La breve antologia che segue è stata preparata per gli incontri mensili di catechesi proposti a tutta la comunità parrocchiale di S.Melania nell’anno 2005/2006. Seguiranno i brani per la preparazione dei successivi incontri secondo il seguente calendario:
L’Areopago
(da J.Ratzinger, La coscienza nel tempo, Conferenza alla
Reinhold-Schneider-Gesellschaft, in Chiesa, ecumenismo e politica, Edizioni
Paoline, Torino, 1987, p.159 e 163)
Nei suoi Colloqui con Hitler, Hermann Rauschning, che nel 1933-34 era
presidente del senato della libera città di Danzica, riferisce la seguente
dichiarazione del dittatore fatta in sua presenza: “Io libero l’uomo
dalla costrizione di uno spirito diventato scopo a se stesso; dalle sporche
ed umilianti autoafflizioni di una chimera chiamata coscienza e morale, e dalle
pretese di una libertà e autodeterminazione personale, di cui ben pochi
possono essere all’altezza”.
La coscienza era per quest’uomo una chimera dalla quale l’uomo doveva
essere liberato; la libertà che egli prometteva doveva essere una libertà
dalla coscienza. Del tutto affine è quanto Göring dichiarò
allo stesso autore: “Io non ho nessuna coscienza! La mia coscienza si
chiama Adolf Hitler”. La distruzione della coscienza è il vero
presupposto di una soggezione e di una signoria totalitaria. Dove vige una coscienza,
esiste anche una barriera al dominio dell’uomo sull’uomo e all’arbitrio
umano, qualcosa di sacro che rimane inattaccabile e che è sempre sottratto
all’arbitrio, sottraendosi ad ogni dispotismo proprio o estraneo. Solo
l’assolutezza della coscienza è l’opposto assoluto nei riguardi
della tirannide; solo il riconoscimento della sua inviolabilità protegge
l’uomo nei confronti dell’uomo e nei confronti di se stesso; solo
la sua signoria garantisce la libertà...
E’ certamente possibile che sotto il concetto di coscienza si insinui
come la canonizzazione di un super-io, che blocca l’uomo nella sua realizzazione.
Il richiamo assoluto rivolto alla persona nella sua responsabilità è
allora coperto e sopraffatto da un sistema di convenzioni che viene esibito
falsamente come voce di Dio, mentre non è in verità che la voce
del passato, la cui paura impedisce il presente. La coscienza può diventare
anche un alibi per la propria ostinazione e indocilità, quando una caparbia
incapacità alla correzione di sé viene giustificata con la fedeltà
alla voce interiore. La coscienza diventa allora il principio di un egoismo
soggettivo che si pone come assoluto, allo stesso modo in cui, viceversa, può
diventare il principio del passaggio dall’io a un “sì”
impersonale o a un io estraneo. In questo senso il concetto di coscienza ha
bisogno di costante purificazione, e la pretesa della coscienza come pure il
richiamo ad essa hanno bisogno di lealtà e di prudenza, consapevole dei
possibili abusi di grandi valori quando la si chiama in gioco troppo in fretta.
Chi ha in bocca con troppa facilità la parola “coscienza”
si rende sospetto in modo simile a coloro che pronunciano banalmente e a ripetizione
il santo nome di Dio, dunque da idolatri e non da veri adoratori. Ma la vulnerabilità
della coscienza, la possibilità dell’abuso non possono cancellarne
la grandezza, Reinhold Schneider ha detto: “Che cosa è la coscienza
se non la consapevolezza della nostra responsabilità davanti alla totalità
della creazione e davanti a chi l’ha creata?”. Coscienza significa,
detto molto semplicemente, riconoscere l’uomo, se stesso e l’altro
da sé come creazione e rispettare in quest’uomo il suo creatore.
Ciò definisce il confine di ogni potere e gli indica a un tempo la direzione.
(da J.Ratzinger, La teologia morale oggi, conferenza per la Diocesi di
Civitavecchia, 7 giugno 1986, pubblicata in più puntate in Avvenire Lazio-sette,
2005)
Quando si parla di coscienza oggi vengono in mente tre correnti principali di
pensiero. Abbiamo già trattato della prima di queste quando abbiamo detto
che la coscienza rivendica il diritto della soggettività, che non può
in alcun modo essere misurata oggettivamente. Ma di rimando sorge immediatamente
l'obiezione: chi stabilisce questo diritto assoluto della soggettività?
Essa può certamente avere un diritto relativo; ma in casi realmente importanti,
non deve questo diritto essere sacrificato a un bene comune oggettivo di più
alto livello?
È strano che certi teologi trovino difficile accettare la dottrina precisa
e limitata dell'infallibilità pontificia, ma non abbiano problemi
nel riconoscere de facto l'infallibilità a chiunque abbia una coscienza.
In realtà non è possibile rivendicare un diritto assoluto della
soggettività come tale.
Un secondo concetto di coscienza afferma che la coscienza è la voce di
Dio dentro di noi. Con questo concetto viene stabilito il carattere assolutamente
inviolabile della coscienza, la quale verrebbe a trovarsi al disopra di qualsiasi
legge umana. L'esistenza di un simile legame diretto tra Dio e l'uomo, da all'uomo
una dignità assoluta.
