “logos spermatikos” non erano le religioni ma il
movimento della ragione cominciato con Socrate, che non si accontentava della tradizione ma
sorpassava le tradizioni per trovare ciò che è vero, e trovarlo con la forza
della ragione.
Così è stata aperta la porta al cristianesimo, con la critica delle
tradizioni, l'esperienza della necessità di uscire dal carcere di una tradizione non
più valida, con questo cammino avventuroso, questo cercare di più, cercare
con tutte le forze della ragione umana la realtà, da dove veniamo e dove dobbiamo
andare. Questa critica delle tradizioni, che ha aperto la questione se il cristianesimo fosse
la risposta, era necessaria per aprire le porte al movimento cristiano. La razionalità
è voluta dalla fede. San Pietro dice nella sua prima lettera: “Siate sempre
pronti a dare apologia per il logos della vostra speranza”. Cioè, la vostra
speranza, che è identica alla fede, porta con sé un logos e questo logos
può divenire una apologia, una risposta che può essere comunicata agli altri.
Non vogliamo creare un impero di potere, ma abbiamo una cosa comunicabile alla quale va
incontro un'attesa della nostra ragione, è comunicabile perché appartiene alla
nostra comune natura umana e c'è un dovere di comunicare da parte di chi ha trovato un
tesoro di verità e amore.
La razionalità era quindi postulato e condizione del cristianesimo, e rimane
un'eredità europea per confrontarci, in modo pacifico e positivo, sia con l'islam sia
con le grandi religioni asiatiche. Secondo punto: questa razionalità diventa
pericolosa e distruttiva per la creatura umana se diventa positivista e riduce i grandi valori
del nostro essere alla soggettività, e diventa così un'amputazione della creatura
umana. Non vogliamo imporre a nessuno una fede che si può accettare solo liberamente, ma
come forza vivificatrice della razionalità dell'Europa essa appartiene alla nostra
identità.
E' stato detto che non dobbiamo parlare di Dio nella Costituzione europea perché non
dobbiamo offendere i musulmani e i fedeli di altre religioni. E' vero il contrario. Ciò
che offende i musulmani e i fedeli di altre religioni non è parlare di Dio o delle
nostre radici cristiane, ma piuttosto il disprezzo di Dio e del sacro, che ci separa dalle
altre culture e non crea una possibilità d'incontro ma esprime l'arroganza di una
ragione diminuita, ridotta, che provoca reazioni fondamentaliste.
L'Europa, sottolineo, deve difendere la razionalità e su questo punto anche noi
credenti dobbiamo essere grati al contributo dei laici, dell'illuminismo, che deve rimanere una
spina nella nostra carne. Ma anche i laici devono accettare la spina nella loro carne,
cioè la forza fondante della religione cristiana per l'Europa, non solo ieri ma anche
oggi e domani.
(dall’intervento del card.J.Ratzinger nel Dialogo su storia, politica e religione
con lo storico Ernesto Galli della Loggia, tenutosi nell’ottobre 2004 nell'ambito degli
incontri organizzati dal Centro di orientamento politico, presieduto da Gaetano Rebecchini. La
trascrizione è tratta da “Il Foglio”, 27 e 28-10-2004 ed è già
apparsa on-line nell’agenzia di stampa Zenit)
Negli ultimi tempi mi capita di notare sempre di più che il
relativismo – quanto più diventa la forma di pensiero generalmente accettata
– tende all'intolleranza, trasformandosi in un nuovo dogmatismo. La political
correctness, la cui pressione onnipresente Lei ha evidenziato, vorrebbe erigere il regno di
un solo modo di pensare e parlare. Il suo relativismo apparentemente la innalza più in
alto di tutte le grandi vette del pensiero finora raggiunte; soltanto così si dovrebbe
ancora pensare e parlare se si vuole essere all'altezza del presente. Mentre la fedeltà
ai valori tradizionali e alle conoscenze che li sostengono viene bollata come intolleranza e lo
standard relativistico viene elevato a obbligo.
Mi sembra molto importante contrapporsi a questa costrizione di un nuovo pseudo-Illuminismo che
minaccia la libertà di pensiero e anche la libertà di religione. Che in Svezia un
predicatore che aveva esposto l'insegnamento biblico circa la questione
dell'omosessualità senza se e senza ma sia stato condannato a una pena detentiva
è soltanto uno dei segni del fatto che il relativismo comincia a prendere piede come una
sorta di nuova “confessione”, che pone limiti alle convinzioni religiose e cerca di
sottoporle tutte al suo super-dogma del relativismo.
Qui emerge appieno il dilemma dell'esistenza umana. Se si dovessero equiparare
razionalità e coscienza media, alla fine rimarrebbe ben poco della
“ragione”. Il cristiano è convinto che la sua fede non solo gli apre nuove
dimensioni del conoscere, ma che aiuta soprattutto la ragione a essere se stessa.
C’è il vero e proprio patrimonio della fede (Trinità, divinità di
Cristo, sacramenti, eccetera), ma ci sono anche le conoscenze alla cui evidenza contribuisce la
fede, che poi però vengono riconosciute come razionali e appartenenti alla ragione come
tale, e che perciò implicano anche una responsabilità nei confronti degli
altri.
Il fedele, che ha ricevuto egli stesso un aiuto per la sua ragione, deve impegnarsi in favore
della ragione e di ciò che è razionale: questo, di fronte alla ragione
addormentata o ammalata, è un dovere che ha verso tutta la comunità umana.
Naturalmente il fedele sa che deve rispettare la libertà degli altri e che la sua
unica arma alla fine è proprio la razionalità degli argomenti che propone
nell'agone politico e nella lotta per formare la pubblica opinione. Per questo è
molto importante sviluppare un'etica filosofica che, pur essendo in armonia con l'etica della
fede, deve però avere il suo proprio spazio e il suo rigore logico. La
razionalità degli argomenti dovrebbe cancellare il fossato fra etica laica e etica
religiosa e fondare un'etica della ragione che vada oltre tali distinzioni.
Detto questo, vorrei brevemente trattare due questioni di contenuto. C’è, per
prima cosa, il problema dell'essere “persona fin dal concepimento”. L'istruzione
Donum vitae del 22 febbraio 1987, al n. I, 1, ricorda come, in base alle conoscenze
della genetica moderna, “dal primo istante si trova fissato il programma di ciò
che sarà questo vivente: un uomo, quest'uomo individuo con le sue note caratteristiche
già ben determinate”. O, in altre parole: “nello zigote derivante dalla
fecondazione si è già costituita l'identità biologica di un nuovo
individuo umano”. È qui che si passa dall'empirico al filosofico.
L'istruzione afferma che nessun dato sperimentale potrà mai essere sufficiente per
constatare l'esistenza di un'anima spirituale. Il documento formula la connessione tra livello
empirico e filosofico in forma di domanda. Ricorda ancora una volta che si può
constatare empiricamente che c'è un nuovo individuo: “individuo” è un
termine empirico in quanto si tratta di un organismo che, pur essendo completamente dipendente
da quello della madre, tuttavia è un organismo nuovo, con un suo proprio programma
genetico. Ne consegue la domanda: “Come può un individuo umano non essere una
persona umana?”. Da cui risulta la deduzione etica: “L'essere umano da rispettare
– come una persona – fin dal primo istante della sua
esistenza”.
Il Magistero qui non propone una propria teoria filosofica, tanto meno argomenta
teologicamente; pone, al punto d'incontro dei livelli empirico e filosofico (antropologico),
una domanda che – a mio parere – comporta una chiara conseguenza etica per la
ragione. Da cui risulta, d'altra parte, una deduzione per il legislatore: se le cose stanno
così, allora l'autorizzazione all'uccisione dell'embrione significa che “lo Stato
viene a negare l'uguaglianza di tutti davanti alla legge” (parte III). La questione del
diritto la vita di tutti quelli che sono uomini non è per noi una questione di etica
della fede, ma di etica della ragione. Ed è a questo livello che si deve svolgere il
dibattito.
Trattare allo stesso modo anche i problemi inerenti alla fecondazione artificiale ci
costringerebbe ad andare troppo oltre. Vorrei però almeno accennare al fatto che la
Donum vitae, pur rifiutando, sulla base di un'etica che argomenta antropologicamente, la
fecondazione omologa come anche quella eterologa, non esige dal legislatore il divieto della
fecondazione omologa extra corporea, ma vorrebbe comunque vedere esclusa la fecondazione
eterologa anche per legge, in quanto altrimenti si rinuncerebbe al valore, ancora protetto per
legge, del matrimonio; sarebbe cioè un “no” a un'istituzione
fondamentale delle società basate sulla cultura cristiana. Un tale affronto contro la
base della nostra struttura sociale è in fondo un'auto-contraddizione del legislatore;
il fatto che ciò non venga più percepito dimostra chiaramente quanto sia
avanzato il processo di smantellamento dell'istituzione matrimoniale. Partendo dalla mia
fede, come anche dalla ragione morale, posso in questo riconoscere un segnale d'allarme molto
serio per le nostre società.
