Il testo che mettiamo a disposizione on-line è la trascrizione della conferenza tenuta da Luigi Turinese, presso il Centro culturale L’Areopago della parrocchia di S.Melania in Roma il 30 maggio 2005. Il testo non è stato rivisto dall’autore. Conserva pertanto anche i tratti e lo stile di una conversazione trascritta dalla viva voce.
L’Areopago
Diamo il benvenuto a Lugi Turinese, psicoterapeuta analista
junghiano che ha curato l’anno scorso un libro pubblicato da Bollati Boringhieri,
dal titolo “Caro Hillman”. Sono 25 lettere indirizzate ad Hillman
da varie persone del mondo della cultura, tra le quali Carotenuto, scomparso
da poco, Franco Battiato ed altri. Io ho avuto la gioia di conoscere Luigi un
po’ di tempo fa, in occasione della decisione di suo figlio di ricevere
il battesimo. Poi è andato ad abitare in un altro quartiere e ci siamo
visti in qualche occasione e abbiamo parlato di buddismo. Aveva curato sulla
rivista dell’Unione Buddista Italiana una serie di recensioni, in particolare
di libri sui rapporti tra il cristianesimo ed il buddismo, testi cristiani contemporanei
che parlavano del buddismo e testi buddisti che parlavano del cristianesimo.
Ho pensato di invitarlo perché ci introduca su questo tema: “il buddismo
in Occidente”.
Siamo in un contesto di dialogo religioso sempre più necessario in cui
deve essere chiaro qual’è l’identità di ognuno. Io sono
convinto che il dialogo tra le religioni non possa avvenire tra persone che
fingono di non essere quello che sono. Ognuno deve anzi essere profondamente
consapevole ed anche fiero di ciò che è, ma, insieme, coltivare un
grande desiderio di conoscenza, di comprensione dell’altro diverso da
sé. La famosa “intercultura” della quale tanto si parla nelle
nostre scuole, non significa il silenzio o l’indifferenza sulle particolarità
delle culture, ma, anzi, l’approfondimento di ognuna di esse e, chiaramente,
anche del cristianesimo.
In particolare per il buddismo credo si ponga in maniera ancora più peculiare
il problema di quale sia la sua identità, di quale sia la sua storia. Sapete
che il cristianesimo crollerebbe se venissero a mancare alcuni pilastri storici,
poiché esso è profondamente legato alla storia del personaggio Gesù.
Abbiamo fatto degli incontri quest’anno sul Gesù
storico, che abbiamo già messo a disposizione on-line sul nostro sito
www.gliscritti.it. Ascolteremo da Luigi Turinese quali siano i pilastri sui
quali si fonda il buddismo, se sia costitutivo il suo radicarsi nella reale
vicenda del Buddha storico, quale sia il suo statuto di religione, quale la
concezione buddista della divinità.
Luigi Turinese
Grazie, sono contentissimo di essere stato invitato da don Andrea perché
è un grosso personaggio e credo che nella sua magnanimità, come tutte
le persone grandi, proietti la sua grandezza all’esterno e mi abbia sopravvalutato.
Intanto il titolo che ha dato don Andrea è più bello di quanto lui
abbia detto ora. Il titolo esatto è “Fascino e rischi del buddismo
in Occidente”. Ogni volta che si parla di un tema è importante esaminare
bene proprio il titolo, perciò io partirei da qui. Che vi sia un fascino
del tema è indubbio: c’è tanta gente che quasi se ne fa un vanto
di spostarsi verso Oriente. La cosa è cominciata probabilmente già
dall’800 in Europa, “ex Oriente lux”, e poi Schopenhauer e
poi tutti gli altri. Nel nostro quarto di secolo, soprattutto alla fine del
secolo scorso, certamente la versione che è arrivata delle pratiche
orientali è stata filtrata dal consumismo occidentale. Questo lo dico
immediatamente. Il buddismo è infatti una disciplina molto complessa che
arriva qui edulcorata e semplificata. Tutto quello che va sotto il nome di new
age ingloba anche delle pratiche orientali mescolate, delle quali il buddismo
diventa la versione un po’ più “in”. Sapete che esiste
una setta buddista giapponese, che misteriosamente si è espansa in tutto
l’Occidente, la Soka Gakkai, che è una setta nata nel 1200, diventata
famosa in occidente per l’aggressività delle sue proposizioni, abbracciata
facilmente da persone dello spettacolo e dello sport, il più famoso dei
quali è Roberto Baggio. Vedremo che la versione del buddismo che così
ci arriva è molto, troppo semplificata. Oltretutto diciamo pure che il
buddismo ha, per sua stessa natura, una grande duttilità. Cambia abbastanza
i suoi connotati ben più di quanto abbia fatto, per esempio, il cristianesimo,
a seconda delle zone in cui si è trapiantato.