Ma allora sorge il quesito: Dio parla forse agli uomini in maniera contraddittoria?
Contraddice forse sé stesso? Proibisce forse a qualcuno di fare un'azione,
anche a prezzo del martirio, mentre autorizza un altro o addirittura esige
da lui di compiere questa stessa azione?
Chiaramente non è possibile parlare di una identità dei giudizi
di coscienza individuali con la voce di Dio. La coscienza non è
un oracolo, come osservava giustamente Robert Spaemann.
Incontriamo ora un terzo significato: la coscienza come super “io”,
come interiorizzazione della volontà e delle convinzioni di altri che
ci hanno formati e hanno impresso in noi la loro volontà, a tal
punto che essa non ci parla più esteriormente, ma dal più intimo
di noi stessi.
In una situazione come questa, la coscienza non sarebbe affatto una sorgente
reale di moralità, ma soltanto il riflesso della volontà di un
altro, una guida estranea in noi stessi. La coscienza non sarebbe allora un
organo di libertà, ma una schiavitù interiorizzata dalla
quale l'uomo dovrebbe logicamente liberarsi per scoprire l'ampiezza della
sua reale libertà.
Organo, non oracolo
Anche se è possibile spiegare in questo modo molte singole espressioni
della coscienza, questa teoria non può reggersi globalmente.
Vi sono, infatti, bambini i quali, prima di aver ricevuto una educazione formale,
reagiscono spontaneamente contro l'ingiustizia. Essi danno un «sì»
spontaneo a ciò che è buono e vero, prima di qualsiasi azione
educativa, che troppo spesso li confonde e li schiaccia anziché aiutarli
a crescere.
D'altra parte vi sono uomini e donne maturi nei quali si osserva una libertà
o una prontezza di coscienza che si contrappongono a ciò che è
stato appreso o che viene comunemente fatto. Una coscienza come questa è
diventata un senso interiore di ciò che è buono.
Qual'è allora la posizione reale della coscienza? Vorrei fare mie le
parole di Robert Spaemann sull'argomento: la coscienza è un organo, non
un oracolo. È un organo perché è una cosa insita in noi,
che appartiene alla nostra essenza, e non una cosa fatta fuori di noi.
Ma essendo un organo ha bisogno di crescere, di essere formata, di esercitarsi.
Trovo molto adatto in questo caso il confronto che Spaemann fa con la parola.
Perché parliamo? Parliamo perché abbiamo imparato a parlare dai
nostri genitori. Parliamo la lingua che essi ci hanno insegnato, anche se sappiamo
che esistono altre lingue che siamo incapaci di parlare o comprendere. La persona
che non ha mai imparato a parlare è muta. Eppure la lingua non è
un condizionamento esterno che abbiamo interiorizzato; è invece una cosa
che propriamente è interna a noi. Viene formata dall'esterno, ma questa
formazione risponde a ciò che è insito nella nostra natura, che
cioè possiamo esprimerci con il linguaggio. L'uomo come tale è
un essere-che-parla, ma lo diventa soltanto a condizione che impari a parlare
da altri. Incontriamo così la nozione fondamentale di quel che significa
essere un uomo: l'uomo è «un essere che ha bisogno dell'aiuto
di altri per diventare ciò che è in sé stesso» (R.
Spaemann).
Noi vediamo, ancora una volta, questa struttura antropologica fondamentale nella
coscienza. L'uomo come tale è un essere che ha un organo di conoscenza
interna del bene e del male. Perché esso diventi ciò che è,
ha tuttavia bisogno dell'aiuto degli altri.
La coscienza richiede formazione e educazione. Può diventare rachitica;
può essere distrutta; può essere deformata a tal punto da
riuscire a esprimersi solo a stento o in maniera distorta. Il silenzio della
coscienza può diventare una malattia mortale per una intera civiltà.
Incontriamo di tanto in tanto, nei Salmi, la preghiera a Dio perché
liberi l'uomo dai suoi peccati nascosti. Il salmista vede come il più
grande pericolo il non riconoscerli più come peccati, e cadere in essi
apparentemente con buona coscienza.
Non riuscire ad avere una coscienza di colpa è una malattia, come è
una malattia l'assenza di dolore in una malattia. Non si può quindi accettare
il principio che ognuno può sempre fare ciò che la sua coscienza
lo autorizza a fare: in tal caso, un individuo senza coscienza sarebbe autorizzato
a fare qualsiasi cosa. Invece è proprio per colpa sua se la coscienza
è tanto oscurata che egli non vede più quello che, in quanto uomo,
dovrebbe vedere.
In altre parole, nel concetto di coscienza è compreso un obbligo,
quello cioè di aver cura di essa, di formarla e di educarla. La coscienza
ha diritto al rispetto e all’obbedienza, nella misura in cui la persona
la rispetta e ha per essa la cura che la sua dignità merita.
Il diritto della coscienza e l'obbligo di formarla.
Come cerchiamo di sviluppare il nostro uso del linguaggio, e ci sforziamo di
dominare l'utilizzazione delle sue regole, così dobbiamo anche cercare
la vera misura della coscienza, affinché la sua parola interiore possa
infine conseguire la propria validità.
