Presentiamo on-line, per il progetto Portaparola di Avvenire, un articolo
di Marco Roncalli, sul poeta Ivanov che, per primo, coniò la metafora del respirare con
due polmoni. Per lui, che era di origine ortodossa, significava recuperare la tradizione latina
e la comunione con Roma; per noi, nello stesso spirito, comporta invece l’accogliere a
nostra volta la ricchezza dell’Oriente cristiano. Così il Papa Giovanni Paolo II
si è espresso a riguardo, nel Discorso ai partecipanti al Simposio internazionale su
"Ivanov e la cultura del suo tempo", tenuto il 28 maggio 1983:
La divisione storica delle Chiese è una ferita sempre aperta. Confessando, nella
basilica di San Pietro di Roma, il 17 marzo 1926, il Credo cattolico, Ivanov aveva coscienza,
come scrisse a Charles du Bos, di “sentirmi per la prima volta ortodosso nella pienezza
dell’accezione di questa parola, in pieno possesso del tesoro sacro, che era mio dal
battesimo, e il cui godimento non era stato da anni libero da un sentimento di malessere,
divenuto a poco a poco sofferenza, per essere staccato dall’altra metà di questo
tesoro vivo di santità e di grazia, e di respirare, per così dire, come un
tisico, che con un solo polmone” (V.Ivanov, Lettre à Charles Du Bos, 1930, dans
V.Ivanov et M.Gerschenson, Correspondance d’un coin à l’autre, Lausanne, Ed.
L’âge d’homme, 1979, p. 90). È la stessa cosa che dicevo anch’io
a Parigi ai rappresentanti delle comunità cristiane non cattoliche, il 31 maggio 1980,
ricordando la mia visita fraterna al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli: “Non si
può respirare come cristiani, direi di più, come cattolici, con un solo polmone;
bisogna aver due polmoni, cioè quello orientale e quello occidentale” (Giovanni
Paolo II, Allocutio Lutetiae Parisiorum ad Christianos fratres a Sede Apostolica seiunctos
habita, 31 maggio 1980: AAS 72 [1980] 704).
L’articolo di Marco Roncalli è apparso sul Mensile di Avvenire, Luoghi
dell’Infinito, nel numero del gennaio 2004, alle pagg.20-21.
L’Areopago
Chiunque parli di Oriente e di Occidente, ma anche
dell’identità dell’Europa, alla luce della sua vera unità,
quella spirituale, più profonda, non può ignorare il ruolo di un singolare
poeta russo innamorato di Cristo, abbeveratosi alle fonti del patrimonio della sua
terra, ma anche dello spirito europeo: Vjaceslav Ivanov, definito da Nicola Berdiaev
«il rappresentante più raffinato e più universale della cultura russa
del XX secolo» e dal nostro Papini «una lampada splendente che brucia nella
solitudine». Rammentava tempo fa Sergej Averincev: il paragone tra l’Occidente
cattolico e l’Oriente ortodosso e i due polmoni della Chiesa universale, citato
a più riprese da Giovanni Paolo II, è ormai divenuto proverbiale; pochi
però sanno chi lo ha coniato e scolpito nella memoria delle generazioni. Il
suo nome? Vjaceslav Ivanov. Che, studiato e analizzato in importanti convegni in tutto il
mondo, attende d’essere maggiormente conosciuto in Italia, dove visse esule e
dov’è oggi custodito il suo archivio. Nato a Mosca nel 1866, attratto dal mondo
dell’antichità, Ivanov viaggiò a lungo e studiò a Berlino
— lingue antiche, filosofia e filologia —, dedicandosi poi ad approfondire il
culto dionisiaco e l’origine della tragedia. Stabilitosi nel 1905 a
Pietroburgo, divenne un protagonista del movimento simbolista russo. Accolta senza
entusiasmi la rivoluzione del 1917, fu docente di filologia
all’Università di Baku dal 1920 al 1924, quindi emigrò in Italia.