Il buddismo nasce in India tra il VI ed il V secolo a.C. e oggi in India
praticamente non c’è più.
Il buddismo nasce per opera di un personaggio che indubbiamente sfuma nella
leggenda anche se probabilmente è un personaggio storico, però non
vi sono evangelisti come per il cristianesimo. In quel lasso di tempo nel quale
lavoravano alacremente i filosofi ad Atene, un principe che si chiamava Siddharta
Gautama nacque e visse negli agi per una trentina di anni. Ci sono leggende
sulla nascita che naturalmente era miracolosa, come in molti fondatori di religioni,
e anche sull’aneddoto che vuole che alla sua nascita l’astrologo
di corte predicesse un futuro da condottiero, oppure da condottiero di anime,
da fondatore di religione. Il padre, che era un nobile, non voleva che si avverasse
questa seconda ipotesi e quindi lo tenne nella bambagia, gli fece conoscere
solo gli aspetti felici della vita. Un giorno però questo principe esce
dal palazzo, si fa un giro per il regno e incontra, nell’ordine, un malato,
un vecchio ed infine un funerale, tre cose che non aveva mai visto. Rimane molto
turbato e sulla via del ritorno incontra un asceta. Questi quattro incontri
lo turbano e lo trasformano, lo mettono di colpo in contatto con il dolore e
con la morte. Va in casa, nel palazzo, dà un’occhiata alla moglie
ed al figlio che dormono, prende un cavallo e scappa. Siddharta aveva una moglie,
faceva una vita da nobile, ora esce dal palazzo e va a rifugiarsi per anni presso
alcuni asceti, ma questa via non lo soddisfa. Ritiene che quella condizione
di mortificazione di sé non porti a molto. Comincia a meditare, fa voto
di non muoversi dalla stessa posizione fino a che non avrà capito. Quando
capisce si “risveglia” - perciò si chiama Buddha che significa
“il risvegliato”. Buddha è quindi un epiteto, un’attribuzione
successiva. E’ un aggettivo. E questo vuol dire che chiunque può
essere risvegliato: la natura di Buddha è potenzialmente di chiunque. Passeranno
altri 45 anni di predicazione. Fonderà una comunità che si chiama
Sangha ed una dottrina che si chiama Dharma. Vi do pure ora i termini tecnici
- ve la voglio fare difficile - in modo che ricordiate che tutte le versioni
che arrivano facilitate non sono buone. Alla morte del Buddha c’è
una sistematizzazione del pensiero e la stesura di quello che si chiama tripitaka
(o tipitaka in pali). Il canone buddista è formato da una quantità
enorme di libri. Tripitaka in sanscrito significa “tre canestri”
perché erano originariamente rotoli nei canestri. Il Suttapitaka
(il canestro, “pitaka”, dei discorsi), il Vinayapitaka (il
canestro della disciplina monastica), l’Abhidammapitaka (il canestro
della dottrina). In realtà quest’ultimo termine non è sanscrito,
ma è pali, una lingua parlata. Diciamo che il pali sta al
sanscrito come l’italiano volgare sta al latino. In sanscrito si dice
dharma, in pali damma. In sanscrito si dice sutra, in pali sutta,
in sanscrito si dice nirvana, in pali nibbana. Insomma il pali
è “burino”!
Altre parole chiave sono Hinayana e Mahayana: yana vuol dire veicolo,
hina piccolo, maha grande.
La prima fase del buddismo è ristretta a pochi - il piccolo veicolo - e
comprende una via soprattutto per monaci. Ideale del buddismo Hinayana è
“il santo” - diremmo noi - che però denota un essere avulso
dal contesto sociale. A partire dal II secolo d.C. si sviluppa un buddismo molto
più popolare, anche se ricco di speculazioni filosofiche di altissima qualità,
che propone un veicolo più grande, il Mahayana. Maha significa grande -
pensate a Gandhi chiamato Mahatma che vuol dire grande anima o anche alla parola
maharaja che vuol dire grande re. Il Mahayana è un grande veicolo
che è intanto più aperto, meno puramente monastico, e propone un ideale
terminale di uomo che non è il semplice santo che si illumina di per sé
e diventa Buddha e se ne va, ma si chiama Bodhisatva che è
una particolare qualità di essere umano che pur avendo compreso tutto decide
di non entrare nel Nirvana, ma di tornare in un’incarnazione successiva
per aiutare tutti gli altri esseri umani. Don Andrea potrebbe essere un bodhisatva
in questa accezione!