I documenti della Chiesa degli ultimi tempi sono ben consapevoli di questo contesto. Partono
innanzitutto dal fatto che accettazione e successo non possono essere i criteri decisivi per la
coscienza in cerca della verità.
Ma, d'altra parte, si rendono anche conto che in politica si tratta di ciò che
è realizzabile e di avvicinarsi il più possibile a ciò che la coscienza e
la ragione hanno riconosciuto come il vero bene per l'individuo e la società. Alla
politica appartiene il compromesso. Fin dove si può spingere, con dei compromessi,
il politico cristiano nella sua ricerca di un diritto moralmente fondato senza entrare in
contraddizione con suo coscienza?
Sia la Evangelium vitae che la Donum vitae sono consapevoli del fatto che, sulla base di
una ragione su cui oggi ci sono opinioni tanto contrastanti, non si potrà raggiungere
il necessario consenso per una legislazione intorno alle questioni di etica della vita che
corrisponda pienamente alla coscienza cristiana.
Tutti e due i testi insistono perciò che il legislatore, partendo dal principio
comunemente riconosciuto della libertà di coscienza, dovrebbe, in questo ambito,
concedere il diritto all'obiezione di coscienza: la Chiesa non vuole imporre agli altri
ciò che non comprendono, ma si aspetta, da parte loro, almeno il rispetto per la
coscienza di coloro che lasciano guidare la loro ragione dalla fede cristiana.
(dalla Lettera a Marcello Pera del card. J.Ratzinger in J.Ratzinger-M.Pera, Senza Radici,
Mondadori, Milano, 2004)
Quando, il 5 giugno 1944, iniziò lo sbarco delle truppe alleate
nella Francia occupata dalla Wermacht, l’evento rappresentò per il mondo intero,
compresa una gran parte dei tedeschi, un segnale di speranza: la speranza che in Europa presto
sarebbero arrivate la pace e la libertà.
Che cos’era accaduto? Un criminale con i suoi accoliti era riuscito a impadronirsi del
potere in Germania. Sotto il dominio del Partito, il diritto e l’ingiustizia si erano
intricati tra loro in maniera pressoché indissolubile, tanto da travasarsi spesso
l’uno nell’altra e viceversa. Questo perché un regime diretto da un
criminale esercitava anche le funzioni classiche dello Stato e dei suoi ordinamenti,
così che aveva facoltà, in un certo senso, di esigere di diritto
l’obbedienza dei cittadini e il loro rispetto nei confronti dell’autorità
dello Stato (Rm 12, 1 e seg.) ma nello stesso tempo utilizzava gli strumenti del diritto come
mezzi per i suoi scopi criminali.
Lo stesso Stato di diritto, che in parte continuava a funzionare nelle sue forme abituali
all’interno della vita quotidiana, era diventato una potenza che distruggeva il diritto:
la perversione degli ordinamenti, che dovevano servire la giustizia e contemporaneamente
consolidavano e rendevano impenetrabile il dominio dell’iniquità, si traduceva in
un dominio esteso e profondo della menzogna, tale da oscurare le coscienze.
Al servizio di questo dominio della menzogna stava un regime di paura, nel quale nessuno poteva
fidarsi dell’altro perché tutti in qualche modo dovevano proteggersi sotto la
maschera della menzogna. Così fu di fatto necessario che il mondo intero intervenisse
a spezzare il cerchio dell’azione criminale, perché fossero ristabiliti la
libertà e il diritto. Oggi noi siamo grati al fatto che questo sia avvenuto, e a esser
grati non sono soltanto i Paesi occupati dalle truppe tedesche. Noi stessi, i tedeschi, siamo
grati perché, con l’aiuto di quell’impegno, abbiamo recuperato la
libertà e il diritto.
Se mai si è verificato nella storia un bellum justum è qui che lo troviamo,
nell’impegno degli Alleati, perché il loro intervento operava nei suoi esiti anche
per il bene di coloro contro il cui Paese era condotta la guerra. Questa constatazione mi pare
importante perché mostra, sulla base di un evento storico,
l’insostenibilità di un pacifismo assoluto. Il che non ci esenta in alcun modo dal
porci con molto rigore la domanda se oggi sia ancora possibile, e a quali condizioni, qualcosa
di simile a una guerra giusta, vale a dire un intervento militare, posto al servizio della pace
e guidato dai suoi criteri morali, contro i regimi ingiusti.
Soprattutto, si spera che quel che abbiamo fin qui detto aiuti a comprendere meglio che la pace
e il diritto, la pace e la giustizia sono inseparabilmente interconnessi. Quando il diritto
è distrutto, quando l’ingiustizia prende il potere, la pace è sempre
minacciata ed è già, almeno in parte, compromessa.
In Europa, a partire dalla fine delle ostilità, nel maggio 1945, ci è stato
dato di vivere un periodo di pace lungo come non mai in tutto il corso della storia del
continente. Questo in gran parte per merito della prima generazione di politici che hanno
operato nel dopoguerra Churchill, Adenauer, Schumann, De Gasperi.
A loro dobbiamo ancor oggi gratitudine, e dobbiamo essere grati che a guidare in maniera
determinante la loro politica non fu un’idea di rivalsa, o di vendetta, o di umiliazione
dei vinti ma il dovere di garantire a tutti un diritto; che in luogo della concorrenza fu
introdotta la collaborazione, lo scambio di doni offerti e accettati, la mutua conoscenza e
l’amicizia nel cuore di una diversità nella quale ciascuna nazione conserva la sua
identità e la conserva nella comune responsabilità nei confronti del diritto, in
luogo della precedente perversione del diritto.
Il centro motore di quella politica di pace fu il legame fra l’agire politico e la
morale. Il discrimine interno a qualsiasi politica è costituito dai valori morali che
noi non inventiamo: essi esistono e sono gli stessi per tutti gli uomini. Diciamolo
apertamente: quegli uomini politici hanno fondato la loro idea morale dello Stato, della
pace e della responsabilità sulla loro fede cristiana, che aveva superato la prova
dell’illuminismo e si era ampiamente purificata nel confronto con la distorsione del
diritto e della morale operata dal Partito.
Essi non volevano costruire uno Stato confessionale bensì uno Stato che prendesse
forma attraverso l’etica. A ciò si aggiunge in verità il fatto che
l’Europa era divisa da una frontiera che non attraversava soltanto il nostro continente
bensì il mondo intero. Una grande parte dell’Europa centrale e dell’Europa
orientale si trovava sotto il dominio di un’ideologia che passava attraverso il Partito e
sottometteva lo Stato al Partito, trasformandolo esso stesso in partito.
Anche qui ne derivava un dominio della menzogna. Dopo il crollo di queste dittature, sono
emersi con chiarezza i disastri economici, ideologici e spirituali da esse generati. Nei
Balcani si è arrivati a conflitti armati nei quali senza alcun dubbio tutto il peso
storico del passato produceva per parte sua ulteriori esplosioni di violenza. Ma
sottolineare il carattere criminale di quei regimi ed essere felici che siano stati rovesciati
non ci esime dal chiederci perché, alla maggior parte dei popoli africani e asiatici, a
quei Paesi che erano detti “non allineati”, il regime dell’Est appariva
più morale e più realizzabile come modello rispetto all’ordinamento
politico e giuridico dell’Occidente. E’ un sintomo, questo, di alcune deficienze
nella nostra struttura, deficienze sulle quali dobbiamo riflettere...
Ma le organizzazioni terroriste e quelle criminali non hanno niente a che vedere con quel tipo
di ragione, dato che uno dei pilastri del terrore poggia sulla disponibilità
all’autodistruzione, un’autodistruzione trasfigurata in martirio e tradotta in
promessa.
Che cosa possiamo e dobbiamo fare in questa situazione? Prima di tutto è bene
soffermarsi su alcune verità fondamentali. Non è possibile venire a capo del
terrore, cioè della forza opposta al diritto e separata dalla morale, con il solo mezzo
della forza.
Certamente la difesa del diritto può e deve, in alcune circostanze, far ricorso a una
forza commisurata. Un pacifismo assoluto, che neghi al diritto l’uso di qualunque mezzo
coercitivo, si risolverebbe in una capitolazione davanti all’iniquità, ne
sanzionerebbe la presa del potere e abbandonerebbe il mondo al diktat della violenza. Ma per
evitare che la forza del diritto si trasformi essa stessa in iniquità, è
necessario sottometterla a criteri rigorosi e riconoscibili come tali da parte di
tutti.
Essa deve interrogarsi sulle cause del terrore, il quale spesso trova la sua scaturigine in
una situazione di ingiustizia alla quale non vengono opposte misure efficaci. Soprattutto
è importante in queste situazioni rinnovare costantemente un’offerta di
perdono, al fine di spezzare la spirale della violenza.
Là dove, infatti, viene applicata senza quartiere la regola dell’ “occhio
per occhio”, non c’è via d’uscita dalla violenza. Sono necessari
gesti d’umanità che, rompendo con la violenza, cerchino nell’altro
l’uomo e lo richiamino alla sua umanità, anche dove ciò appaia a prima
vista come una perdita di tempo.
E’ urgente l’avvento di un vero ius gentium libero da egemonie preponderanti e
capace di interventi adeguati: solo così apparirà chiaro che in gioco
è la protezione del diritto comune, del diritto di tutti, anche di coloro che stanno,
come si suol dire, dall’altra parte della barricata.
Nella Seconda guerra mondiale è stato il verificarsi di questa condizione a risultare
convincente e a portare a una vera pace tra le forze antagoniste. Non si operò,
infatti, per il rafforzamento di un diritto particolare ma per il ristabilimento della
libertà e del vero diritto, per tutti, anche se indubbiamente non si riuscì a
impedire la nascita di nuove strutture egemoniche...
Ma nell’attuale scontro tra le grandi democrazie e il terrore di matrice islamica entrano
in gioco questioni le cui radici sono ancor più profonde. Sembra di assistere oggi allo
scontro tra due grandi sistemi culturali i quali sono caratterizzati in verità da forme
molto diverse di potenza e di orientamento morale: l’Occidente e l’Islam.
E tuttavia, che cos’è l’Occidente? E che cos’è
l’Islam? Entrambi sono mondi polimorfi, e sono mondi anche interagenti. In questo
senso è dunque un errore opporre globalmente Occidente e Islam. C’è chi
tuttavia tende ad approfondire ulteriormente questa opposizione, interpretandola come scontro
tra la ragione illuminata e una forma di religione fondamentalista e fanatica. Si
tratterebbe dunque di abbattere prima di tutto il fondamentalismo in tutte le sue forme e di
promuovere la vittoria della ragione per lasciare campo libero a forme illuminate di
religione.
E’ vero che, in questo caso, il rapporto tra la ragione e la religione è di
un’importanza decisiva, che la ricerca di un giusto rapporto è il fulcro dei
nostri sforzi in materia di pace. Parafrasando un’affermazione di Hans Kung, direi
che nessuna pace può esserci nel mondo senza l’autentica pace tra ragione e
fede, perché senza la pace tra la ragione e la religione le sorgenti della morale e del
diritto si esauriscono.
Per chiarire il senso di questa affermazione vorrei formulare il medesimo pensiero in chiave
negativa: esistono le patologie della religione - sono sotto i nostri occhi ed esistono le
patologie della ragione anch’esse ben visibili. Entrambe le patologie costituiscono
pericoli mortali per la pace e, oserei dire, per l’umanità intera.
(dal discorso per il 60° anniversario dello sbarco alleato in Normandia, tenuto il 4
giugno 2004)
A ben guardare, due anni sembrano aver segnato gli ultimi decenni del
secolo appena trascorso: il 1968 e il 1989. Il 1968 è legato all’emergere di
una nuova generazione, che non solo giudicò inadeguata, piena di ingiustizia, piena di
egoismo e di brama di possesso, l’opera di ricostruzione del dopoguerra, ma che
guardò all’intero svolgimento della storia, a partire dall’epoca del
trionfo del cristianesimo, come a un errore e a un insuccesso. Desiderosi di migliorare la
storia, di creare un mondo di libertà, di uguaglianza e di giustizia, questi giovani si
convinsero di aver trovato la strada migliore nella grande corrente del pensiero marxista.
L’anno 1989 segnò il sorprendente crollo dei regimi socialisti in Europa, che
lasciarono dietro di sé un triste strascico di terre distrutte e di anime distrutte. E,
tuttavia, chi pensava che l’ora del messaggio cristiano sarebbe nuovamente scoccata si
è illuso: sebbene il numero dei cristiani credenti nel mondo non sia modesto, in questo
momento storico il cristianesimo non è riuscito a porsi distintamente come
un’alternativa epocale. La ‘dottrina di salvezza’ marxista, in sostanza,
era nata, nelle sue numerose versioni variamente strumentate, come unica visione del mondo
scientifica corredata di motivazione etica e adatta ad accompagnare l’umanità nel
futuro. Di qui il suo difficile congedo, anche dopo il trauma del 1989. Basti pensare a quanto
contenuta è stata la discussione sugli orrori dei gulag comunisti, a quanto inascoltata
è rimasta la voce di Solženicyn: di tutto questo non si parla. A imporre il
silenzio è una sorta di pudore. Persino al sanguinario regime di Pol Pot si accenna
soltanto occasionalmente, en passant. Ma è rimasto il disinganno, accanto a
una profonda confusione. Nessuno oggi crede più alle grandi promesse morali. E
proprio in questi termini era stato inteso il marxismo: una corrente che auspicava giustizia
per tutti, l’avvento della pace, l’abolizione degli ingiustificati rapporti di
predominio dell’uomo sull’uomo e via dicendo. Per questi nobili scopi si
pensò di dover rinunciare ai principi etici e di poter utilizzare il terrore come
strumento del bene. Da quando, anche solo per un momento, sono affiorate in superficie,
visibili a tutti, le rovine dell’umanità prodotte da quest’idea, la gente
preferisce rifugiarsi nella pragmatica o professare pubblicamente il dispregio per
l’etica. Un tragico esempio è quello della Colombia, dove all’insegna
del marxismo è stata intrapresa in passato una lotta per la liberazione dei piccoli
agricoltori, soffocati dai grandi capitalisti. Al suo posto oggi è rimasta una
repubblica di ribelli sottratti al potere statale, che vive apertamente del traffico illecito
di droga e non cerca per questo giustificazioni morali, soprattutto perché,
soddisfacendo la domanda dei paesi ricchi, riesce a sfamare un popolo che altrimenti
faticherebbe a trovare un suo posto nell’ordine economico mondiale...
Nella determinazione del ruolo del cristianesimo nella storia ha influito soprattutto
l’idea di un nuovo rapporto tra chiesa e mondo. Se negli anni Trenta Romano Guardini
aveva coniato (giustamente) l’espressione «distinzione di ciò che è
cristiano» (Unterscheidung des Christlichen), oggi tale distinzione sembrerebbe
aver perso la sua importanza in favore, piuttosto, del superamento delle distinzioni,
dell’avvicinarsi al mondo, del coinvolgersi nel mondo. Quanto rapidamente queste idee
potessero uscire dalla cerchia dei discorsi ecclesiastici accademici e acquisire un taglio
più pratico cominciò a essere evidente già nel 1968, all’epoca delle
barricate parigine, quando si celebrava un’eucaristia della rivoluzione e, con essa, si
sperimentava un nuovo connubio tra chiesa e mondo all’insegna della rivoluzione,
in attesa di tempi migliori. La partecipazione in prima linea di comunità studentesche
cattoliche ed evangeliche ai movimenti rivoluzionari nelle università europee ed
extraeuropee non fece che confermare tale tendenza.
Il bagliore di questa nuova conversione di idee in prassi, di questa nuova fusione di impulso
cristiano e di azione politica a livello mondiale fu particolarmente vivido in America Latina.
Per oltre un decennio la teologia della liberazione sembrò indicare alla fede la nuova
direzione da prendere per tornare ad essere incisiva nel mondo, in quanto al mondo nuovamente
congiunta grazie alle nuove conoscenze e alle nuove direttive dell’epoca. Che i paesi
latinoamericani fossero spaventosamente contrassegnati da repressione, da una dominazione
iniqua, dalla concentrazione della proprietà e del potere nelle mani di pochi e dallo
sfruttamento dei poveri è un fatto indiscusso, tanto indiscusso da ingenerare un bisogno
di intervento. E, poiché questi paesi erano nella maggior parte cattolici, non poteva
esserci dubbio circa le responsabilità della chiesa e la necessità da parte della
fede di affermarsi come strumento di giustizia. Ma in che modo? Sembrava, a
quell’epoca, che l’unica strada percorribile fosse il marxismo. Sembrava che Marx
avesse assunto il ruolo che nel XIII secolo aveva ricoperto il pensiero aristotelico, una
filosofia precristiana (ossia ‘pagana’) da battezzare per riavvicinare l’una
all’altra fede e ragione e per porle in un rapporto corretto. Chi, tuttavia,
accoglieva Marx (o le varianti del pensiero neomarxista) come rappresentante della ragione
universale non aderiva semplicemente a una filosofia, a una visione dell’origine e del
senso dell’esistenza, bensì e soprattutto a una prassi. Perché questa
filosofia è sostanzialmente una ‘prassi’, che crea innanzitutto
‘verità’, non la presuppone. Chi fa di Marx un filosofo della teologia
accetta anche il primato della politica e dell’economia, elevandole al ruolo di forze
effettive di salvezza (o di non-salvezza, se male utilizzate): in quest’ottica il
riscatto dell’uomo avviene per il tramite della politica e dell’economia, in seno
alle quali prende corpo il futuro. Il primato di prassi e politica significava,
innanzitutto, l’impossibilità di includere Dio nella categoria del
‘pratico’: la ‘realtà’ che bisognava riconoscere era soltanto
quella materiale dell’accadere storico, che era necessario penetrare e indirizzare verso
il giusto obiettivo, trasformandolo con gli strumenti appositamente creati allo scopo, senza
escludere, al bisogno, la violenza. In quest’ottica diventava necessario accantonare
il discorso di Dio, estraneo all’ambito del pratico e alla sfera della realtà, per
avere la libertà di realizzare gli obiettivi più importanti. Rimaneva
l’immagine di Gesù, che ormai, non più colto come il Cristo, veniva
considerato come l’incarnazione di tutti i sofferenti e gli oppressi, un loro portavoce
che chiamava alla rivoluzione e a grandi cambiamenti. La novità, nel complesso, era che
il progetto di riforma del mondo, che in Marx è pensato in senso non soltanto ateistico,
ma anche antireligioso, si riempiva ora di entusiasmo religioso e poggiava su fondamenti
religiosi: una Bibbia (soprattutto l’Antico Testamento) riletta in una nuova chiave e una
liturgia celebrata come pre-compimento simbolico della rivoluzione e come preparazione alla
stessa.
Bisogna riconoscerlo: il cristianesimo, con questa curiosa sintesi, riapprodava nel mondo,
proponendosi come messaggio ‘epocale’. Non fa meraviglia che gli stati socialisti
simpatizzassero per questo movimento. Più sorprendente, al contrario, è il fatto
che anche nei paesi cosiddetti ‘capitalisti’ l’opinione pubblica mostrasse un
debole per la teologia della liberazione, che dai suoi oppositori era invece additata come un
peccato contro il genere umano e la natura umana; in realtà, ovviamente, nessuno
auspicava di vedere applicate le indicazioni pratiche di questa teologia, poiché un
ordine sociale giusto sembrava già essere stato raggiunto. Non si può negare,
tuttavia, che nelle varie teologie della liberazione vi fossero anche molte idee veramente
degne di considerazione. Tutti questi progetti, però, dovevano rinunciare a porsi come
forma epocale di sintesi di cristianesimo e mondo nel momento in cui la fede cedeva alla
politica il ruolo di forza salvifica. È vero che l’uomo, come dice Aristotele,
è un «essere politico», ma è altrettanto certo che l’uomo non
può essere ridotto alla politica e all’economia. A mio avviso, il problema reale e
più profondo delle teologie della liberazione è la perdita effettiva
dell’idea di Dio, che ovviamente (come si è accennato) ha anche determinato un
cambiamento fondamentale dell’immagine di Cristo. Non che si sia negata
l’esistenza di Dio, per carità. Semplicemente, si è cessato di riferirsi a
Dio per la ‘realtà’ a cui ci si doveva rivolgere. Dio, cioè, ha perso
la sua funzione. A questo punto viene da chiedersi con un certo stupore: Questo accadeva
soltanto nella teologia della liberazione? Oppure essa ha potuto giudicare la questione di Dio
come non pratica per il futuro progetto di riforma del mondo semplicemente perché la
cristianità da tempo così pensava o, addirittura, così viveva, senza
pensarci e senza accorgersi? La coscienza cristiana non si è forse, senza accorgersi,
rassegnata all’idea che la fede in Dio fosse un fatto soggettivo, ristretto alla sfera
del privato e non estensibile alle attività comuni della vita pubblica, in cui ci si
doveva inserire per poter collaborare, «etsi Deus non daretur» (nel caso in
cui Dio non esistesse)? Non si doveva trovare una strada percorribile anche nel caso in cui Dio
non fosse esistito? La conseguenza naturale fu che, di fatto, al momento del passaggio della
fede dallo spazio chiuso del religioso all’ambito pubblico e generale non fu riconosciuta
a Dio alcuna funzione, ma si tese ad accantonarlo dov’era prima: nella sfera privata,
intima, riguardante soltanto il singolo individuo. Perciò, lasciando Dio come Dio senza
funzione, e tanto più che spesso si era abusato del suo nome, non era necessaria una
particolare noncuranza nei suoi confronti né opporgli un rifiuto consapevole. La fede
sarebbe uscita veramente dal ghetto soltanto se avesse portato nella sfera pubblica ciò
che le è proprio, il Dio che giudica e soffre, il Dio che pone all’uomo limiti e
criteri; il Dio da cui prende vita e a cui ritorna ciascuno di noi. Più che mai, invece,
questo Dio è rimasto di fatto relegato nel ghetto dell’inservibilità.
In realtà, Dio è ‘pratico’; non è un mero corollario teorico a
una determinata visione del mondo, un’idea a cui ricorrere per trovare conforto o
appiglio o, semplicemente, un concetto che si possa ignorare.
(dalla nuova prefazione dell’aprile 2000, “Ieri, oggi, domani”, del
card. Joseph Ratzinger a Introduzione al cristianesimo, J.Ratzinger, Queriniana, Brescia,
2000)
L’impegno per la verità è l’anima della
giustizia. Chi è impegnato per la verità non può non rifiutare la
legge del più forte, che vive di menzogna e che a livello nazionale ed
internazionale ha tante volte segnato di tragedie la storia dell’uomo. La menzogna si
ammanta spesso di un’apparenza di verità, ma in realtà è sempre
selettiva e tendenziosa, egoisticamente rivolta a strumentalizzare l’uomo e, in
definitiva a sopraffarlo. Sistemi politici del passato, ma non solo del passato, ne sono
un’amara esemplificazione. Sul versante opposto si collocano la verità e la
veracità, che portano all’incontro dell’altro, al suo riconoscimento ed
all’intesa: per quello splendore che le è proprio lo splendor veritatis la
verità non può non diffondersi; e l’amore del vero è, per suo
intrinseco dinamismo, tutto rivolto alla comprensione imparziale ed equanime ed alla
condivisione, nonostante qualsiasi difficoltà.
La vostra esperienza di diplomatici non può non confermare che, anche nei rapporti
internazionali, la ricerca della verità riesce ad individuare le diversità fin
nelle più sottili sfumature, e le relative esigenze, e per ciò stesso anche i
limiti da rispettare e da non oltrepassare, nella tutela di ogni legittimo interesse delle
parti. Questa medesima ricerca della verità vi porta al contempo ad affermare con forza
ciò che vi è di comune, di appartenente alla medesima natura delle persone, di
ogni popolo e di ogni cultura, e che dev’essere parimenti rispettato. E quando questi
aspetti, distinti e complementari la diversità e l’uguaglianza sono conosciuti e
riconosciuti, allora i problemi possono risolversi ed i dissidi ricomporsi secondo
giustizia, e sono possibili intese profonde e durevoli, mentre quando uno di essi viene
misconosciuto o non tenuto nel debito conto, è allora che subentra
l’incomprensione, lo scontro, la tentazione della violenza e della sopraffazione.
Quasi con evidenza esemplare tali considerazioni mi sembrano applicabili in quel punto
nevralgico della scena mondiale, che resta la Terra Santa. In essa lo Stato d’Israele
deve poter sussistere pacificamente in conformità alle norme del diritto internazionale;
in essa, parimenti, il Popolo palestinese deve poter sviluppare serenamente le proprie
istituzioni democratiche per un avvenire libero e prospero...
Il secondo enunciato che vorrei proporre suona: l’impegno per la verità
dà fondamento e vigore al diritto di libertà. La grandezza unica
dell’essere umano ha la sua ultima radice in questo: l’uomo può conoscere la
verità. E l’uomo la vuole conoscere. Ma la verità può essere
raggiunta solo nella libertà. Ciò vale per tutte le verità, come appare
dalla storia delle scienze; ma è vero in maniera eminente per le verità in cui
è in giuoco l’uomo stesso in quanto tale, le verità dello spirito: quelle
che riguardano il bene ed il male, le grandi mete e prospettive di vita, il rapporto con Dio.
Perché esse non si possono attingere senza che ne derivino profondi riflessi sulla
conduzione della propria vita. Ed una volta liberamente fatte proprie, hanno poi bisogno di
spazi di libertà per poter essere vissute secondo tutte le dimensioni della vita
umana.
È qui che si inserisce naturalmente l’attività di ogni Stato, così
come l’attività diplomatica inter-statale. Negli odierni sviluppi del diritto
internazionale si avverte con crescente sensibilità che nessun Governo può
dispensarsi dal compito di garantire ai propri cittadini adeguate condizioni di libertà,
senza pregiudicare per ciò stesso la propria credibilità come interlocutore nelle
questioni internazionali. E ciò è giusto: perché nella tutela dei diritti
inerenti alla persona in quanto tale, internazionalmente garantiti, non si può non
riservare una valutazione prioritaria allo spazio dato ai diritti di libertà
all’interno dei singoli Stati, sia nella vita pubblica come in quella privata, sia nei
rapporti economici come in quelli politici, in quelli culturali come in quelli religiosi.
A questo proposito vi è ben noto, Signore e Signori Ambasciatori, come
l’attività della diplomazia della Santa Sede sia per natura sua rivolta a
promuovere, tra i vari ambiti in cui la libertà deve realizzarsi, l’aspetto
della libertà di religione. Purtroppo in alcuni Stati, anche tra quelli che pure possono
vantare tradizioni culturali plurisecolari, essa, lungi dall’essere garantita, è
anzi gravemente violata, in particolare nei confronti delle minoranze. In merito vorrei
solo ricordare quanto stabilito con grande chiarezza nella Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo. I diritti fondamentali dell’uomo sono i medesimi sotto tutte le
latitudini; e tra di essi un posto di primo piano deve essere riconosciuto al diritto di
libertà di religione, perché riguarda il rapporto umano più importante, il
rapporto con Dio. A tutti i responsabili della vita delle Nazioni vorrei dire: se non temete la
verità, non potete temere la libertà! La Santa Sede, nel chiedere per la Chiesa
Cattolica, ovunque, condizioni di vera libertà, le chiede parimenti per tutti.
Vorrei venire ad un terzo enunciato: l’impegno per la verità apre la via al
perdono ed alla riconciliazione. Alla necessaria connessione tra l’impegno per la
verità e la pace si solleva un’obiezione: le convinzioni diverse sulla
verità danno luogo a tensioni, ad incomprensioni, a dispute, tanto più forti
quanto più profonde sono le convinzioni stesse. Nel corso della storia esse hanno dato
luogo anche a violente contrapposizioni, a conflitti sociali e politici e addirittura a guerre
di religione. È vero, e non lo si può negare; ma ciò è sempre
avvenuto per una serie di cause concomitanti, poco o nulla aventi a che fare con la
verità e la religione, e sempre comunque perché ci si volle avvalere di mezzi in
realtà non conciliabili con il puro impegno per la verità né con il
rispetto della libertà richiesta dalla verità. Per quanto poi riguarda
specificamente la Chiesa Cattolica, in quanto anche da parte di suoi membri e di sue
istituzioni sono stati compiuti gravi errori in passato, essa li condanna, e non ha esitato a
chiedere perdono. Lo esige l’impegno per la verità.
La richiesta di perdono, e la concessione del perdono, parimenti dovuta perché per
tutti vale il monito di Nostro Signore: chi è senza peccato scagli la prima
pietra! (cfr. Giovanni 8, 7) sono elementi indispensabili per la pace. La memoria ne
resta purificata, il cuore rasserenato, e si fa limpido lo sguardo su ciò che la
verità esige per sviluppare pensieri di pace. Non posso non ricordare le parole
luminose di Giovanni Paolo II: “Non c’è pace senza giustizia, non
c’è giustizia senza perdono”. Io le ripeto, umilmente e con profondo amore,
ai responsabili delle Nazioni, in particolare di quelle dove più brucianti sono le
ferite fisiche e morali dei conflitti e più impellente il bisogno di pace.
Un ultimo enunciato vorrei proporvi, Signore e Signori Ambasciatori: l’impegno per
la pace apre a nuove speranze. È quasi una logica conclusione di quanto ho
cercato di illustrare finora. Perché l’uomo è capace di verità! Lo
è sui grandi problemi dell’essere, come sui grandi problemi dell’agire:
nella sfera individuale e nei rapporti sociali, a livello di un popolo come
dell’umanità intera. La pace, alla quale tale suo impegno può e deve
portarlo, non è solo il silenzio delle armi; è, ben più, una pace, che
favorisce il formarsi di nuovi dinamismi nei rapporti internazionali, dinamismi che a loro
volta si trasformano in fattori di mantenimento della pace stessa. Ed essi sono tali solo se
rispondenti alla verità dell’uomo e della sua dignità. E per questo non si
può dire pace, là dove l’uomo non ha nemmeno l’indispensabile per
vivere in dignità. Penso qui alle turbe sterminate di popolazioni che soffrono la
fame. Non è pace, la loro, anche se non sono in guerra: della guerra, anzi, esse sono
vittime inermi. Alla mente si affacciano spontaneamente anche le immagini sconvolgenti dei
grandi campi di profughi o di rifugiati - in diverse parti del mondo - raccolti in condizioni
di fortuna, per scampare a sorte peggiore, ma di tutto bisognosi. Non sono questi esseri umani
nostri fratelli e sorelle? Non sono i loro bambini venuti al mondo con le stesse legittime
attese di felicità degli altri? Il pensiero va anche a tutti coloro che condizioni di
vita non degne spingono ad emigrare, lontano dal loro Paese e dai loro cari, nella speranza di
una vita più umana. Né possiamo dimenticare la piaga del traffico di persone, che
resta una vergogna del nostro tempo.
Di fronte a queste “emergenze umanitarie”, così come ad altri drammatici
problemi dell’uomo, molte persone di buona volontà, diverse istituzioni
internazionali ed organizzazioni non governative non sono rimaste inerti. Ma si richiede un
accresciuto sforzo congiunto delle Diplomazie per individuare nella verità, e superare
con coraggio e generosità, gli ostacoli che tuttora si frappongono a soluzioni efficaci
e degne dell’uomo. E verità vuole che nessuno degli Stati prosperi si sottragga
alle proprie responsabilità ed al dovere di aiuto, attingendo con maggiore
generosità alle proprie risorse. Sulla base di dati statistici disponibili si può
affermare che meno della metà delle immense somme globalmente destinate agli armamenti
sarebbe più che sufficiente per togliere stabilmente dall’indigenza lo sterminato
esercito dei poveri. La coscienza umana ne è interpellata. Alle popolazioni che vivono
sotto la soglia della povertà, più a causa di situazioni dipendenti dai rapporti
internazionali politici, commerciali e culturali, che non a motivo di circostanze
incontrollabili, il nostro comune impegno nella verità può e deve dare nuova
speranza.
(dal discorso di Benedetto XVI al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede
tenuto il lunedì, 9 gennaio 2006)
Sin dagli inizi dell'Illuminismo, la fede nel progresso ha sempre messo da parte
l'escatologia cristiana, finendo di fatto per sostituirla completamente.
La promessa di felicità non è più legata all'aldilà,
bensì a questo mondo.
Emblematico della tendenza dell'uomo moderno è l'atteggiamento di Albert Camus, il
quale alle parole di Cristo "il mio regno non è di questo mondo" oppone con risolutezza
l'affermazione "il mio regno è di questo mondo".
Nel XIX secolo, la fede nel progresso era ancora un generico ottimismo che si aspettava dalla
marcia trionfale delle scienze un progressivo miglioramento della condizione del mondo e
l'approssimarsi, sempre più incalzante, di una specie di paradiso; nel XX secolo,
questa stessa fede ha assunto una connotazione politica.
Da una parte, ci sono stati i sistemi di orientamento marxista che promettevano all'uomo di
raggiungere il regno desiderato tramite la politica proposta dalla loro ideologia: un tentativo
che è fallito in maniera clamorosa.
Dall'altra, ci sono i tentativi di costruire il futuro attingendo, in maniera più o meno
profonda, alle fonti delle tradizioni liberali.
Questi tentativi stanno assumendo una configurazione sempre più definita, che va sotto
il nome di Nuovo Ordine Mondiale; trovano espressione sempre più evidente nell'ONU e
nelle sue Conferenze internazionali, in particolare quelle del Cairo e di Pechino, che nelle
loro proposte di vie per arrivare a condizioni di vita diverse, lasciano trasparire una vera e
propria filosofia dell'uomo nuovo e del mondo nuovo.
Una filosofia di questo tipo non ha più la carica utopica che caratterizzava il sogno
marxista; essa è al contrario molto realistica, in quanto fissa i limiti del benessere,
ricercato a partire dai limiti dei mezzi disponibili per raggiungerlo e raccomanda, per
esempio, senza per questo cercare di giustificarsi, di non preoccuparsi della cura di coloro
che non sono più produttivi o che non possono più sperare in una determinata
qualità della vita.
Questa filosofia, inoltre, non si aspetta più che gli uomini, abituatisi oramai alla
ricchezza e al benessere, siano pronti a fare i sacrifici necessari per raggiungere un
benessere generale, bensì propone delle strategie per ridurre il numero dei
commensali alla tavola dell'umanità, affinché non venga intaccata la pretesa
felicità che taluni hanno raggiunto.
La peculiarità di questa nuova antropologia, che dovrebbe costituire la base del Nuovo
Ordine Mondiale, diventa palese soprattutto nell'immagine della donna, nell'ideologia dell'
"Women's empowerment", nata dalla conferenza di Pechino.
Scopo di questa ideologia è l'autorealizzazione della donna: principali ostacoli che
si frappongono tra lei e la sua autorealizzazione sono però la famiglia e la
maternità. Per questo, la donna deve essere liberata, in modo particolare, da
ciò che la caratterizza, vale a dire dalla sua specificità femminile.
Quest'ultima viene chiamata ad annullarsi di fronte ad una "Gender equity and equality", di
fronte ad un essere umano indistinto ed uniforme, nella vita del quale la sessualità non
ha altro senso se non quello di una droga voluttuosa, di cui sì può far uso senza
alcun criterio.
Nella paura della maternità che si è impadronita di una gran parte dei nostri
contemporanei entra sicuramente in gioco anche qualcosa di ancora più profondo:
l'altro è sempre, in fin dei conti, un antagonista che ci priva di una parte di vita,
una minaccia per il nostro io e per il nostro libero sviluppo.
Al giorno d'oggi, non esiste più una "filosofia dell'amore", bensì solamente una
"filosofia dell'egoismo".
Il fatto che ognuno di noi possa arricchirsi semplicemente nel dono di se stesso, che possa
ritrovarsi proprio a partire dall'altro e attraverso l'essere per l'altro, tutto ciò
viene rifiutato come un'illusione idealista. E’ proprio in questo che l'uomo viene
ingannato. In effetti, nel momento in cui gli viene sconsigliato di amare, gli viene
sconsigliato, in ultima analisi, di essere uomo...
È a questo punto che deve emergere chiaramente ciò che di positivo il cristiano
può offrire nella lotta per la storia futura.
Non è infatti sufficiente che egli opponga l'escatologia all'ideologia che è
alla base delle costruzioni "postmoderne" dell'avvenire.
È ovvio che deve fare anche questo, e deve farlo in maniera risoluta: a questo
riguardo, infatti, la voce dei cristiani si è fatta negli ultimi decenni sicuramente
troppo debole e troppo timida.
L'uomo, nella sua vita terrena, è "una canna al vento" che rimane priva di significato
se distoglie lo sguardo dalla vita eterna.
Lo stesso vale per la storia nel complesso.
In questo senso, il richiamo alla vita eterna, se fatto in maniera corretta, non si presenta
mai come una fuga. Esso da semplicemente all'esistenza terrena la sua responsabilità,
la sua grandezza e la sua dignità. Tuttavia, queste ripercussioni sul "significato della
vita terrena" devono essere articolate.
E' chiaro che la storia non deve mai essere semplicemente ridotta al silenzio: non è
possibile, non è permesso ridurre al silenzio la libertà. E’ l'illusione
delle utopie.
Non si può imporre al domani modelli di oggi, che domani saranno i modelli di ieri.
È tuttavia necessario gettare le basi di un cammino verso il futuro, di un superamento
comune delle nuove sfide lanciate dalla storia.
(dalla prefazione del card. J.Ratzinger a M. Schooyans, Nuovo disordine mondiale. La
grande trappola per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità,
Edizioni San Paolo 2000)
1. L'impegno del cristiano nel mondo in duemila anni di storia si
è espresso seguendo percorsi diversi. Uno è stato attuato nella partecipazione
all'azione politica: i cristiani, affermava uno scrittore ecclesiastico dei primi secoli,
«partecipano alla vita pubblica come cittadini». La Chiesa venera tra i suoi Santi
numerosi uomini e donne che hanno servito Dio mediante il loro generoso impegno nelle
attività politiche e di governo. Tra di essi, S.Tommaso Moro, proclamato Patrono dei
Governanti e dei Politici, seppe testimoniare fino al martirio la «dignità
inalienabile della coscienza». Pur sottoposto a varie forme di pressione psicologica,
rifiutò ogni compromesso, e senza abbandonare «la costante fedeltà
all'autorità e alle istituzioni legittime» che lo distinse, affermò con la
sua vita e con la sua morte che «l'uomo non si può separare da Dio, né la
politica dalla morale».
Le attuali società democratiche, nelle quali lodevolmente tutti sono resi partecipi
della gestione della cosa pubblica in un clima di vera libertà, richiedono nuove e
più ampie forme di partecipazione alla vita pubblica da parte dei cittadini, cristiani e
non cristiani. In effetti, tutti possono contribuire attraverso il voto all'elezione dei
legislatori e dei governanti e, anche in altri modi, alla formazione degli orientamenti
politici e delle scelte legislative che a loro avviso giovano maggiormente al bene comune. La
vita in un sistema politico democratico non potrebbe svolgersi proficuamente senza l'attivo,
responsabile e generoso coinvolgimento da parte di tutti, «sia pure con diversità
e complementarità di forme, livelli, compiti e responsabilità».
Mediante l'adempimento dei comuni doveri civili, «guidati dalla coscienza
cristiana», in conformità ai valori che con essa sono congruenti, i fedeli laici
svolgono anche il compito loro proprio di animare cristianamente l'ordine temporale,
rispettandone la natura e la legittima autonomia, e cooperando con gli altri cittadini secondo
la specifica competenza e sotto la propria responsabilità. Conseguenza di questo
fondamentale insegnamento del Concilio Vaticano II è che «i fedeli laici non
possono affatto abdicare alla partecipazione alla “politica”, ossia alla molteplice
e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale destinata a
promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune», che comprende la
promozione e la difesa di beni, quali l'ordine pubblico e la pace, la libertà e
l'uguaglianza, il rispetto della vita umana e dell'ambiente, la giustizia, la
solidarietà, ecc.
La presente Nota non ha la pretesa di riproporre l'intero
insegnamento della Chiesa in materia, riassunto peraltro nelle sue linee essenziali nel
catechismo della Chiesa Cattolica, ma intende soltanto richiamare alcuni principi propri
della coscienza cristiana che ispirano l'impegno sociale e politico dei cattolici nelle
società democratiche. E ciò perché in questi ultimi tempi, spesso per
l'incalzare degli eventi, sono emersi orientamenti ambigui e posizioni discutibili, che rendono
opportuna la chiarificazione di aspetti e dimensioni importanti della tematica in
questione.
2. La società civile si trova oggi all'interno di un complesso
processo culturale che mostra la fine di un'epoca e l'incertezza per la nuova che emerge
all'orizzonte. Le grandi conquiste di cui si è spettatori provocano a verificare il
positivo cammino che l'umanità ha compiuto nel progresso e nell'acquisizione di
condizioni di vita più umane. La crescita di responsabilità nei confronti di
Paesi ancora in via di sviluppo è certamente un segno di grande rilievo, che mostra la
crescente sensibilità per il bene comune. Insieme a questo, comunque, non è
possibile sottacere i gravi pericoli a cui alcune tendenze culturali vorrebbero orientare le
legislazioni e, di conseguenza, i comportamenti delle future generazioni.
E’ oggi verificabile un certo relativismo culturale che offre evidenti segni di
sé nella teorizzazione e difesa del pluralismo etico che sancisce la decadenza e la
dissoluzione della ragione e dei principi della legge morale naturale. A seguito di questa
tendenza non è inusuale, purtroppo, riscontrare in dichiarazioni pubbliche affermazioni
in cui si sostiene che tale pluralismo etico è la condizione per la democrazia.
Avviene così che, da una parte, i cittadini rivendicano per le proprie scelte morali la
più completa autonomia mentre, dall'altra, i legislatori ritengono di rispettare tale
libertà di scelta formulando leggi che prescindono dai principi dell'etica naturale per
rimettersi alla sola condiscendenza verso certi orientamenti culturali o morali transitori,
come se tutte le possibili concezioni della vita avessero uguale valore. Nel contempo,
invocando ingannevolmente il valore della tolleranza, a una buona parte dei cittadini - e tra
questi ai cattolici - si chiede di rinunciare a contribuire alla vita sociale e politica dei
propri Paesi secondo la concezione della persona e del bene comune che loro ritengono
umanamente vera e giusta, da attuare mediante i mezzi leciti che l'ordinamento giuridico
democratico mette ugualmente a disposizione di tutti i membri della comunità politica.
La storia del XX secolo basta a dimostrare che la ragione sta dalla parte di quei cittadini che
ritengono del tutto falsa la tesi relativista secondo la quale non esiste una norma morale,
radicata nella natura stessa dell'essere umano, al cui giudizio si deve sottoporre ogni
concezione dell'uomo, del bene comune e dello Stato.
3. Questa concezione relativista del pluralismo nulla ha a che vedere con la legittima
libertà dei cittadini cattolici di scegliere, tra le opinioni politiche compatibili con
la fede e la legge morale naturale, quella che secondo il proprio criterio meglio si adegua
alle esigenze del bene comune. La libertà politica non è né può
essere fondata sull'idea relativista che tutte le concezioni sul bene dell'uomo hanno la stessa
verità e lo stesso valore, ma sul fatto che le attività politiche mirano volta
per volta alla realizzazione estremamente concreta del vero bene umano e sociale in un contesto
storico, geografico, economico, tecnologico e culturale ben determinato. Dalla concretezza
della realizzazione e dalla diversità delle circostanze scaturisce generalmente la
pluralità di orientamenti e di soluzioni che debbono però essere moralmente
accettabili. Non è compito della Chiesa formulare soluzioni concrete — e meno
ancora soluzioni uniche — per questioni temporali che Dio ha lasciato al libero e
responsabile giudizio di ciascuno, anche se è suo diritto e dovere pronunciare giudizi
morali su realtà temporali quando ciò sia richiesto dalla fede o dalla legge
morale. Se il cristiano è tenuto ad «ammettere la legittima molteplicità e
diversità delle opzioni temporali», egli è ugualmente chiamato a dissentire
da una concezione del pluralismo in chiave di relativismo morale, nociva per la stessa vita
democratica, la quale ha bisogno di fondamenti veri e solidi, vale a dire, di principi etici
che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono
“negoziabili”.
Sul piano della militanza politica concreta, occorre notare che il carattere contingente di
alcune scelte in materia sociale, il fatto che spesso siano moralmente possibili diverse
strategie per realizzare o garantire uno stesso valore sostanziale di fondo, la
possibilità di interpretare in maniera diversa alcuni principi basilari della teoria
politica, nonché la complessità tecnica di buona parte dei problemi politici,
spiegano il fatto che generalmente vi possa essere una pluralità di partiti all'interno
dei quali i cattolici possono scegliere di militare per esercitare - particolarmente attraverso
la rappresentanza parlamentare - il loro diritto-dovere nella costruzione della vita civile
del loro Paese. Questa ovvia constatazione non può essere confusa però con un
indistinto pluralismo nella scelta dei principi morali e dei valori sostanziali a cui si fa
riferimento. La legittima pluralità di opzioni temporali mantiene integra la matrice da
cui proviene l'impegno dei cattolici nella politica e questa si richiama direttamente alla
dottrina morale e sociale cristiana. È su questo insegnamento che i laici cattolici sono
tenuti a confrontarsi sempre per poter avere certezza che la propria partecipazione alla vita
politica sia segnata da una coerente responsabilità per le realtà temporali.
La Chiesa è consapevole che la via della democrazia se, da una parte, esprime al meglio
la partecipazione diretta dei cittadini alle scelte politiche, dall'altra si rende possibile
solo nella misura in cui trova alla sua base una retta concezione della persona. Su
questo principio l'impegno dei cattolici non può cedere a compromesso alcuno,
perché altrimenti verrebbero meno la testimonianza della fede cristiana nel mondo e la
unità e coerenza interiori dei fedeli stessi. La struttura democratica su cui uno Stato
moderno intende costruirsi sarebbe alquanto fragile se non ponesse come suo fondamento la
centralità della persona. È il rispetto della persona, peraltro, a rendere
possibile la partecipazione democratica. Come insegna il Concilio Vaticano II, la tutela
«dei diritti della persona umana è condizione perché i cittadini,
individualmente o in gruppo, possano partecipare attivamente alla vita e al governo della cosa
pubblica».
4. A partire da qui si estende la complessa rete di problematiche attuali che non hanno avuto
confronti con le tematiche dei secoli passati. La conquista scientifica, infatti, ha
permesso di raggiungere obiettivi che scuotono la coscienza e impongono di trovare soluzioni
capaci di rispettare in maniera coerente e solida i principi etici. Si assiste invece a
tentativi legislativi che, incuranti delle conseguenze che derivano per l'esistenza e
l'avvenire dei popoli nella formazione della cultura e dei comportamenti sociali, intendono
frantumare l'intangibilità della vita umana. I cattolici, in questo frangente, hanno
il diritto e il dovere di intervenire per richiamare al senso più profondo della vita e
alla responsabilità che tutti possiedono dinanzi ad essa. Giovanni Paolo II, continuando
il costante insegnamento della Chiesa, ha più volte ribadito che quanti sono
impegnati direttamente nelle rappresentanze legislative hanno il «preciso obbligo di
opporsi» ad ogni legge che risulti un attentato alla vita umana. Per essi, come per ogni
cattolico, vige l'impossibilità di partecipare a campagne di opinione in favore di
simili leggi né ad alcuno è consentito dare ad esse il suo appoggio con il
proprio voto. Ciò non impedisce, come ha insegnato Giovanni Paolo II nella Lettera
Enciclica Evangelium vitae a proposito del caso in cui non fosse possibile scongiurare o
abrogare completamente una legge abortista già in vigore o messa al voto, che «un
parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all'aborto fosse chiara e a tutti nota,
potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di
una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della
moralità pubblica».
In questo contesto, è necessario aggiungere che la coscienza cristiana ben formata non
permette a nessuno di favorire con il proprio voto l'attuazione di un programma politico o di
una singola legge in cui i contenuti fondamentali della fede e della morale siano sovvertiti
dalla presentazione di proposte alternative o contrarie a tali contenuti. Poiché la
fede costituisce come un'unità inscindibile, non è logico l'isolamento di uno
solo dei suoi contenuti a scapito della totalità della dottrina cattolica. L'impegno
politico per un aspetto isolato della dottrina sociale della Chiesa non è sufficiente ad
esaurire la responsabilità per il bene comune. Né il cattolico può pensare
di delegare ad altri l'impegno che gli proviene dal vangelo di Gesù Cristo perché
la verità sull'uomo e sul mondo possa essere annunciata e raggiunta.
Quando l'azione politica viene a confrontarsi con principi morali che non
ammettono deroghe, eccezioni o compromesso alcuno, allora l'impegno dei cattolici si fa
più evidente e carico di responsabilità. Dinanzi a queste esigenze etiche
fondamentali e irrinunciabili, infatti, i credenti devono sapere che è in gioco
l'essenza dell'ordine morale, che riguarda il bene integrale della persona. E' questo il caso
delle leggi civili in materia di aborto e di eutanasia (da non confondersi con la
rinuncia all'accanimento terapeutico, la quale è, anche moralmente, legittima),
che devono tutelare il diritto primario alla vita a partire dal suo concepimento fino al suo
termine naturale. Allo stesso modo occorre ribadire il dovere di rispettare e proteggere i
diritti dell' embrione umano . Analogamente, devono essere salvaguardate la tutela e la
promozione della famiglia, fondata sul matrimonio monogamico tra persone di sesso
diverso e protetta nella sua unità e stabilità, a fronte delle moderne leggi sul
divorzio: ad essa non possono essere giuridicamente equiparate in alcun modo altre forme di
convivenza, né queste possono ricevere in quanto tali un riconoscimento legale.
Così pure la garanzia della libertà di educazione ai genitori per i propri
figli è un diritto inalienabile, riconosciuto tra l'altro nelle Dichiarazioni
internazionali dei diritti umani. Alla stessa stregua, si deve pensare alla tutela sociale
dei minori e alla liberazione delle vittime dalle moderne forme di schiavitù
(si pensi ad esempio, alla droga e allo sfruttamento della prostituzione). Non può
essere esente da questo elenco il diritto alla libertà religiosa e lo sviluppo
per un' economia che sia al servizio della persona e del bene comune, nel rispetto della
giustizia sociale, del principio di solidarietà umana e di quello di
sussidiarietà, secondo il quale «i diritti delle persone, delle famiglie e dei
gruppi, e il loro esercizio devono essere riconosciuti». Come non vedere, infine, in
questa esemplificazione il grande tema della pace. Una visione irenica e ideologica
tende, a volte, a secolarizzare il valore della pace mentre, in altri casi, si cede a un
sommario giudizio etico dimenticando la complessità delle ragioni in questione. La pace
è sempre «frutto della giustizia ed effetto della carità»; esige il
rifiuto radicale e assoluto della violenza e del terrorismo e richiede un impegno costante e
vigile da parte di chi ha la responsabilità politica.
5. Di fronte a queste problematiche, se è lecito pensare all'utilizzo
di una pluralità di metodologie, che rispecchiano sensibilità e culture
differenti, nessun fedele tuttavia può appellarsi al principio del pluralismo e
dell'autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o che attenuino la
salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società. Non
si tratta di per sé di «valori confessionali», poiché tali esigenze
etiche sono radicate nell'essere umano e appartengono alla legge morale naturale. Esse non
esigono in chi le difende la professione di fede cristiana, anche se la dottrina della Chiesa
le conferma e le tutela sempre e dovunque come servizio disinteressato alla verità
sull'uomo e al bene comune delle società civili. D'altronde, non si può negare
che la politica debba anche riferirsi a principi che sono dotati di valore assoluto proprio
perché sono al servizio della dignità della persona e del vero progresso
umano.
6. Il richiamo che spesso viene fatto in riferimento alla “laicità”
che dovrebbe guidare l'impegno dei cattolici, richiede una chiarificazione non solo
terminologica. La promozione secondo coscienza del bene comune della società politica
nulla ha a che vedere con il “confessionalismo” o l'intolleranza religiosa. Per la
dottrina morale cattolica la laicità intesa come autonomia della sfera civile e politica
da quella religiosa ed ecclesiastica - ma non da quella morale - è un valore
acquisito e riconosciuto dalla Chiesa e appartiene al patrimonio di civiltà che è
stato raggiunto. Giovanni Paolo II ha più volte messo in guardia contro i pericoli
derivanti da qualsiasi confusione tra la sfera religiosa e la sfera politica. «Assai
delicate sono le situazioni in cui una norma specificamente religiosa diventa, o tende a
diventare, legge dello Stato, senza che si tenga in debito conto la distinzione tra le
competenze della religione e quelle della società politica. Identificare la legge
religiosa con quella civile può effettivamente soffocare la libertà religiosa e,
persino, limitare o negare altri inalienabili diritti umani». Tutti i fedeli sono ben
consapevoli che gli atti specificamente religiosi (professione della fede, adempimento degli
atti di culto e dei Sacramenti, dottrine teologiche, comunicazioni reciproche tra le
autorità religiose e i fedeli, ecc.) restano fuori dalle competenze dello Stato, il
quale né deve intromettersi né può in modo alcuno esigerli o impedirli,
salve esigenze fondate di ordine pubblico. Il riconoscimento dei diritti civili e politici e
l'erogazione dei pubblici servizi non possono restare condizionati a convinzioni o prestazioni
di natura religiosa da parte dei cittadini.
Questione completamente diversa è il diritto-dovere dei cittadini cattolici, come di
tutti gli altri cittadini, di cercare sinceramente la verità e di promuovere e difendere
con mezzi leciti le verità morali riguardanti la vita sociale, la giustizia, la
libertà, il rispetto della vita e degli altri diritti della persona. Il fatto che
alcune di queste verità siano anche insegnate dalla Chiesa non diminuisce la
legittimità civile e la “laicità” dell'impegno di coloro che in esse
si riconoscono, indipendentemente dal ruolo che la ricerca razionale e la conferma procedente
dalla fede abbiano svolto nel loro riconoscimento da parte di ogni singolo cittadino. La
“laicità”, infatti, indica in primo luogo l'atteggiamento di chi rispetta le
verità che scaturiscono dalla conoscenza naturale sull'uomo che vive in società,
anche se tali verità siano nello stesso tempo insegnate da una religione specifica,
poiché la verità è una. Sarebbe un errore confondere la giusta
autonomia che i cattolici in politica debbono assumere con la rivendicazione di un
principio che prescinde dall'insegnamento morale e sociale della Chiesa.
Con il suo intervento in questo ambito, il Magistero della Chiesa non vuole esercitare un
potere politico né eliminare la libertà d'opinione dei cattolici su questioni
contingenti. Esso intende invece — come è suo proprio compito — istruire e
illuminare la coscienza dei fedeli, soprattutto di quanti si dedicano all'impegno nella vita
politica, perché il loro agire sia sempre al servizio della promozione integrale della
persona e del bene comune. L'insegnamento sociale della Chiesa non è un'intromissione
nel governo dei singoli Paesi. Pone certamente un dovere morale di coerenza per i fedeli laici,
interiore alla loro coscienza, che è unica e unitaria. «Nella loro esistenza
non possono esserci due vite parallele: da una parte, la vita cosiddetta
“spirituale”, con i suoi valori e con le sue esigenze; e dall'altra, la vita
cosiddetta “secolare”, ossia la vita di famiglia, di lavoro, dei rapporti sociali,
dell'impegno politico e della cultura. Il tralcio, radicato nella vite che è Cristo,
porta i suoi frutti in ogni settore dell'attività e dell'esistenza. Infatti, tutti i
vari campi della vita laicale rientrano nel disegno di Dio, che li vuole come “luogo
storico” del rivelarsi e del realizzarsi dell'amore di Gesù Cristo a gloria del
Padre e a servizio dei fratelli. Ogni attività, ogni situazione, ogni impegno
concreto — come, ad esempio, la competenza e la solidarietà nel lavoro, l'amore e
la dedizione nella famiglia e nell'educazione dei figli, il servizio sociale e politico, la
proposta della verità nell'ambito della cultura — sono occasioni provvidenziali
per un “continuo esercizio della fede, della speranza e della
carità”». Vivere ed agire politicamente in conformità alla propria
coscienza non è un succube adagiarsi su posizioni estranee all'impegno politico o su una
forma di confessionalismo, ma l'espressione con cui i cristiani offrono il loro coerente
apporto perché attraverso la politica si instauri un ordinamento sociale più
giusto e coerente con la dignità della persona umana.
Nelle società democratiche tutte le proposte sono discusse e
vagliate liberamente. Coloro che in nome del rispetto della coscienza individuale volessero
vedere nel dovere morale dei cristiani di essere coerenti con la propria coscienza un segno per
squalificarli politicamente, negando loro la legittimità di agire in politica
coerentemente alle proprie convinzioni riguardanti il bene comune, incorrerebbero in una forma
di intollerante laicismo. In questa prospettiva, infatti, si vuole negare non solo ogni
rilevanza politica e culturale della fede cristiana, ma perfino la stessa possibilità di
un'etica naturale. Se così fosse, si aprirebbe la strada ad un'anarchia morale che non
potrebbe mai identificarsi con nessuna forma di legittimo pluralismo. La sopraffazione del
più forte sul debole sarebbe la conseguenza ovvia di questa impostazione. La
marginalizzazione del Cristianesimo, d'altronde, non potrebbe giovare al futuro progettuale di
una società e alla concordia tra i popoli, ed anzi insidierebbe gli stessi fondamenti
spirituali e culturali della civiltà.
7. È avvenuto in recenti circostanze che anche all'interno di
alcune associazioni o organizzazioni di ispirazione cattolica, siano emersi orientamenti a
sostegno di forze e movimenti politici che su questioni etiche fondamentali hanno espresso
posizioni contrarie all'insegnamento morale e sociale della Chiesa. Tali scelte e condivisioni,
essendo in contraddizione con principi basilari della coscienza cristiana, non sono compatibili
con l'appartenenza ad associazioni o organizzazioni che si definiscono cattoliche.
Analogamente, è da rilevare che alcune Riviste e Periodici cattolici in certi Paesi
hanno orientato i lettori in occasione di scelte politiche in maniera ambigua e incoerente,
equivocando sul senso dell'autonomia dei cattolici in politica e senza tenere in considerazione
i principi a cui si è fatto riferimento.
La fede in Gesù Cristo che ha definito se stesso «la via, la verità e la
vita» (Gv 14,6) chiede ai cristiani lo sforzo per inoltrarsi con maggior impegno nella
costruzione di una cultura che, ispirata al Vangelo, riproponga il patrimonio di valori e
contenuti della Tradizione cattolica. La necessità di presentare in termini culturali
moderni il frutto dell'eredità spirituale, intellettuale e morale del cattolicesimo
appare oggi carico di un'urgenza non procrastinabile, anche per evitare il rischio di una
diaspora culturale dei cattolici. Del resto lo spessore culturale raggiunto e la matura
esperienza di impegno politico che i cattolici in diversi paesi hanno saputo sviluppare,
specialmente nei decenni posteriori alla seconda guerra mondiale, non possono porli in alcun
complesso di inferiorità nei confronti di altre proposte che la storia recente ha
mostrato deboli o radicalmente fallimentari. È insufficiente e riduttivo pensare che
l'impegno sociale dei cattolici possa limitarsi a una semplice trasformazione delle strutture,
perché se alla base non vi è una cultura in grado di accogliere, giustificare e
progettare le istanze che derivano dalla fede e dalla morale, le trasformazioni poggeranno
sempre su fragili fondamenta.
La fede non ha mai preteso di imbrigliare in un rigido schema i contenuti socio-politici,
consapevole che la dimensione storica in cui l'uomo vive impone di verificare la presenza di
situazioni non perfette e spesso rapidamente mutevoli. Sotto questo aspetto sono da
respingere quelle posizioni politiche e quei comportamenti che si ispirano a una visione
utopistica la quale, capovolgendo la tradizione della fede biblica in una specie di profetismo
senza Dio, strumentalizza il messaggio religioso, indirizzando la coscienza verso una speranza
solo terrena che annulla o ridimensiona la tensione cristiana verso la vita eterna.
Nello stesso tempo, la Chiesa insegna che non esiste autentica libertà senza la
verità. «Verità e libertà o si coniugano insieme o insieme
miseramente periscono», ha scritto Giovanni Paolo II. In una società dove la
verità non viene prospettata e non si cerca di raggiungerla, viene debilitata anche ogni
forma di esercizio autentico di libertà, aprendo la via ad un libertinismo e
individualismo, dannosi alla tutela del bene della persona e della società intera.
8. A questo proposito è bene ricordare una verità che non
sempre oggi viene percepita o formulata esattamente nell'opinione pubblica corrente: il
diritto alla libertà di coscienza e in special modo alla libertà religiosa,
proclamato dalla Dichiarazione Dignitatis humanae del Concilio Vaticano II, si fonda
sulla dignità ontologica della persona umana, e in nessun modo su di una inesistente
uguaglianza tra le religioni e tra i sistemi culturali umani. In questa linea il Papa Paolo VI
ha affermato che «il Concilio, in nessun modo, fonda questo diritto alla libertà
religiosa sul fatto che tutte le religioni, e tutte le dottrine, anche erronee, avrebbero un
valore più o meno uguale; lo fonda invece sulla dignità della persona umana, la
quale esige di non essere sottoposta a costrizioni esteriori che tendono ad opprimere la
coscienza nella ricerca della vera religione e nell'adesione ad essa». L'affermazione
della libertà di coscienza e della libertà religiosa non contraddice quindi
affatto la condanna dell'indifferentismo e del relativismo religioso da parte della dottrina
cattolica, anzi con essa è pienamente coerente.
9. Gli orientamenti contenuti nella presenta Nota intendono illuminare uno dei più importanti aspetti dell'unità di vita del cristiano: la coerenza tra fede e vita, tra vangelo e cultura, richiamata dal Concilio Vaticano II. Esso esorta i fedeli a «compiere fedelmente i propri doveri terreni, facendosi guidare dallo spirito del vangelo. Sbagliano coloro che, sapendo che qui noi non abbiamo una cittadinanza stabile ma che cerchiamo quella futura, pensano di poter per questo trascurare i propri doveri terreni, e non riflettono che invece proprio la fede li obbliga ancora di più a compierli, secondo la vocazione di ciascuno». Siano desiderosi i fedeli «di poter esplicare tutte le loro attività terrene, unificando gli sforzi umani, domestici, professionali, scientifici e tecnici in una sola sintesi vitale insieme con i beni religiosi, sotto la cui altissima direzione tutto viene coordinato a gloria di Dio».
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