Qui — oltre a comporre versi e tener conferenze — prima insegnò a Pavia
(abitando allo storico Collegio Borromeo, dove Benedetto Croce e Martin Buber si recarono
a trovarlo), poi a Roma, al Pontificio Istituto di studi orientali, vivendo
sull’Aventino. «Allievo di Mommsen a Berlino, passò poi a vivere per la
Grecia alla maniera tragica di Nietzsche, e la visse assai più profondamente e
vivamente che il nostro superficiale D’Annunzio», scrisse di lui don
Giuseppe De Luca in una lettera a Bargellini il 30 ottobre 1930. Ed
aggiungeva: «Dalla Grecia idolatra e artistica passò alla Grecia
religiosa dei misteri, e dal mistero del “deus patiens” riscoperse
Cristo. E lo amò. E conosce il mondo bizantino e la Russia, da filologo e da poeta.
Or non le pare che tra noi cattolici d’Italia tante e tali esperienze, vissute e
sofferte, non possano giovare?».
Non abbiamo qui lo spazio per parlare di Ivanov poeta e drammaturgo, filologo o filosofo
o metafisico, e neppure della sua Corrispondenza da un angolo all’altro (su
temi quali la religione, l’esistenza di Dio, la cultura nel mondo moderno...),
scritta con il filosofo Gerscenzon mentre viveva con lui nella stanza d’un sanatorio
moscovita “per lavoratori delle lettere”, e dove i due per non disturbarsi nelle
loro occupazioni avevano deciso di conversare non a voce ma per lettera.
Ma vogliamo ricordare l’Ivanov pioniere dell’ecumenismo: per la sua peculiare
conversione e per la sua visione ora ben presente nella Chiesa. Non solo con
Solov’ev nel suo libro La Russia e la chiesa universale del 1889 vedeva il futuro
dell’Europa cristiana come insieme delle due tradizioni spirituali, latina e
bizantino-slava; ognuna pur basilare e incompleta senza l’altra. Ivanov è
andato oltre: nel 1926, entrando nella Chiesa cattolica senza abiurare. Con la
formula seguente riconosciuta valida (allora) dal Sant’Uffizio: «Come membro
della vera e venerabile Chiesa ortodossa orientale o greco russa, che non parla per la
voce di sinodo anticanonico, né per mezzo di funzionari del potere secolare, ma per la
voce dei suoi grandi Padri e Dottori, riconosco per giudice supremo in materia di
religione colui che è stato riconosciuto per tale da sant’Ireneo, san
Dionigio il Grande, sant’Atanasio il Grande, san Giovanni Crisostomo, san
Cirillo, san Flaviano, il beato Teodoreto, san Massimo Confessore, san Teodoro Studita,
sant’Ignazio, san Venceslao Martire..., cioè l’Apostolo Pietro, che
vive nei suoi successori e che non ha inteso invano le parole: “Tu sei Pietro, e sopra
questa pietra edificherò la mia Chiesa. Conferma i tuoi fratelli. Pasci le mie
pecorelle, pasci i mie agnelli”. Amen». Quattro anni più tardi, in una
lettera a Charles Du Bos, Vjaceslav Ivanov scriveva: «Pronunciando il Credo
seguito dalla formula d’adesione, nel transetto della basilica di San Pietro:
io mi sentivo per la prima volta ortodosso nella pienezza del significato di questa
parola, pienamente possessore del tesoro sacro che era il mio fin dal battesimo, ma
il cui godimento non era stato da molti anni scevro da un sentimento di disagio, divenuto
a poco a poco sofferenza, per il fatto d’esser io privato dell’altra metà di
questo tesoro vivente di santità e di grazia e, come suol dirsi per un
tubercolotico, di non respirare che da un solo polmone».
La figura del poeta che con tutto il cuore vuole respirare con entrambi i polmoni è
emblematica per la discussione del nostro tempo: «Due polmoni —
l’immagine presuppone delle differenze reali di identità tra l’uno e
l’altro. È vero che l’Europa orientale ha le proprie
caratteristiche, ma l’Europa occidentale è poi così monotona?», si
chiedeva nel marzo scorso Averincev in un convegno a Palazzo Giustiniani, e
rispondeva: «Grazie a Dio, no! Nostro Signore, che è il più grande di
tutti gli artisti, non si ripete mai nelle sue creazioni».