Cosa capisce Siddharta tanto da meritare la qualifica di risvegliato?
Ve lo racconto così come lo racconta lui. Quattro enunciati secchi, chiamati
quattro nobili verità.
Tutto è dolore: il buddismo è tosto, ve lo dico in modo che
possiate riconoscere i falsi buddhismi. Non c’è altro che dolore,
tutta la vita non è altro che sofferenza, malattia e morte. Anche quando
sono felice e contento mi prende dopo un po’ l’insoddisfazione e
il timore di perdere ciò che ho. Diventa dunque dolore anche l’apparente
brandello di felicità.
Vi è una causa di questo dolore. La sete, il desiderio di avere
ancora dell’altro, dovuto ad una ignoranza metafisica. Non vedo le cose
come stanno, ma voglio solo per me, c’è il senso di separatezza dell’io
dagli altri.
Vi è una cessazione del dolore. Quindi il dolore è onnipresente,
ha come causa il desiderio egoistico. Può cessare, ma come? C’è
un sentiero che conduce alla cessazione del dolore che è il sentiero del
Buddha.
La via che ci porta fuori dal dolore è il retto ottuplice sentiero.
Gli indiani sono dal punto di vista filosofico estremamente analitici. Anche
il cosiddetto Kamasutra, che tutti pensano sia un manuale erotico, in realtà
è un noiosissimo elenco non tanto di posizioni quanto di qualità.
Il sanscrito è complicatissimo, ha 48 suoni diversi, ho provato anche a
studiarlo, ma è difficilissimo. Una lingua complicata vuol dire anche un
pensiero complesso.
Vediamo il retto ottuplice sentiero:
1- Retta visione |
saggezza
|
3- Retta parola |
etica
|
6- Retto sforzo |
disciplina mentale
|
Nel cristianesimo direi che la parte centrale storicamente, ma qui deve correggermi don Andrea, è soprattutto l’etica. Naturalmente non ci nascondiamo il fatto che esiste una pratica meditativa cristiana molto forte, ma direi che nell’evoluzione storica più popolare del cristianesimo si porta ad esempio soprattutto il blocco centrale, quello etico.
La meditazione buddista è invece molto importante, quindi la terza parte è al centro, in una dimensione meditativa che significa una grande attenzione che si persegue attraverso delle tecniche. Si riesce, secondo l’insegnamento buddista, ad avere, attraverso la meditazione, quello stato di calma mentale che permette le visioni rette di come stanno le cose. E cosa scopre il meditante che ha lavorato bene e che contempla anche, nel suo lavoro meditativo, un’etica piuttosto rigorosa? Ho elencato alcuni concetti chiave del buddismo in modo che la cosiddetta dottrina ci appaia come l’esito di un percorso di comprensione. La prima è una verità abbastanza sconvolgente per noi occidentali:
Abbiamo visto in questa prima parte il principe Siddharta che si illumina -
VI-V secolo a.C. Muore ad ottant’anni, probabilmente per l’ingestione di carne
avariata. Non muore sulla croce, ma di morte più o meno naturale. Morendo va nel
Nirvana. In un testo buddista si legge: “Dopo la mia morte siate per voi stessi la vostra
isola, il vostro rifugio” (Digha-nikaya, II). Lascia ai monaci piangenti questa
ingiunzione. Buddha è un fondatore di religione, una religione molto filosofica e
psicologica, ma non è Dio, non si proclama Dio. Non solo, ma il buddismo in qualsiasi
manuale è definito una religione atea. Questo è discutibile: il Buddha
riconosceva più come metafore che come sostanziali realtà, proprio perché la
realtà gli sembra insostanziale, alcune divinità dell’induismo,
così tanto per tenerle buone. Ma del problema di Dio non ha mai voluto parlare
perché le questioni metafisiche, a lui che era il medico, sembravano una perdita di tempo.
Nel canone buddista ci sono varie storie del genere, la principale delle quali è questa.