Questo significa per noi che il Magistero della Chiesa ha la responsabilità
di una corretta formazione. Si rivolge, per così dire, alle vibrazioni
interne che le sue parole suscitano nel processo di maturazione della coscienza.
Sarebbe quindi semplicistico porre una affermazione del Magistero in contrapposizione
alla coscienza. In tal caso, devo interrogarmi molto più a fondo.
Che cosa c'è, in me, che contraddice questa parola del Magistero? È
forse soltanto il mio benessere, la mia routine di ogni giorno? O la mia ostinazione?
O è una alienazione, dovuta a un certo modo di vivere, che mi consente
qualche cosa che il Magistero mi vieta, che a me sembra meglio motivata o più
adatta semplicemente perché la società la considera ragionevole?
È solo nel contesto di questo tipo di lotta che la coscienza può
essere esercitata, e che il Magistero ha il diritto di attendersi da essa
un'apertura in maniera consona alla gravita della questione.
Se io credo che la Chiesa ha le sue origini nel Signore, allora il ministero
della dottrina nella Chiesa ha il diritto, mentre si sviluppa nell'autenticità,
di essere accettato come elemento prioritario nella formazione della coscienza.
A questo corrisponde quindi un obbligo del Magistero di pronunciare la sua parola
in modo tale che possa essere compresa in mezzo ai conflitti di valori e di
orientamenti. Deve esprimersi in modo da rendere possibile una risonanza
interiore della sua parola all'interno della coscienza, ciò che significa
qualcosa di più che una semplice dichiarazione occasionale di massimo
livello.
(da J.Ratzinger, Coscienza e verità, Conferenza a Dallas ed a Siena,
in La chiesa. Una comunità sempre in cammino, Edizioni Paoline, Torino,
1991, pag.113-137)
Nell’attuale dibattito sulla natura propria della moralità e sulle
modalità della sua conoscenza, la questione della coscienza è
divenuto il punto nodale...
La coscienza vi è presentata come il baluardo della libertà di
fronte alle limitazioni dell’esistenza imposte dall’autorità.
In tale contesto vengono così contrapposte due concezioni del cattolicesimo:
da un lato sta una comprensione rinnovata della sua essenza, che spiega la fede
cristiana a partire dalla libertà e come principio della libertà
e, dall’altro lato, un modello superato, “preconciliare”,
che assoggetta l’esistenza cristiana all’autorità, la quale
attraverso norme regola la vita fin nei suoi aspetti più intimi e cerca
in tal modo di mantenere un potere di controllo sugli uomini. Così “morale
della coscienza” e “morale dell’autorità” sembrano
contrapporsi tra di loro come due modelli incompatibili; la libertà dei
cristiani sarebbe poi messa in salvo facendo appello al principio classico della
tradizione morale, secondo cui la coscienza è la norma suprema che dev’essere
sempre seguita, anche in contrasto con l’autorità.
E’ fuori discussione che si deve sempre seguire un chiaro dettame di coscienza,
o che almeno non si può mai andare contro di esso. Ma è questione
del tutto diversa se il giudizio di coscienza, o ciò che uno prende come
tale, abbia anche sempre ragione, se esso cioè sia infallibile. Infatti,
se così fosse, ciò varrebbe a dire che non c’è nessuna
verità, almeno in materia di morale e di religione, ossia nell’ambito
dei fondamenti veri e propri della nostra esistenza. Dal momento che i giudizi
di coscienza si contraddicono, ci sarebbe dunque solo una verità del
soggetto, che si ridurrebbe alla sua sincerità. Non ci sarebbe nessuna
porta e nessuna finestra che potrebbe condurre dal soggetto al mondo circostante
e alla comunione degli uomini...
(La tesi che la coscienza morale sia infallibile) viene presumibilmente esposta
per primo da J.G.Fichte: “La coscienza non erra mai e non può mai
errare”, poiché è “essa stessa giudice di ogni convinzione,
non conosce alcun giudice sopra di sé”. Essa decide in ultima istanza
ed è essa stessa inappellabile (System der Sittenlehre 1789, III, §15;
Werke, vol.4 Berlin, 1971, p.174)... Gli argomenti in contrario già formulati
in precedenza da Kant, vennero approfonditi da Hegel per il quale la coscienza
“come soggettività formale... è sul punto di rovesciarsi
in male”.
Una volta, un collega più anziano, cui stava molto a cuore la situazione
dell’essere cristiano nel nostro tempo, nel corso di una discussione,
espresse l’opinione che bisognava davvero esser grati a Dio, per aver
concesso a così tanti uomini di poter essere non credenti in buona coscienza.
Infatti se si fossero loro aperti gli occhi e fossero divenuti credenti, non
sarebbero stati in grado, in un mondo come il nostro, di portare il peso della
fede e dei doveri morali che ne derivano. Ora invece, dal momento che percorrono
un’altra strada in buona coscienza, possono non di meno raggiungere la
salvezza.
Ciò che mi turbò fu la concezione che la fede sia un peso difficile
da portare, adatta solo a nature particolarmente forti: quasi una forma di punizione,
e comunque un insieme oneroso di esigenze cui non è facile far fronte.
Secondo tale concezione, la fede, lungi dal rendere la salvezza più accessibile,
la farebbe più difficile. Dovrebbe essere felice, pertanto, proprio colui
cui non viene addossato l’onere di dover credere e di doversi sottomettere
a quel giogo morale che la fede della Chiesa cattolica comporta. La coscienza
erronea, che consente di vivere una vita più facile e indica una via
più umana, sarebbe dunque la vera grazia, la via normale alla salvezza.
La non verità, il restare lontani dalla verità, sarebbe per l’uomo
meglio della verità. Non è la verità a liberarlo, anzi
egli dovrebbe piuttosto esserne liberato. L’uomo sta a suo agio più
nelle tenebre che nella luce; la fede non è un bel dono del buon Dio,
ma piuttosto una maledizione. Stando così le cose, come dalla fede potrebbe
provenire gioia? Chi potrebbe avere addirittura il coraggio di trasmettere la
fede ad altri?
Essa sembra essere piuttosto il guscio della soggettività, in cui l’uomo
può sfuggire alla realtà e nascondersi ad essa. A tal riguardo
è qui presupposta proprio la concezione di coscienza del liberalismo:
la coscienza non apre la strada al cammino liberante della verità, la
quale o non esiste affatto o è troppo esigente per noi. La coscienza
è l’istanza che ci dispensa dalla verità, essa si trasforma
nella giustificazione della soggettività, che non si lascia più
mettere in questione, così come nella giustificazione del conformismo
sociale, che, come minimo denominatore comune tra le diverse soggettività,
ha il compito di rendere possibile la vita nella società. Il dovere di
cercare la verità viene meno, così come vengono meno i dubbi sulle
tendenze generali predominanti, nella società e su quanto in essa è
diventato abitudine.
Görres mostra che il senso di colpa, la capacità di riconoscere
la colpa appartiene all’essenza stessa della struttura psicologica dell’uomo.
Il senso di colpa, che rompe una falsa serenità di coscienza e che può
esser definito come una protesta della coscienza contro l’esistenza soddisfatta
di sé, è altrettanto necessario per l’uomo quanto il dolore
fisico, quale sintomo che permette di riconoscere i disturbi alle normali funzioni
dell’organismo. Chi non è più capace di percepire la colpa
è spiritualmente ammalato, è “un cadavere vivente, una maschera
da teatro”, come dice Görres. “Sono i mostri che, tra altri
bruti, non hanno nessun senso di colpa. Forse ne erano totalmente sprovvisti
Hitler e Himmler o Stalin. Forse i padrini della mafia non hanno sensi di colpa,
anche se probabilmente nascondono molti cadaveri in cantina insieme ai relativi
sensi di colpa. Tutti gli uomini hanno bisogno di sensi di colpa”.
Qualcosa di analogo, d’altro canto, possiamo trovare anche in san Paolo,
il quale ci dice che i pagani conoscono molto bene, anche senza legge, ciò
che Dio attende da loro (Rm 2,1-16). Tutta quanta la teoria della salvezza mediante
l’ignoranza crolla in questo versetto: c’è nell’uomo
la presenza del tutto inevitabile della verità, dell’unica verità
del Creatore, la quale è stata poi anche messa per iscritto nella rivelazione
della storia della salvezza. L’uomo può vedere la verità
di Do a motivo del suo essere creaturale. Non vederla è peccato.
Quanto è venuto alla luce dopo il crollo del sistema marxista nell’Europa
orientale conferma questa diagnosi. Le personalità più attente
e nobili dei popoli finalmente liberati parlano di un’immane devastazione
spirituale, che si è verificata negli anni della deformazione intellettuale.
Essi rilevano un ottundimento del senso morale, che rappresenta una perdita
e un pericolo ben più grave dei danni economici che si sono creati. Il
nuovo patriarca di Mosca lo denunciò in maniera impressionante all’inizio
del suo ministero, nell’estate 1990: la capacità di percezione
degli uomini, vissuti in un sistema di menzogna, si era, secondo lui, oscurata.
La società aveva perso la capacità di misericordia e i sentimenti
umani erano andati perduti. Un’intera generazione era perduta per il bene,
per azioni degne dell’uomo. “Abbiamo il compito di ricondurre la
società ai valori morali eterni”, cioè: il compito di sviluppare
nuovamente nel cuore degli uomini l’udito ormai quasi spento per ascoltare
i suggerimenti di Dio. L’errore, la “coscienza erronea”, solo
a prima vista è comoda. Infatti, se non si reagisce, l’ammutolirsi
della coscienza porta alla disumanizzazione del mondo e a un pericolo mortale.
In altre parole: l’identificazione della coscienza con la consapevolezza
superficiale, la riduzione dell’uomo alla sua soggettività non
libera affatto, ma rende schiavo; essa ci rende totalmente dipendenti dalle
opinioni dominanti e abbassa anche il livello di queste ultime giorno dopo giorno.
Certamente si deve seguire la coscienza erronea. Tuttavia quella rinuncia alla
verità, che è avvenuta precedentemente e che ora si prende la
sua rivincita, è la vera colpa; una colpa che sulle prime culla l’uomo
in una falsa sicurezza, ma poi lo abbandona in un deserto privo di sentieri.
A questo punto diventa chiara l’estrema radicalità dell’odierna
disputa sull’etica e sul centro, la coscienza. Mi sembra che un parallelo
adeguato nella storia del pensiero lo si possa trovare nella disputa tra Socrate-Platone
e i sofisti. In essa viene messa alla prova la decisione cruciale tra due atteggiamenti
fondamentali: la fiducia nella possibilità per l’uomo di conoscere
la verità, da una parte, e d’altra parte una visione del mondo
in cui l’uomo da se stesso crea i criteri per la sua vita. Il fatto che
Socrate, un pagano, sia potuto diventare in un certo senso il profeta di Gesù
Cristo ha, secondo me, la sua giustificazione proprio in tale questione fondamentale.
La rinuncia ad ammettere la possibilità per l’uomo di conoscere
la verità conduce dapprima ad un uso puramente formalistico delle parole
e dei concetti. A sua volta la perdita dei contenuti porta ad un mero formalismo
dei giudizi, ieri come oggi. In molti ambienti oggi non ci si chiede più
che cosa un uomo pensi. Si ha già pronto un giudizio sul suo pensiero,
nella misura in cui lo si può catalogare con una delle corrispondenti
etichette formali: conservatore, reazionario, fondamentalista, progressista,
rivoluzionario. La catalogazione in uno schema formale basta a rendere superfluo
il confronto con i contenuti. La stessa cosa si può vedere, in un modo
ancor più netto, nell’arte: ciò che un’opera d’arte
esprime è del tutto indifferente; essa può esaltare Dio o il diavolo;
l’unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale. Abbiamo così
raggiunto il punto veramente scottante della questione: Quando i contenuti non
contano più, quando ha il predominio una mera prassologia, la tecnica
diventa il criterio supremo. Ma ciò significa: il potere diventa la categoria
che domina ogni cosa, sia esso rivoluzionario o reazionario. Questa è
precisamente la forma perversa della somiglianza con Dio, di cui parla il racconto
del peccato originale: la strada di una mera capacità tecnica, la strada
del puro potere è contraffazione di un idolo e non realizzazione della
somiglianza con Dio. Lo specifico dell’uomo in quanto uomo consiste nel
suo interrogarsi non sul “potere”, ma sul “dovere”,
nel suo aprirsi alla voce della verità e delle sue esigenze. Questo fu,
a mio parere, il contenuto ultimo della ricerca socratica e questo è
anche il senso più profondo della testimonianza di tutti i martiri: essi
attestano la capacità di verità dell’uomo quale limite di
ogni potere e garanzia della sua somiglianza divina. E’ proprio in questo
senso che i martiri sono i grandi testimoni della coscienza, della capacità
concessa all’uomo di percepire, oltre al potere, anche il dovere e quindi
di aprire la via al vero progresso, alla vera ascesa.
Ciò significa che il primo, per così dire, ontologico livello
del fenomeno della coscienza consiste nel fatto che è stato infuso in
noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e del vero (le due
realtà coincidono); che c’è una tendenza intima dell’essere
dell’uomo, fatto a immagine di Dio, verso quanto a Dio è conforme.
Fin dalla sua radice l’essere dell’uomo avverte un’armonia
con alcune cose e si trova in contraddizione con altre. Questa anamnesi dell’origine,
che deriva dal fatto che il nostro essere è costituito a somiglianza
di Dio, non è un sapere già articolato concettualmente, uno scrigno
di contenuti che aspetterebbero solo di venir richiamati fuori. Essa è,
per così dire, un senso interiore, una capacità di riconoscimento,
così che colui che ne viene interpellato, se non è interiormente
ripiegato su se stesso, è capace di riconoscerne in sé l’eco.
Egli se ne accorge: “Questo è ciò a cui mi inclina la mia
natura e ciò che essa cerca!”. Su questa anamnesi del Creatore,
che si identifica col fondamento stesso della nostra esistenza, si basa la possibilità
e il diritto della missione. Il vangelo può, anzi, dev’essere predicato
ai pagani, perché essi stessi, nel loro intimo, lo attendono (cfr. Is
42,4). Infatti la missione si giustifica, se i destinatari, nell’incontro
con la parola del vangelo, ri-conoscono: “Ecco, questo è proprio
quello che io aspettavo”.
Il papa non può imporre ai fedeli cattolici dei comandamenti, solo perché
egli lo vuole o perché lo ritiene utile. Una simile concezione moderna
e volontaristica dell’autorità può soltanto deformare l’autentico
significato teologico del papato. Così la vera natura del ministero di
Pietro è diventata del tutto incomprensibile nell’epoca moderna
precisamente perché in questo orizzonte mentale si può pensare
all’autorità solo con categorie che non consentono più alcun
ponte tra soggetto e oggetto. Pertanto tutto ciò che non proviene dal
soggetto può essere solo una determinazione imposta dall’esterno.
Ma le cose si presentano del tutto diverse a partire da un’antropologia
della coscienza quale abbiamo cercato di delineare a poco a poco in queste riflessioni.
L’anamnesi infusa nel nostro essere ha bisogno, per così dire,
di un aiuto dall’esterno per diventare cosciente di sé. Ma questo
“dal di fuori” non è affatto qualcosa di contrapposto, anzi
è piuttosto qualcosa di ordinato ad essa: esso ha una funzione maieutica,
non le impone niente dal di fuori, ma porta a compimento quanto è proprio
dell’anamnesi, cioè la sua interiore specifica apertura alla verità.
Il significato autentico dell’autorità dottrinale del papa consiste
nel fatto che egli è il garante della memoria cristiana. Il papa non
impone dall’esterno, ma sviluppa la memoria cristiana e la difende. Per
questo il brindisi per la coscienza deve precedere quello per il papa (N.d.R.
Fa riferimento all’espressione del card J.H.Newman, contenuta nella lettera
al duca di Norfolk: “Certamente se io dovessi portare la religione in
un brindisi dopo un pranzo – cosa che non è molto indicato fare
– allora io brinderei per il papa. Ma prima per la coscienza e poi per
il papa”) perché senza coscienza non ci sarebbe nessun papato.
Tutto il potere che egli ha è potere della coscienza: servizio al duplice
ricordo, su cui si basa la fede, che dev’essere continuamente purificata,
ampliata e difesa contro le forme di distruzione della memoria, la quale è
minacciata tanto da una soggettività dimentica del proprio fondamento,
quanto dalle pressioni di un conformismo sociale e culturale.
Dopo queste considerazioni sul primo livello, essenzialmente ontologico, del
concetto di coscienza, dobbiamo ora rivolgerci alla sua seconda dimensione,
il livello del giudicare e del decidere, che nella tradizione medievale venne
designato con l’unico termine di “conscientia” (coscienza).
Su questo piano, il piano del giudicare (quello della “conscientia”
in senso stretto), vale il principio che anche la coscienza erronea obbliga.
Quest’affermazione è pienamente intelligibile nella tradizione
di pensiero della scolastica. Nessuno può agire contro le sue convinzioni,
come già aveva detto san Paolo (Rm 14,23). Tuttavia il fatto che la convinzione
acquisita sia ovviamente obbligatoria nel momento in cui si agisce, non significa
nessuna canonizzazione della soggettività. Non è mai una colpa
seguire le convinzioni che ci si è formate, anzi uno deve seguirle. Ciò
nondimeno può essere una colpa che uno sia arrivato a formarsi convinzioni
tanto sbagliate e che abbia calpestato la repulsione dell’anamnesi dell’essere.
La colpa quindi si trova altrove, più in profondità: non nell’atto
del momento, non nel presente giudizio della coscienza, ma in quella trascuratezza
verso il mio stesso essere, che mi ha reso sordo alla voce della verità
e ai suoi suggerimenti interiori. Per questo motivo, i criminali che agiscono
con convinzione come Hitler e Stalin rimangono colpevoli. Questi esempi macroscopici
non devono tranquillizzarci su noi stessi, piuttosto dovrebbero risvegliarci
e farci prendere sul serio la gravità della supplica: “liberami
dalle colpe che non vedo” (Sal 19,13).
La ricerca estremamente chiara di I.G.Belmans, Le paradoxe de la conscience
erronée d’Abélard à Karl Rahner, in Rev. Thom 90
(1990), pp. 570-586 mostra che questa è esattamente la posizione anche
di san Tommaso. Belmans dimostra che la pubblicazione del libro di Sertillanges
su san Tommaso nel 1942 ha dato inizio ad una molto diffusa falsificazione della
dottrina dell’Aquinate sulla coscienza. Semplificando, la falsificazione
consiste nel fatto che viene citato solamente l’articolo 5 (“Bisogna
seguire una coscienza erronea?”) della Summa Theol. I-II q. 19, mentre
viene del tutto tralasciato l’articolo 6 (“E’ sufficiente
seguire la propria coscienza per agire bene?”). Ciò significa che
a Tommaso viene ora attribuito l’insegnamento di Abelardo, che l’Aquinate,
invece, si riprometteva invece di superare. Abelardo aveva sostenuto che coloro
i quali avevano crocifisso Cristo non avevano peccato, poiché avevano
agito per ignoranza. L’unico modo di peccare consisterebbe, invece, nell’agire
contro coscienza. Le teorie moderne circa l’autonomia della coscienza
possono rifarsi ad Abelardo, non a Tommaso.
(ancora da J.Ratzinger, La teologia morale oggi, conferenza per la Diocesi
di Civitavecchia, 7 giugno 1986, pubblicata in più puntate in Avvenire
Lazio-sette, 2005)
Natura, ragione e oggettività
La parola del Magistero non è più plausibile, oggi, per molti
cristiani, perché la sua ragionevolezza e la sua oggettività
non sono più trasparenti. Il Magistero è accusato di partire
da una interpretazione obsoleta della realtà. Come gli stoici dei tempi
antichi, - si dice - il Magistero ragiona a partire dalla «natura».
Ma l'espressione stessa di «natura» è stata completamente
sorpassata insieme all'intera epoca metafisica.
In un primo tempo, questo cosiddetto naturalismo della tradizione del Magistero
venne considerato in contrapposizione al personalismo della Bibbia. L'opposizione
tra natura e persona, come modello fondamentale per l'argomentazione, era considerata,
nello stesso tempo, una contrapposizione tra tradizione filosofica e tradizione
biblica. Eppure è un fatto riconosciuto da tempo che non esiste un «biblicismo»
puro, e che anche il «personalismo» ha i propri aspetti filosofici.
Assistiamo oggi a un movimento che è quasi il diretto opposto del precedente:
la Bibbia è in larga misura scomparsa dalle opere moderne di teologia
morale. Domina, al suo posto, la tendenza a un'analisi razionale particolarmente
vigorosa, accompagnata dalla rivendicazione dell'autonomia della morale, che
non si basa né sulla natura né sulla persona, ma sulla storicità
e su modelli di comportamento sociale orientati verso il futuro. Bisogna cercare
di scoprire ciò che è socialmente compatibile e ciò che
serve a costruire una futura società umana.
La «realtà» sulla quale si basa l'«oggettività»
non è più una natura che precede l'uomo, ma è piuttosto
il mondo che egli stesso ha strutturato, che può analizzare in maniera
semplice, e dal quale può estrapolare ciò che il futuro porterà.
Qui ci troviamo di fronte alla vera ragione per cui il cristianesimo di oggi
manca in larga misura di una autentica plausibilità, e non solo nel campo
della morale.
Come abbiamo già visto, a seguito del mutamento filosofico introdotto
da Kant, la divisione della realtà in soggettivo e oggettivo è
diventata dominante.
L'oggettivo non è semplicemente la realtà in sé stessa,
ma la realtà in quanto oggetto del nostro pensiero, in quanto cioè
è misurabile e passibile di calcolo. Il soggettivo invece sfugge
alla spiegazione «oggettiva». Questo significa, tuttavia, che
la realtà che incontriamo parla soltanto il linguaggio del calcolo,
ma non contiene alcuna espressione morale. Le forme radicali in costante
espansione della teoria dell'evoluzione portano alla stessa conclusione,
anche se da un punto di partenza differente. Il mondo non presuppone alcuna
ragione: ciò che vi è di ragionevole in esso è risultato
di una combinazione di accidenti, il cui continuo accumulo ha creato in
seguito un tipo di necessità.
Secondo tale punto di vista, il mondo non contiene alcun significato, ma soltanto
traguardi, posti dalla stessa evoluzione. Se il mondo è quindi un fotomontaggio
di apparenze statiche, la massima direttiva morale che può dare all'uomo
sarà dunque che questi deve impegnarsi in un qualche tipo di fotomontaggio
del futuro, e che deve dirigere tutto conformemente, a ciò che considera
utile. Il modello si trova quindi sempre nel futuro: sotto questo aspetto, il
massimo miglioramento possibile del mondo è l'unico comandamento
morale.
La Chiesa invece crede che in principio era il Verbo, e che quindi l'essere
stesso porta il linguaggio del Logos, la ragione non solo matematica,
ma anche estetica, morale. Ecco che cosa s'intende quando la Chiesa ribadisce
che la «natura» ha un valore morale. Nessuno dice che il biologismo
debba diventare la norma dell'uomo. Questo concetto è stato proposto
solo da una certa corrente di un’evoluzione radicale.
La Chiesa difende dichiaratamente il significato della creazione, e mette in
pratica ciò che intende quando dice: io credo in Dio, Creatore del Cielo
e della terra. Vi è una ragione dell'essere, e quando l'uomo si stacca
totalmente da essa riconoscendo solo il valore di ciò che ha costruito
egli stesso, in quel momento egli abbandona ciò che è morale in
senso stretto. In un modo o in un altro, stiamo cominciando a renderci conto
che la materialità contiene un'espressione spirituale, e non è
semplicemente destinata al calcolo e all’uso. Possiamo intravedere
che vi è una ragione che ci precede, che essa sola può mantenere
in equilibrio la nostra ragione e può impedirci di cadere in una non-ragione
esteriore.
Necessità dell'esercizio
In definitiva, il linguaggio dell'essere, il linguaggio della natura, è
identico al linguaggio della coscienza. Ma per ascoltare quel linguaggio
è necessario, come per qualsiasi linguaggio, esercitarlo. Ora, poiché
l'organo preposto a questa funzione è stato mortificato nel nostro mondo
tecnologico, ecco che manca una qualsiasi plausibilità. La Chiesa tradirebbe
non soltanto il suo messaggio ma il destino stesso dell'umanità, se rinunciasse
a essere custode dell'essere e del suo messaggio morale. In questo senso,
può essere contrapposta a ciò che è «plausibile»,
ma nello stesso tempo rappresenta le più profonde rivendicazioni della
ragione.
Diventa evidente, a questo punto, che anche la ragione è un organo e
non un oracolo. E anche la ragione richiede esercizio e comunità.
Che una persona sia capace di attribuire una ragione all'essere e di decifrare
la propria dimensione morale, dipende dal fatto che risponda o non risponda
alla domanda su Dio. Se il Verbo che è principio non esiste, non vi può
neanche essere un Verbo nelle cose. Ciò che Kolakowski scopriva recentemente,
diventa allora enfaticamente vero: quando non vi è Dio, non vi è
morale, anzi non vi è neanche umanità.
In questo senso, analizzando le cose più a fondo, tutto dipende da Dio,
da un Dio che è Creatore e che ha rivelato sé stesso. Per questa
ragione, ancora una volta, abbiamo il bisogno della comunità la quale
può garantire quel Dio che nessuno da solo potrebbe pretendere di portare
nella propria vita.
La questione di Dio, punto centrale, non è una questione per specialisti.
La percezione di Dio è proprio quella semplicità che gli specialisti
non potranno mai monopolizzare, che invece può essere percepita
soltanto mantenendo una semplicità di visione. Forse ci riesce oggi
così difficile affrontare l'essenza dell'umanità, perché
non siamo più capaci di semplicità.
La morale richiede quindi non lo specialista ma il testimone. Non ne consegue,
naturalmente, che l'opera scientifica riguardante i criteri della morale e la
conoscenza specializzata in questo campo siano superflue. Poiché la coscienza
esige esercizio, poiché la tradizione deve essere vissuta e deve svilupparsi
in epoche di cambiamenti culturali, e poiché il comportamento morale
è una risposta alla realtà e quindi richiede una conoscenza della
realtà, per tutti questi motivi l'osservazione e lo studio del reale
e delle tradizioni della morale sono anch'essi importanti.
In altre parole, cercare una conoscenza approfondita della realtà è
un comandamento morale basilare.
Non senza ragione gli antichi ponevano la «prudenza» al primo posto
tra le virtù cardinali, interpretandola come volontà e capacità
di percepire la realtà e di rispondervi in maniera adeguata.
Il compito generale della Chiesa e di ogni credente quanto alle questioni morali
potrebbe alla fine, tutto sommato, essere così brevemente caratterizzato:
il credente non insegna ciò che ha scoperto da sé stesso, ma testimonia
la vivente saggezza della fede, nella quale la saggezza primitiva dell'umanità
viene purificata, mantenuta e approfondita. Attraverso il rapporto con Dio,
nella misura in cui la coscienza sia percettiva, quella sapienza umana primitiva
diventa un veicolo concreto di comunicazione con la verità attraverso
la comunione cui partecipa con la coscienza dei santi, e con la conoscenza di
Gesù Cristo. Così il cristiano esprime e vive non una ideologia
chiusa, e neppure una teoria limitata all'interno della Chiesa, ma riapre
il messaggio dell'essere e da così una risposta autentica alla questione
decisiva dell'umanità di oggi e di ogni tempo: alla questione di come
si può essere uomo, di come si può vivere una vita veramente umana.
Altri testi utilizzati per l’incontro
Sir 37, 7-15
7 Ogni consigliere suggerisce consigli,
ma c'è chi consiglia a proprio vantaggio.
8 Guàrdati da un consigliere,
infòrmati quali siano le sue necessità
- egli nel consigliare penserà al suo interesse
- perché non getti la sorte su di te
9 e dica: «La tua via è buona»,
poi si terrà in disparte per vedere quanto ti accadrà.
10 Non consigliarti con chi ti guarda di sbieco,
nascondi la tua intenzione a quanti ti invidiano.
11 Non consigliarti con una donna sulla sua rivale,
con un pauroso sulla guerra,
con un mercante sul commercio,
con un compratore sulla vendita,
con un invidioso sulla riconoscenza,
con uno spietato sulla bontà di cuore,
con un pigro su un'iniziativa qualsiasi,
con un mercenario annuale sul raccolto,
con uno schiavo pigro su un gran lavoro;
non dipendere da costoro per nessun consiglio.
12 Invece frequenta spesso un uomo pio,
che tu conosci come osservante dei comandamenti
e la cui anima è come la tua anima;
se tu inciampi, saprà compatirti.
13 Segui il consiglio del tuo cuore,
perché nessuno ti sarà più fedele di lui.
14 La coscienza di un uomo talvolta suole avvertire
meglio di sette sentinelle collocate in alto per spiare.
15 Al di sopra di tutto questo prega l'Altissimo
perché guidi la tua condotta secondo verità.
(da S.Bastianel S.J., Moralità personale nella storia. Dispense,
Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma, 1993, pagg.40-41)
Se l'ambito della moralità è definito (se ritengo che sia definibile)
nei termini del mio intimo rapportarmi con la mia coscienza, senza bisogno di
altri elementi, allora in realtà io assumo una figura di coscienza morale
che è radicalmente segnata dal negativo; è come pretendere di
legittimare moralmente il disinteresse per l'altro. Questo significa centrare
la propria moralità si se stessi, cosa che è la radice dell'immoralità.
Abbiamo indicato il senso specifico del vivere morale nel consegnarsi all’altro
in libera responsabilità. L’atteggiamento ora indicato contraddice
direttamente il dinamismo di un’autentica coscienza morale... Non occorre
che io faccia un discorso, che io spieghi o difenda la possibilità di
separare l'intimità della coscienza dal vivere pubblico: basta che io
viva quella separazione e con ciò stesso la mia presenza sarà
mediatrice di una comprensione dell'esistenza morale giustificante alla radice
la possibilità di un "onesto disinteresse" dell'altro. In termini religiosi
sarà il distinguere un sacro da un profano, paradossalmente mettendo
sotto il termine "profano" l'uomo che è uscito dalle mani di Dio, facendo
diventare profano-poco-importante quello che appartiene all'intenzionalità
dell'Alleanza, cioè la solidarietà, la condivisione, la fraternità
di vita.
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