All’ennesima domanda: “Cosa c’è dopo la morte? Ma c’è un
Dio?”, lui replicava in modo secco raccontando di quell’uomo che viene colpito da
una freccia. Quell’uomo quando viene colpito da una freccia e qualcuno va a soccorrerlo,
non chiede solo di essere soccorso? Pensate che cominci a chiedere: “Ma com’era
quello che ha scoccato la freccia? Era alto o basso? Raccontatemi com’era”.
No, non chiede questo, vuole solo essere liberato dal dolore. Quindi fondamentalmente taglia
con le questioni metafisiche portando su una sfera pratica la sua predicazione.
Nel vangelo di Giovanni invece, una delle cose che dice Gesù è questa:
“Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv. 13,34). Vedete la
differenza enorme con la frase lasciata da Buddha prima di morire: “Dopo la mia morte
siate per voi stessi la vostra isola, il vostro rifugio”. Nel cristianesimo
c’è una prospettiva intersoggettiva, interrelazionale, che nel buddismo originale
non c’è.
Vi dico questo perché credo che sia essenziale il problema sollevato da don Andrea
sull’identità. Lo stesso Dalai Lama dice: “Fate attenzione alle facili
conversioni perché sarebbe come mettere su un corpo di capra la testa dello yak”.
Viene fuori un mostro. Questo dell’identità è un grande problema. Il
cristianesimo, per come l’ho capito, è molto relazionale. Intanto c’è il
concetto di Trinità, che è un concetto di tipo relazionale, perché ci sono le
tre Persone che sono interfacciate. Spero di non dire bestialità teologiche. Questo penso
che porti proprio il tema fondante di tipo relazionale.
Nella Genesi c’è poi la somiglianza tra Dio e uomo che è ontologica e questo
pure è un elemento relazionale e poi la comunione da un certo punto di vista è un
elemento fortemente relazionale. Questi sono alcuni elementi del cristianesimo, non sono
chiaramente tutti.
Ne ho scelti tre per il buddismo:
Sono tre elementi irrelati. Siamo in un’ottica completamente diversa,
per questo i trapianti non sono facili. Il senso del vuoto, della vacuità, che è
peraltro concetto filosoficamente molto interessante e che il cristianesimo ha sfiorato
soprattutto con quella che si chiama mistica apofatica (Meister Eckhart ma forse anche
Dionigi l’Areopagita), ma che per il cristianesimo sono concetti un po’
secondari.
Naturalmente non è che i buddisti non si aiutino gli uni con gli altri, però sono
centrati da un’altra parte.
Voglio comparare anche un’altra triade. Nel buddismo abbiamo visto che il peggior peccato
è l’ignoranza in fondo di come stanno le cose, la replica è la
saggezza di come stanno le cose. Quando vedo che tutto è vuoto, che non esistono
realtà separate, che reincarnarsi è la suprema abiezione, tutto questo è
elemento di saggezza, si raggiunge con pratiche meditative. La reincarnazione è una
iattura, non c’è da augurarsi.
Nel cristianesimo viceversa c’è la nozione di peccato che naturalmente mi
ripropone un’idea di un’anima individuale che è completamente diversa dal
concetto di Anatta che abbiamo visto prima. Il peccato si riscatta con il perdono e alla
fine viene promessa la resurrezione. Se promettete la resurrezione ad un buddista quello
fa gli scongiuri, perché è da un’altra parte che stiamo andando. Non ho alcuna
pretesa di dire quale delle due è meglio, ma voglio solo farvi vedere che sono due
concezioni pressoché incompatibili proprio sul piano logico.
C’è un aforisma che recita:
Nel buddismo tutto si spiega senza Dio,
nel cristianesimo nulla si spiega senza Dio.
Tutto si spiega senza Dio non vuol dire che il buddismo sia ateo, questa è una
semplificazione. E’ importante tutta la successione dei dati che abbiamo sin qui
esaminato. Il buddismo è quasi agnostico, non è importante se esiste o no un Dio.
Nel cristianesimo nulla si spiega senza Dio tanto che io ritengo pericolosi i viraggi puramente
etici del cristianesimo, le frange di puro riscatto morale. Qualunque laicismo può
proporre un’etica più che dignitosa, ma la chiave religiosa implica un altro tipo di
esperienza.
Io sono stato presentato come psicoterapeuta junghiano e voglio leggervi una frase proprio di
C.G.Jung:
”Io vorrei mettere in guardia contro la così spesso tentata imitazione e
assimilazione delle pratiche orientali. Di regola, non ne viene che un istupidimento
particolarmente artificioso del nostro intelletto occidentale”.
Questo istupidimento può essere l’esito di un tipo di coscienza che si è
declinata nei secoli in occidente che ha bisogno probabilmente di un nutrimento diverso. Non
vorrei che tutto questo sembrasse una captatio benevolentiae nei confronti del parroco,
però raccoglievo la sfida da lui lanciata con il titolo di questo incontro:
fascino, perché di fascino ce n’è molto, e rischi. Il rischio
è quello della capra con la testa dello yak. L’istupidimento artificioso del nostro
intelletto si vede nei visi di tanti praticanti di religioni orientali occidentali che, a mio
parere, eludono la prima nobile verità, che tutto è dolore, cioè la
tragicità dell’esistenza, che poi è un’idea anche greca, che viene meno a
favore di pratiche pacificanti. Si va a meditare per stare meglio, non per capire meglio.
Io suggerirei qui una citazione da san Paolo:
Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono (I Tessalonicesi V,21)
Le pratiche buddiste serie, quelle più asciutte che non raccontano tante cose ma
insegnano delle tecniche di osservazione di sé, possono essere un buon ponte verso la
comprensione di ciò che effettivamente siamo e sono in questo modo esportabili anche in
ambiti cristiani o addirittura non confessionali. Sono pratiche fondamentalmente psicologiche.
Non solo, ma se vogliamo hanno condotto diversi cristiani a riscoprire la propria tradizione,
perché poi si sono imbattuti in pratiche come quella dell’esicasmo, tipica del
cristianesimo d’Oriente che coniuga la preghiera con la respirazione e quindi è come
se fosse un’espressione orientaleggiante ma nata in ambito cristiano. Ci sono altri
elementi poco noti del cristianesimo che hanno punti di contatto.
Bisogna poi considerare che esistono in realtà delle versioni diversissime del buddismo a
seconda del Paese nel quale il buddismo si è trapiantato. Per esempio il buddismo zen
che è tipico del Giappone, implica poche cerimonie e molta pratica meditativa fondata
sull’attenzione. Il meditante si siede e osserva il suo respiro. Detto così sembra
una sciocchezza, in realtà non solo è calmante, ma può portare ad osservare se
stessi e tutta una serie di cose e soprattutto è una pratica che pare faccia bene anche a
chi ha altre convinzioni teologiche. Ci sono stati sacerdoti che hanno lavorato in Giappone e,
senza arrivare a sincretismi sciocchi, hanno scoperto ancora di più la propria religione,
come H. M. Enomiya Lassalle, gesuita tedesco, che ha lavorato molto in Giappone e ha anche
scritto dei libri molto belli sull’incontro tra alcune pratiche zen e il cristianesimo.
Zen vuol dire meditazione, in realtà in sanscrito meditazione si dice dhyana, in
cinese dhyana diventa ch'an e dalla Cina ch'an diventa zen in
Giappone. Nel Tibet invece dove c’era una tradizione sciamanica fortemente magica,
il buddismo si è trapiantato con una quantità di deviazioni quasi magiche. Se
vedete una immagine buddista tibetana vi rendete conto del chiasso di divinità. Ho appena
detto che il buddismo è agnostico, ma in Tibet trova tutto questo retroterra magico e
cultuale e viene fuori un buddismo tibetano che tra l’altro è molto diffuso
perché c’è stata la diaspora con il Dalai Lama nel 1959, cacciato con tutti i
tibetani. Il Dalai Lama è un’icona mediatica ormai e quindi si pensa che il buddismo
sia quello, ma in realtà quello del Dalai Lama nasce come buddismo di minoranza. Se fosse
rimasto in Tibet non lo avrebbe conosciuto nessuno.
Abbiamo poi il buddismo di Nichiren, nel quale ci si siede due volte al giorno recitando
il Sutra del loto in giapponese. A me sembra una pratica istupidente perché tra
l’altro è in una lingua che non ci appartiene. Tra l’altro la setta di
Nichiren nasce nel 1200 con un’ottica nazionalista e militarista. Da noi ci sono milioni
di praticanti che non sanno queste cose.
Direi per chiudere che il buddismo ci può riportare ad una conoscenza di noi, ma
pencolarsi verso l’altro è conoscitivo solo se ho un’identità abbastanza
stabile. Non è così difficile da capire, vale anche per le relazioni affettive. Non
conosco davvero l’altro se non ho una buona identità personale, questo vale anche
per le culture.
Concludo con dei cenni bibliografici per chi volesse approfondire: