S.Agostino, proclamato da S.S. il papa Giovanni Paolo II patrono di Ostia e del XIII Municipio. Le relazioni su L’attualità della figura di S.Agostino, in occasione dei festeggiamenti in onore del nuovo patrono, di mons.Giovanni Falbo, di d.Riccardo Viel, di d.Andrea Lonardo, di p.Giuseppe Caruso, con una scheda sui luoghi di S.Agostino negli scavi di Ostia antica a cura del centro culturale L’Areopago) (tpfs*)

Convegno su
L’attualità della figura di S.Agostino
tenuto il 12 novembre 2004, presso l’Hotel Satellite Palace
in Ostia Lido

N.B. Le relazioni sono state trascritte dalla registrazione degli interventi. Non sono state riviste dai relatori e conservano conseguentemente l’originario stile orale.

L’Areopago


Indice:


Saluto di Davide Bordoni, sindaco del XIII Municipio

Buonasera a tutti, vi ringrazio per la partecipazione. Come sapete da oggi cominciano nel nostro Municipio i festeggiamenti per il 1650° anniversario della nascita di S.Agostino. Con un decreto la Chiesa di Roma ha fatto sì che S.Agostino diventasse patrono del nostro municipio. Un ringraziamento va a quanti hanno collaborato costantemente con la nostra amministrazione. Ringraziamo il presidente del comitato, Rinaldo Raganato ed Alessandro Paltoni, consigliere municipale, che ha proposto con la delibera n. 71, approvata alla unanimità, la nomina di S.Agostino a patrono del nostro municipio Presento i relatori, Mons. Giovanni Falbo, prefetto della zona pastorale di Ostia - sicuramente avrete avuto copia del suo libro che il municipio ha stampato proprio per divulgare in modo capillare sul nostro territorio la figura, le opere, la vita di S.Agostino. E’ un libro di facile lettura che serve a far conoscere la vita di questo santo e spiega perché è collegato al territorio di Ostia. Saluto poi don Riccardo Viel, prefetto della zona pastorale di Casal Bernocchi, don Andrea Lonardo, prefetto della zona pastorale di Acilia, Casalpalocco e AXA e padre Giuseppe Caruso professore dell’Istituto Agostiniano che è venuto da Roma e che ringraziamo per la sua disponibilità.

Monica ed Agostino
di Mons. Giovanni Falbo

Il mio intervento riguarda le relazioni di S.Agostino con Ostia. Perché S.Agostino patrono di Ostia? In effetti S.Agostino è stato ad Ostia, ma, se consideriamo che ha vissuto 76 anni, il tempo trascorso ad Ostia - 5-6 mesi - è stato meno di 1/150 della sua esistenza. Tutto il resto della sua vita lo ha passato perlopiù in Africa, con un intermezzo che va dal 383 al 388, anno in cui ripartì da Ostia per raggiungere di nuovo la sua città natale, Tagaste. Quindi S.Agostino ha trascorso la prima parte della sua vita (29 anni) in Africa. Prima a Tagaste, fino a 15 anni, dove ha frequentato le scuole, poi nella vicina cittadina di Madaura dove ha atteso a studi superiori e infine a Cartagine dove ha completato la sua formazione di retore. A Cartagine si trasferì nel 371, quando aveva 17 anni. Nel 372 la sua vita sregolata, come lui stesso racconta, lo portò ad avere un figlio fuori del matrimonio da una donna a lui molto fedele della quale tuttavia non conosceremo mai il nome. Conosciamo il nome del figlio, Adeodato e sappiamo che era un giovane di profonda intelligenza. Purtroppo morì a soli 18 anni. S.Agostino rimase in Africa fino al 383. Già in questo periodo aveva passato in rassegna varie scuole filosofiche e di pensiero. In particolare si era imbattuto nei manichei nel 374, pensando che potessero risolvere tutti i suoi dubbi, i suoi problemi. Per esempio il problema del male che i manichei risolvevano dicendo che ci sono due principi, due divinità, quella del Bene e quella del Male. Da qui l’origine del Male, secondo i manichei, e la costante lotta contro il Bene. La vita di S.Agostino si intreccia sempre con quella di sua madre Monica, lo vedremo meglio nelle vicende che seguono. Egli nel 383, dopo essere stato professore di retorica, prima nella sua città natale, poi a Cartagine, venne a Roma in cerca di una migliore sistemazione, all’insaputa della madre. Le aveva infatti detto che doveva salutare un amico, invece fu lui a partire con la nave verso Roma sbarcando ad Ostia. A Roma rimase dieci mesi, fin quando il prefetto di Roma, Aurelio Simmaco, che era l’ultimo paladino del paganesimo, dietro raccomandazione dei manichei, tornando da Milano, fece ottenere ad Agostino un posto imperiale di insegnamento della retorica. Nel 384, all’età di 30 anni Agostino partì per Milano con questa bella gratificazione per la sua carriera di retore, ma la Provvidenza disponeva diversamente per lui. Il suo dissidio interiore aumentava sempre di più. Nel frattempo la madre, Monica, lo raggiunse a Milano, dove Agostino ebbe occasione di ascoltare la predicazione di Ambrogio che lo fece riflettere. A seguito di questo e dopo varie vicissitudini, giunse alla conversione nel 386 e si preparò al battesimo. Istituì un cenacolo di filosofia con i suoi amici nella vicina Cassiciaco che oggi si identifica con Cassago in Brianza. Nel 387 ricevette il battesimo e subito dopo, dietro suggerimento di Monica, decise di tornare in Africa. Così da Milano vennero ad Ostia per imbarcarsi. Giunsero ad Ostia, secondo alcuni calcoli approssimativi, nella tarda primavera del 387 - poteva essere maggio o giugno (aveva ricevuto il battesimo nella veglia pasquale del 387, nel mese di aprile). Qui siamo nel nostro territorio, l’Ostia del tempo ovviamente, che non è la nostra Ostia moderna, ma l’attuale Ostia antica. Il mare allora arrivava fin lì ed era il porto di Roma (le porte di Roma etimologicamente: Ostia, plurale di ostium che significa porta). Qui ad Ostia Agostino, benché abbiamo detto si tratti solo di 1/150 della sua vita, trascorse, oserei dire, momenti fra i più belli e più intensi di tutta la sua vita. Per questo riteniamo giusto che S.Agostino sia divenuto patrono della nostra città. Cosa fece ad Ostia? Innanzitutto era fresco di conversione, aveva l’ardore del neofita, aveva riconquistato pienamente il suo rapporto con la madre, che gli era sempre stata dietro con la preghiera, con il pensiero, con ogni interessamento perché si convertisse. Non era stato battezzato da piccolo - sappiamo bene - perché non era ancora generalizzato l’uso del battesimo degli infanti. Quindi neanche S.Monica fece battezzare il figlio Agostino. Tuttavia lo iscrisse all’albo dei catecumeni. Aveva già ricevuto alcuni dei primi segni dei catecumeni, come il segno della croce sulla fronte e il sale che si poneva sulla lingua. Quando Agostino da fanciullo stava per morire, Monica si affrettò a chiamare il sacerdote per farlo battezzare, ma Agostino si riprese e conosciamo la sua vita successiva fatta di trasgressioni, di ricerca della verità, fino alla conversione. Ma Monica non aveva risparmiato nulla per lui, la frase più bella che lo stesso Agostino ci riporta nelle Confessioni è quella di un vescovo che Monica era andata ad importunare perché parlasse con il figlio che si era fatto manicheo perché lo convincesse che il manicheismo era una dottrina sbagliata, un’eresia. Alcuni dicono che questo vescovo fosse quello di Tagaste, ma a quel tempo Tagaste non aveva un vescovo, lo avrà successivamente nella persona di Alipio che è uno degli amici di S.Agostino. Probabilmente era il vescovo di Madaura, la città vicina più importante, che a quel tempo era Antigono. Questo vescovo dopo tutte le insistenze di S.Monica le disse: “Adesso datti pace; non è possibile che perisca un figlio di tante lacrime” perché Monica non faceva che pregare e piangere per il figlio Agostino. Ci parlava anche, ma poi si ritirava in buon’ordine dinanzi alla cultura e alla dialettica del figlio che lei non era certamente in grado di sostenere. Per questo cercava delle persone che potessero convincerlo e quindi oltre a questo vescovo, a Milano cercò in Ambrogio un potente alleato e questa volta finalmente riuscì. Monica nella sua pedagogia materna usò tutti i metodi per riportare Agostino alla vera fede e soprattutto all’ortoprassi, alla vita cristiana. Infatti quando nel 374 tornò da Cartagine con la donna anonima ed il figlioletto Adeodato, Monica lo cacciò di casa perché nella Scrittura era scritto di non avere neanche rapporti di saluto con gli eretici. Poi ebbe il famoso sogno dell’angelo che le disse: “Ma non vedi che sulla stessa trave dove sei tu c’è anche lui?”. In seguito a questo sogno premonitore lo riprese in casa. E ancora, Monica partecipò al cenacolo filosofico di Cassiciaco, quando si meritò da parte del figlio il titolo di filosofa. Era una donna senza istruzione come normalmente avveniva in quel tempo, tuttavia possiamo intravedere la sua intelligenza dalle risposte che ci riporta S.Agostino nei dialoghi di Cassiciaco. Erano risposte talmente acute che lui le disse: “Sei filosofa, mamma”. Una volta arrivati ad Ostia, nel fervore del neofita, la sua unione con quella santa madre che era Monica, divenne così stretta e dolce e beata che se leggiamo il IX libro delle Confessioni, traspare continuamente questa unione, questa dolcezza, questa tenerezza di S.Agostino verso la madre, la quale anche sul letto di morte ricordava di non aver mai sentito dalla sua bocca una parola offensiva nei suoi confronti, Agostino aveva sempre rispettato e amato la madre, anche quando non dava retta ai suoi consigli. Qui ad Ostia c’è questa perfetta intesa e soddisfazione nel condividere la medesima fede. E’ proprio in quest’ambito che Agostino descrive, sempre nel IX libro delle Confessioni, l’episodio culmine della sua permanenza ad Ostia, l’estasi di Ostia. Giunti ad Ostia avevano preso in affitto una delle tante case, non sappiamo esattamente quale, che oggi possiamo incontrare negli scavi. Lì ad Ostia c’era una comunità cristiana, c’era anche una basilica cristiana, un luogo di culto che risale proprio al tempo nel quale Agostino è stato ad Ostia- è del IV secolo. Quindi con tutta probabilità Agostino e sua madre hanno frequentato questo luogo di culto insieme alla comunità locale che poi parteciperà ai funerali di S.Monica, che starà vicino ad Agostino e tenterà di consolarlo in questo tragico frangente della sua vita. Proprio in quella casa c’era una finestra dalla quale si vedeva un giardino. Lì appoggiati al davanzale, in una di quelle sere d’estate, mentre si preparavano alla navigazione, si rinfrancavano dopo il viaggio faticoso da Milano a Roma. Lì tutti e due si mettono a discutere dei temi più cari ai cristiani. Quale avrebbe potuto essere la vita beata dei santi. Allora incominciano a parlare delle cose. La prima rivelazione di Dio è nella creazione. Le creature, come leggiamo anche in altri passi delle Confessioni, dicono: “Non siamo noi Dio, siamo belle e perfette ma devi andare più su”. Quindi Agostino, partendo dalle creature terrene, insieme alla madre Monica, si eleva alle creature celesti, agli astri, al sole, alla luna, alle stelle, poi si eleva alla spiritualità dell’uomo, alla mente dell’uomo che è fatta per l’infinito e con questa mente si pongono dinanzi alla parola eterna della Sapienza di Dio che non ha passato e futuro, ma è il presente. Questa Sapienza che diventa il diletto dei santi. In questo sforzo di comprensione hanno la folgorazione divina che chiamiamo l’estasi. Dice Agostino: “Lasciammo avvinte le primizie dello spirito”. In questa contemplazione di cui non riesce ad esprimere i contenuti, parla dell’abbondanza, della plaga sterminata della beatitudine. Potremmo confrontarla a quello che dice S.Paolo per la sua estasi nella seconda lettera ai Corinzi quando dice: “Non so se con il corpo o fuori del corpo fui elevato al terzo cielo e lì udii delle parole arcane che non è lecito agli uomini pronunciare”. Queste parole arcane sono appunto l’essenza di Dio, la cui visione rende beati e, ridiscendendo, dice Agostino, da questa contemplazione ritornammo alle nostre parole vuote, che hanno principio e fine ma non esprimono nulla dinanzi alla grandezza di questo mistero. E’ una delle espressioni della ineffabilità di Dio: non si può parlare di Dio, le nostre parole non arrivano che a darne un’idea. E’ solamente questo dono della visione, dell’estasi, che Dio ha dato al figlio e alla madre insieme, che è una intuizione che preludeva alla loro glorificazione, che per S.Monica sarebbe avvenuta di lì a poco. Tanto è vero che dopo questa estasi, Monica dice ad Agostino: “Che cosa sto a fare ancora in questo mondo? Io avevo un solo scopo nella vita, quello di vederti cristiano e cattolico e l’ho ottenuto, anzi ancora di più perché non solo ti sei convertito e sei stato battezzato, ma hai il proposito di consacrarti totalmente a Dio, cioè di diventare monaco” - come difatti fece. Tornò a Tagaste nel 388, poi divenne prete nel 391 e vescovo nel 395, ma rimase sempre monaco nello spirito. Allora, dice S.Monica, non c’è alcun motivo che mi trattenga su questa terra. E infatti pochi giorni dopo fu presa da grandi febbri, forse un attacco di malaria, e in queste grandi febbri ebbe uno svenimento e quando si riprese disse: “Dove sono?”. Agostino e il fratello Navigio e il figlio Adeodato erano lì insieme - quindi si è trattato di un momento di riunione familiare, perché il padre Patrizio era morto già nel 372, l’altra sorella che tradizionalmente si chiama Perpetua era una religiosa rimasta in Africa e quindi tutta la famiglia era presente. Agostino ha vissuto questi momenti fondamentali per la sua vita. Monica dice: “Deporrete qui vostra madre, la seppellirete qui”. Navigio comincia a dire: “Ma come? Tu hai preparato a Tagaste una tomba insieme a tuo marito Patrizio, allora non morirai qui, ma in Africa”. S.Monica dice ad Agostino: “Guarda cosa sta dicendo!”, come a dire: è uno che non ha capito nulla della vita cristiana. Già qualche giorno prima, parlando con la comunità cristiana di Ostia, aveva detto: “Non c’è posto sulla terra dal quale Dio non sappia trovarmi per risuscitarmi” - non è questa della sepoltura la cosa importante – “L’unica cosa che vi chiedo è di ricordarvi di me all’altare del Signore”. Poco dopo morì ed Agostino ebbe questa dolorosissima esperienza della morte della madre all’età di appena 56 anni; lui ne aveva 33. Cercò di reprimere il suo pianto, anche durante il funerale, quando si celebrava la messa con la salma della madre deposta accanto al sepolcro, secondo gli usi del luogo, poi il suo pianto sfociò pienamente e ne ebbe questo giovamento, vivendo però sempre in seguito in questa comunione con la madre, come si esprime poi nel libro X. S.Agostino fece quindi un sepolcro alla madre ad Ostia, anche per questo Ostia gli doveva essere cara, perché qui la madre era morta e qui era sepolta. Avvicinandosi l’inverno e non potendo più partire per l’Africa, pensò bene insieme ai suoi amici di tornare a Roma. Tuttavia nell’anno seguente, nel 388, tornò frequentemente ad Ostia per pregare sul sepolcro della madre, finché nell’estate del 388 si imbarcò di nuovo per Tagaste e non tornò più in Italia e quindi neanche ad Ostia. Ma questi mesi che passò ad Ostia, con questi eventi così importanti della sua vita, hanno lasciato in lui un solco, ma soprattutto lo hanno lasciato in noi di questo territorio. Il proconsole Artemio Basso fece incidere sul sepolcro della madre questa iscrizione che parla di Agostino pastore e di Monica che è un’altra luce del suo merito. Un notevole frammento di questa lapide è stato trovato nel cortile accanto alla chiesa di S.Aurea, nel 1946, dal patrologo agostiniano Antonio Casamassa. Questo pone dei problemi al riguardo dell’autenticità delle reliquie di Monica che oggi tradizionalmente sono nella chiesa di S.Agostino. Io penso che non siano quelle, ma che le reliquie di Monica siano ancora ad Ostia disperse nel sottosuolo di S.Aurea. E’ per tutto questo che noi siamo lieti di accogliere S.Agostino come patrono e siamo lieti soprattutto che dopo 1616 anni dal 388, quando partì da Ostia, domenica le sue spoglie torneranno in mezzo a noi.

Troppo tardi ti ho amato: il cammino di conversione di Agostino di Ippona
di don Riccardo Viel

Per scoprire la bellezza del convertirsi di Dio verso di noi - e capirete il perché - l’essere cercati da lui, come dice il Cantico dei cantici, che è l’inno dell’amore di Dio verso l’uomo nella Scrittura: “Cercai l’amore dell’anima mia, lo cercai senza trovarlo, trovai l’amore dell’anima mia, l’ho avvinghiato e mai più lo lascerò”, sono quattro i momenti che percorreremo: l’uomo in ricerca, Agostino nella sua giovinezza; secondo, la scoperta della Sapienza, la conoscenza, l’intelletto, la cultura; il terzo punto è la Grazia, l’incontro con la Grazia gratis, data; e poi l’ultima parte.
La mia relazione l’ho intitolata con quella frase che voi conoscete molto bene: “Tardi ti ho amato”.

1) L’uomo in ricerca
Bambino, ragazzo, giovane a Tagaste, sua città natale, va visto nei suoi tormenti della crescita, riempito dall’affetto della madre Monica, giustamente apprensiva; lui qui si descrive come spirito, anima, carattere smanioso. La sua famiglia, direi oggi normale, con il padre Patrizio, piccolo proprietario terriero, consigliere al municipio (più per salvaguardare i suoi interessi!), che si permette di dare ai figli la possibilità dello studio. Ma come a tanti ragazzi capita:

Mi mandarono a scuola per imparare le lettere… ignoravo quale fosse l’utilità e… pigro nell’imparare, venivo castigato (Conf. , 1, 9)

Non amavo le lettere e non mi rassegnavo ad esservi costretto a studiarle. (Conf. 1, 12).

S’interessa allo studio del latino, ama meno il greco. Come un normale ragazzo d’oggi scopre il gusto della trasgressione. Ama molto le amicizie, le cattive amicizie:

Seduzione inspiegabile dell’anima, bramosia di far del male per il solo gusto di divertirsi, desiderio del danno altrui senza alcun proprio vantaggio,… Uno dice “Andiamo, facciamo!”. Così ci si vergogna di essere senza vergogna!” (Conf. 2, 9).

che lo portano al furto, che lo portano al gusto delle cose pruriginose. Gli piace la storia di Didone, la passione e la trasgressività:

Venne il tempo della mia giovinezza nella quale arsi dal desiderio di saziarmi di volgari piaceri; mi imbestialii in vari e tenebrosi amori e la mia bellezza sfumò… soddisfacendo me stesso, mentre cercavo di piacere agli occhi degli uomini.” (Conf. 2, 1);

Dalla fangosa concupiscenza della mia carne dalla intima crisi dell’adolescenza esalavano nebbie che oscuravano il mio cuore… così non distinguevo l’amore dalla libidine tenebrosa.” (Conf. 2,2)

La descrizione continua. Nella crescita si aggiungono:

La bella presenza dell’oro, dell’argento… l’attrattiva della bellezza… nel piacere carnale. nel diletto degli altri sensi…”,

fino al meglio che si evidenzia e poi accompagna l’uomo adulto:

L’onore mondano, la potenza del comandare e dell’imporsi agli altri… da dove nasce il desiderio della vendetta” (Conf. 2, 5).

Potremo andare oltre, ma mi fermo. Tempo ed intenti ce lo impediscono!

Ecco. Chi è costui? Un uomo nella sua crescita. Io mi ci sono molto ritrovato. E voi?
Facciamone una sintesi che racchiuda queste descrizioni così intense di Agostino su se stesso, rilevando la fondatezza della visione che ha Cristo dell’uomo intriso e impastato dalla sua caducità: “Homo captivus” (sicuramente non illuministica, né tantomeno roussoiana dell’ “uomo buono”!).
“Se voi che siete cattivi (captivi = schiavi –) date cose buone ai vostri figli, tanto più il Padre vostro Celeste darà ciò che è buono (o Colui che è buono?) ai propri figli?” (Mt. 7,11). O meglio: “Dal cuore dell’uomo escono le intenzioni cattive: adulteri, cupidigie” (Mc. 7,22). Il Signore Gesù non ne dà una definizione moralista; constata invece la condizione esistenziale nell’uomo nella sua “cattività” (captivitas).
Agostino scoprirà con il tempo cosa gli servirà per uscire da questa pastoia.

2) La scoperta della sapienza
Esiste però un altro passo, del suo crescere, che ci coinvolge. A 19 anni - trasferitosi per gli studi a Cartagine - leggendo l’Ortensio di Cicerone, si “convertì” all’amore della sapienza. Inizia il percorso più tormentato.
In breve. Sensualità, passioni fisiche; bramosia del sapere, passioni intellettuali (tutto con il cervello, si direbbe oggi!) lo vedono nell’agone della gioventù. Si inserisce anche la Scrittura, in questo tempo, ma come smania intellettiva. Deluso dalla lettura delle Scritture, troppo semplice per i suoi gusti, “indegna del suo orgoglio”, ha il primo impatto con la setta dei Manichei. Lo stuzzicano per la sapienza che promettevano di apprendere con la sola ragione senza il ricorso all’autorità della fede, per l’adesione a Cristo di cui si proclamano discepoli, per la soluzione radicale del problema del male. Diventa un fiero anticattolico e un fedele manicheo. Di Mani accetta, sia pur con riserva, il metodo, la pietà, e i presupposti metafisici, che erano: il materialismo, il dualismo, il panteismo.
Esiste un percorso immenso, da lui compiuto e descritto, sulla setta dei manichei, che tralascio. Già presto ne evidenzia comunque le storture e le falle della loro logica. Dopo 9 anni, deluso dalla debolezza del sistema manicheo, si trova logicamente dentro lo scetticismo. Ogni ricerca lo ha avvilito, niente serve più a niente! E’ il percorso moderno - o di sempre? - di chi voglia inglobare il tutto nel cervello. Anche oggi è così, non vi sembra?
Sta con una donna dal nome mai pronunciato, sconosciuta. Ha un figlio, Adeodato. E’ una “coppia di fatto” diremo oggi! Il mondo non cambia mai! Per di più: si muore giovani! Anche? Un amico suo caro, perfetto sconosciuto anche lui a noi, muore improvvisamente. Ahi; la sorte incombe! “Ricorda Orazio: “L’animo non può fuggire da sé stesso” (Epist. 14,13).
Ecco. Chi è Agostino? Un giovane che si fa persona, che cresce. Deluso dal fato (si dà anche all’astrologia! Che attuale possibilità!!). Io mi ci sono ritrovato. E voi?
L’età della ricerca, della scoperta delle cose e delle persone. Dentro, sta la migliore scoperta: di sé stessi. E la delusione che ne consegue! Guardate i nostri giovani dai 16 ai 22 anni!
Lascia Tagaste, vive anche il dolore, il non-senso, in maniera disordinata. Il fatalismo lo avvolge; ma il Dio “cerebrale” non lo soddisfa più, lo spirito dell’uomo non si soddisfa con le creature, la “sapientia mentis” e il suo filosofare è, ahi noi, anch’esso limitato!

Tutto quello che nel campo della eloquenza, e della dialettica, della geometria, della musica e dell’aritmetica, senza grande difficoltà , senza maestro alcuno io imparai... non mi giovarono ma mi furono piuttosto di danno… Che mi giova infatti una cosa buona, se non sapevo che farmene?… Mi accorsi che queste dottrine riuscivano difficilissime… Eppure io ero così (Conf. 5, 16).

3) La grazia “gratis”
A ventinove anni ha capito la falsità del manicheismo. Va a Roma, e poi a Milano; qui insegna retorica. Si libera di questo tormento dualista fra fede e ragione che è la causa, sua e nostra, di ogni scetticismo per il quale questa incompatibilità diviene il presupposto di un cammino libero del sapere fino alle sue estreme conseguenze (anche questo è tanto moderno, anche oggi questo percorso si fa materia grave dell’abuso dell’uomo oltre le regole da Dio stabilite nell’uomo e nella natura).
Supera questo ostacolo: non ragione o fede, ma ragione e fede. Il sapere non è fine a sé stesso.
Qui s’innestano, come lui stesso descrive, i primi approcci, l’ascolto sommesso, in fondo alla chiesa, di Ambrogio, vescovo di Milano. Soprattutto “guardarlo” mentre scruta la Scrittura, mentre prega, mentre si preoccupa dei poveri, mentre insiste, predica, ammonisce i catecumeni. Lo ammira. A volte reprime in sé questo modo di essere, che nota in questo vescovo. Sapiente e semplice. Che sarà mai? (Conf. 6, 3).
Si presenta il dilemma: vivere la ricerca della sapienza in quanto tale; o vivere la sapienza della vita?
Ma la “Sapienza” che cos’è?:

Mi sentivo confuso… rientravo in me stesso e godevo… godevo nel sentirmi esortare a leggere le Sante Scritture… gioivo nel ripetere con Ambrogio: “La lettera uccide, lo spirito invece vivifica”, 2 Cor. 3,6 (Conf. 6, 4).

Scruta Ambrogio, si lamenta a volte che non può parlare con lui. Vuole un maestro che lo ascolti, che lo soddisfi, che gli spieghi il tutto. Sente Dio presente, ma lo vuole carpire, vuole comprenderlo. Ancora una volta la “mente” vuole la sua parte predominante.
Il problema del male lo assilla, lo assilla la lontananza di Dio: l’uomo nell’abisso dei suoi tormenti non trova salvezza. Osa appena parlare della misericordia:

La tua mano risanatrice” a cui “piacque risanare le mie deformità”. (Conf. 6,8).

Ma gli manca qualcosa. Dice di Dio, l’immutabile, l’eterno, ha bisogno si conoscerlo. Ma non lo “sente”. Voglio sapere “chi è”!!!

Parla molto di Cristo, lo conosce attraverso la lettura di San Paolo. Parla molto di lui come il “Verbo” il filosofare platonico è cosa buona, ma ti fa “sapere”, non conoscere”!

Altra cosa è lo scorgere la patria della pace da un monte avvolto nella boscaglia; ma non trovare la strada… altra cosa è trovarsi invece sulla buona strada che ti conduce. (Conf. 7, 21).

Ma ecco. Uomini cristificati gli si presentano davanti. Ambrogio, il saggio presbitero Simpliciano; i convertiti Ponticiano e il filosofo Vittorino, e altri. Che accade?

Ero malato e grande era il mio tormento… E tu, Signore, incalzavi nel mio intimo con severa misericordia”.

Questo è un Dio che si fa “sentire”… finalmente!

Una voce, è il mio diletto! Davanti al mio cuore… si scatenò una violentissima tempesta”. La Parola si fece Carne per me. Aveva un Nome: Gesù di Nazareth, il Figlio di Dio, l’Altissimo. “Rivestitevi del Signore Cristo Gesù e non curatevi della carne nelle sue concupiscenze” (Rm. 13, 13-14). (Conf. 8 12).

Ecco l’incontro.
L’amore che cercava si faceva trovare. Scopre che la sapienza non era una “cosa”, bensì una persona.
Il cristianesimo si ripete, come fu prima dai discepoli, da Paolo ad Agostino, a noi fino ad oggi. Cristo è un incontro, non un pensiero. Il cristianesimo è l’incontro con un uomo, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, risorto dai morti, presente, vivo. La Sapienza, per il cristiano non è una cosa: è essere incontrati da una persona: Gesù Cristo, Figlio del Dio Altissimo.
E come avviene questo? Si può cercare, certo. Lecito e vero! Ma l’incontro si fa, avviene, per Sua libera iniziativa. Leggete l’inizio del libro nono:

Tutto si riduceva a non volere ciò che io volevo e a volere ciò che tu volevi… o Cristo Gesù, mio aiuto e mio redentore. (Conf. 9, 1).

Chiamerà tutto questo “gratam gratiam” , l’azione dello Spirito Santo nel cuore dell’uomo; lo svelatore della presenza di Gesù Cristo nella vita dell’uomo. Ma tutto questo apre un altro capitolo molto forte dell’esperienza agostiniana, e qui non è il tempo e il luogo, oggi!
Resta da precisare però che la “Conversione” più importante non è quella dell’uomo verso Dio; ma di Dio verso l’uomo. Questo cammino si chiama Cristo Gesù di Nazareth.

4) “Tardi t’amai”: l’incontro
Non ci resta che ascoltare il vescovo di Ippona che ci parla di Lui e di noi:

Stimolato ad entrare in me stesso, sotto la tua guida, entrai nell’intimità del mio cuore, e lo potevo fare perché tu ti sei fatto mio aiuto… O eterna verità e vera carità e cara eternità! Tu sei il mio Dio, a te sospiro giorno e notte. Appena ti conobbi mi hai sollevato in alto, perché vedessi quanto era da vedere… Hai abbagliato la debolezza della mia vista, splendendo potentemente dentro di me. Tremai di amore e di terrore. Mi ritrovai lontano come in una terra straniera… Cercavo il modo di procurarmi la forza sufficiente per godere di te, e non la trovavo, finché non ebbi abbracciato il Mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù” (1 Tim. 2,5), “che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli” (Rm. 9,5). Egli mi chiamò e disse: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv. 14,6); e unì quel cibo, che io non ero capace di prendere, al mio essere, poiché “il verbo si fece carne” (Gv. 1,14)… Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato… mi tenevano lontano da te, quelle creature che, se non fossero in te, neppure esisterebbero. Mi hai chiamato, hai gridato, hai infranto la mia sordità. Mi ha abbagliato, mi hai folgorato, e hai finalmente guarito la mia cecità. Hai alitato su di me il tuo profumo e io ho respirato e ora anelo a te (Conf. 10,27).

Perché vi venga voglia di leggere, se ancora non lo avete fatto, la sua “conversione”. E magari, ancora meglio, di vivere la sua stessa esperienza. Sarebbe un vero “patrono”! Auguri!

Il piacere e il desiderio nell’itinerario di S.Agostino
di don Andrea Lonardo

Vorrei cominciare affrontando il tema del rapporto, in Agostino, tra la fede cristiana e la ragione. E’ una cosa straordinaria che ci aiuta a comprendere la sua attualità - penso anche a questa discussione moderna sui fondamenti dell’Europa. Agostino ha voluto essere sempre un uomo di cultura e non ha mai visto, soprattutto nella parte finale del suo cammino di fede, una opposizione fra queste due realtà della ragione e della fede. Se volete Agostino è una di quelle persone che, conoscendo la cultura, sa poi anche farne a meno in tanti momenti, sa dire agli altri che non serve, però intanto a lui è servita. E’ un paradosso particolare. Pensate a quanto ha scritto, alle sue lettere, al suo essere una persona che, cosa rarissima tra gli intellettuali, ha scritto delle ritrattazioni della sua vita. Alla fine del suo percorso intellettuale ha voluto scrivere un libro per dire in che cosa si era sbagliato, virtù rara nel mondo del pensiero. Pensate innanzitutto, se ne accennava prima, a questo piacere di imparare, di sapere, che lui vede con le luci e le ombre di chi sa che il creato è buono ma insieme deve essere redento da Dio. Agostino a un certo punto non sopporta la Sacra Scrittura perché gli sembra troppo banale, finché Ambrogio non gliela interpreta in senso allegorico. E’ uno dei grandi temi anche dell’attuale dibattito tra le religioni oggi, ad esempio nella riflessione sull’Islam radicale. Come si legge il testo sacro? Agostino ha bisogno di una persona che gli legga il testo non solo nel suo senso puramente letterale, ma in quella tradizione allegorica di cui Ambrogio è maestro. Lentamente Agostino impara ad amare la Scrittura attraverso questo uomo, vescovo di Milano, che era stato a sua volta un grosso dignitario dello Stato, prefetto di Milano, uomo di cultura. Attraverso la sua interpretazione Agostino impara ad amare la Bibbia. Sapete che il suo avvicinamento ai temi della filosofia e della fede è dovuto anche ai filosofi neo-platonici come Plotino e Porfirio. E quando, da più adulto, scrive il De doctrina christiana dice, da un lato, che la cultura è meno importante della fede, ma d’altro canto che una persona che vuole diventare un cristiano che insegni agli altri deve studiare la grammatica, la storia, le scienze naturali, la retorica, la dialettica, la matematica. Questo rapporto indissolubile che c’è nella nostra storia europea fra la fede cristiana e la classicità e la razionalità è originario nel cristianesimo. Agostino, pur essendo profondamente cristiano, non ripudia il valore del pensiero dell’uomo, perché crede nel Creatore. Questa è solo una premessa per arrivare al tema del desiderio e del piacere, ma già in questo vediamo un aspetto del desiderio: la ricerca della verità. La fede cristiana di Agostino che è alle origini della cultura europea, il suo esser divenuto uno dei classici della formazione dell’Europa, è permeato da questa consapevolezza: la fede non trasmette solo se stessa, ma trasmette anche il valore di quello che gli uomini hanno fatto quando ancora Cristo non era conosciuto. Nel corso della storia, a volte la fede cristiana e la ragione sembrano confliggere, sembrano lottare, altre volte si riaffermano alleate, ma sono come due realtà che vivono e si richiamano continuamente l’una all’altra. Nella loro verità non c’è mai un momento in cui l’una esclude l’altra, perché entrambe hanno origine nel Creatore. Cito due frasi agostiniane molto note. La prima è una espressione agostiniana che mons. Riva, che è stato tanti anni ausiliare qui nel settore sud, ripeteva spesso ai sacerdoti: “Fides, si non cogitata, nulla est”, “la fede se non ha anche la riflessione, se non è pensata, è vuota”, perché diventa pura emozione. La fede ha bisogno di diventare anche riflessione e pensiero. Un’altra frase agostiniana, spesso citata da Raymond Brown, uno dei grandi studiosi di Agostino, dice: “Io sono infatti proprio il tipo di individuo - dice Agostino - , che è impaziente nella sua brama non soltanto di credere alla verità della fede, ma di arrivare a capirla”. Agostino sa che non si può capire Dio fino in fondo, ma fa di tutto per arrivare a capire tutto quello che è possibile capire.

E veniamo a questo tema particolare del desiderio, che però abbiamo già introdotto con queste riflessioni. Vorrei rileggere con voi il testo dell’estasi di Ostia, proprio come una chiave di lettura perché in quel brano noi ritroviamo alcuni temi straordinari di S.Agostino. Partiamo dal libro nono, X, 24. Non sappiamo dove avvenga questo episodio, ma, passeggiando negli scavi di Ostia antica, possiamo immaginarlo collocato in una qualsiasi delle case. C’è una finestra che dà su un giardino e Agostino e Monica sono vicini, davanti hanno il panorama di questa finestra aperta e madre e figlio iniziano a parlare. Così racconta Agostino a distanza di anni:

X, 24 Il discorso ci portò a questa conclusione: la gioia dei sensi terreni, per quanto possa essere grande e per quanto preziosa nella luce del mondo, non è degna di paragone, anzi neppure di menzione rispetto al giubilo di quell’altra vita. E innalzandoci con affetto più ardente verso l’Essere stesso, attraversammo grado per grado tutti gli esseri corporei e il cielo stesso da cui brillano sopra la terra il sole, la luna e le stelle. E inoltre salivamo dentro di noi, pensando, chiamando e ammirando le opere tue, e venimmo alle nostre menti ma trascendemmo anche queste, per attingere la regione dell’abbondanza che non viene mai meno, dove pasci Israele in eterno con il cibo della verità. Là la vita è la Sapienza, mediante cui sono fatte tutte queste cose, quelle che furono e quelle che saranno; ma essa non conosce nessun divenire, bensì è come fu e così sarà sempre. O meglio: l’essere che è stato e l’essere che sarà non esistono in essa, ma soltanto l’essere, perché è eterna: l’essere stato e l’essere futuro non è l’eterno. E mentre parlavamo, pieni di desiderio, della sapienza, la toccammo lievemente con uno slancio totale del cuore. Sospirammo e ivi lasciammo avvinte le primizie dello spirito (Rm 8,23), e ridiscendemmo al rumore delle nostre labbra, dove la parola incomincia e finisce. Che cosa potrebbe esserci di simile alla tua Parola, Signore nostro, che rimani sempre in te senza vecchiaia e rinnovi tutte le cose?

Vedete, vorrei sottolineare queste parole nelle quali ricorre il tema del piacere, della gioia: “la gioia dei sensi terreni, per quanto possa essere grande e per quanto preziosa nella luce del mondo ”. Tanti accusano scioccamente Agostino di essere un sessuofobo, un nemico della carne, dei sensi. Agostino non è niente di tutto questo. Lo era stato da manicheo. Ma ora Agostino sa – e cerca di capire - dal momento della sua conversione, come il Creatore sia il Creatore di quel godimento che può essere enorme, può essere prezioso, ma insieme è nulla dinanzi al godimento di Dio. E qui cominciamo a capire come Agostino spiega la realtà del piacere all’interno della sua visione nuova del mondo. Agostino sa che c’è come una scala, come una progressione, perché il piacere tende sempre ad una gioia più grande. L’uomo - la filosofia antica l’ha sempre insegnato - è fatto per la felicità. La novità di Agostino non sta nel dire che l’uomo è fatto per la felicità, ma nel dire che la felicità la si trova nella rivelazione di Gesù Cristo. C’è una differenza profondissima con il pensiero di chi l’ha preceduto. Ma anche una continuità. Mi torna in mente un’espressione che mi diverte citare di un altro filosofo, Epicuro, che a differenza di quanto comunemente si pensa di lui, in realtà afferma, nella lettera a Meneceo:

Proprio perché il piacere è il nostro bene più importante ed innato, noi non cerchiamo qualsiasi piacere; ci sono casi in cui noi rinunciamo a molti piaceri se ce ne deriva un affanno. Inoltre consideriamo i dolori preferibili ai piaceri, quando da sofferenze a lungo sopportate ci deriva un piacere più elevato. Quando diciamo che il piacere è il nostro fine ultimo, noi non intendiamo con ciò i piaceri sfrenati, e nemmeno quelli che hanno a che fare con il godimento materiale, come dicono coloro che ignorano la nostra dottrina. La saggezza è principio di tutte le altre virtù e ci insegna che non si può essere felici, senza essere saggi, onesti e giusti. Le virtù in realtà sono un’unica cosa con la vita felice e questa è inseparabile da essi.

Guardate è straordinario questo testo anche nella sua attualità: il piacere è fatto in maniera tale che, poiché si consuma, se non diventa una gioia stabile, diventa il nemico della vita. Già il filosofo pagano sa che deve puntare al piacere alto di essere buono, di essere onesto, di essere virtuoso. Ma Agostino va ancora oltre, scopre che il vero piacere, il vero godimento, il più alto, che trascende tutta la Creazione, che trascende lo stesso pensiero dell’uomo, è l’incontro con Cristo stesso.
Altra cosa divertente e molto attuale: sapete che uno dei momenti di grande crisi nel rapporto di Agostino con la cultura a Roma avviene quando, arrivato nella città nella quale pensa di trovare il “top” della cultura mondiale, scopre che le persone, i pensatori, i retori, “licenziano gli insegnanti e tengono le ballerine”. Avere una ballerina in casa è più importante che avere una persona che ti insegna a pensare. Questo ci fa pensare anche all’attualità, per esempio ad alcune cose della nostra televisione!
Agostino è colpito, perché se da un lato è attratto dalla realtà fisica, dall’altro lo è dal piacere del pensiero, dalla verità. Continuamente vive di questa domanda: dove trovare questo godimento pieno?
L’estasi di Ostia è come un momento riassuntivo. Anche nei mesi precedenti, a Milano, nelle Confessioni troviamo il racconto di una esperienza simile nella quale Agostino descrive come il suo godimento massimo - ed è questo l’annunzio che la riflessione agostiniana ci dona per sempre - stia in questo trascendere continuamente la realtà nel desiderio per arrivare a questa permanenza dell’incontro con Cristo.
Un secondo aspetto molto importante per comprendere bene la riflessione agostiniana sul piacere è quello della sua differenza dall’impostazione manicheista. Sapete che il manicheismo non è un gioco, è un problema molto serio e molto attuale. E’ caratterizzato da questa visione di due principi coessenziali, di un Dio buono e di un Dio cattivo, da cui deriva poi che ci sono realtà buone e realtà cattive - per esempio la realtà cattiva è il corpo, la corporeità. Perché l’uomo fa il male? Perché ha un corpo. Se togliete il corpo all’uomo, l’uomo sarà buono. Agostino, nel periodo del manicheismo aveva detto: “Ho appreso che la mia anima e il mio corpo che sopra di essa giace sono stati nemici, fin dalla creazione del mondo”. Nelle Confessioni però rilegge diversamente quelle affermazioni:

“Preferivo scusare me stesso e accusare qualche altra cosa che era in me, ma che non ero io. Ma in verità io ero un tutto unico, era la mia empietà che mi divideva contro me stesso, nella mia ricerca del desiderio e nei miei fallimenti non era il corpo contro la mente”.

Cos’è allora che lotta nell’uomo? Questa è la grande domanda che la conversione al cattolicesimo risolve. Possiamo porre la stessa domanda con altre parole. Da dove viene il male? Perché l’uomo uccide, ruba, prende una donna o un uomo che non gli appartiene, perché è geloso, invidioso, capace di insulti, perché? E’ tutta una ricerca, ma Agostino comprende che il manicheismo è troppo semplice ed è anticristiano. Nel testo che abbiamo letto è evidente come Agostino sa apprezzare il creato. Nel creato non c’è di per sé la cattiveria, ma la realtà va capita e amata appunto come creazione, come creatura. Quando si vede la realtà dell’uomo - della vita mia, della vita dell’altro - allora non c’è più questa opposizione nella creatura, se la creatura rimanda al Creatore. La creatura mi dà veramente quel godimento, quando da essa io arrivo a riconoscere che il Creatore l’ha fatta!
Nelle Confessioni Agostino, volendo spiegare la sua nuova visione del male e del bene che oramai lo differenzia dalla visione manichea, mostra come il problema del male nel cuore dell’uomo sia molto complesso. Egli sa che l’uomo può non solo essere buono o cattivo, ma esserlo in mille modi diversi, può nutrire mille pensieri, mille moti contraddittori.
Ma c’è un punto decisivo dell’itinerario agostiniano, in tutta questa varietà e possibilità. Agostino arriva a comprendere, proprio da pensatore cristiano, che il “male” non ha un’esistenza in sé, che non ci sono due principi coeterni del Bene e del Male. L’unico principio è il Creatore, è Dio, la Trinità. Il Male nasce come una realtà secondaria. Se il Male fosse eterno non potremmo mai sconfiggerlo, se il Male fosse un principio pari a Dio, sarebbe per sempre. Noi saremmo dannati a doverci lottare per l’eternità. Agostino comprende che il Male nasce quando al Creatore si dice di no. Nei libri di storia della filosofia dei licei, nei capitoli su Agostino, si trova la sua affermazione che “il Male è l’assenza del Bene”, ma in realtà il discorso agostiniano è più profondo. Il Male non è l’assenza, ma il rifiuto del Bene. Dio è il Creatore, il Salvatore ed io mi oppongo a Lui! Per questo Agostino è il grande teologo del peccato originale. Il Male non viene dalla carne, intesa come realtà materiale, non viene dalla testa, intesa come realtà spirituale, ma quando qualsiasi realtà, sia essa materiale o spirituale – questo non ha alcuna importanza - si oppone a Dio, ecco l’insorgere del Male. Ed il Bene consiste in ogni realtà, sia materiale che spirituale, quando essa, come creatura, ha riferimento al Dio creatore e rimanda a Lui. La dottrina della Creazione, del peccato originale e della Salvezza non divide le cose in due tipi, alcune buone altre cattive, ma insegna a discernere in ogni cosa in che maniera quella realtà, quella persona, quella sapienza, quel sentimento, mi avvicina al Creatore, mi fa intuire l’origine, oppure me ne allontana. E’ un discorso più serio, molto più difficile, ma anche molto più grande e straordinario.
Leggiamo il par. 25 dove Agostino parla delle creature che pian piano tacciono. Ma non nel senso dell’estremo Oriente, dove divengono silenziose perché non hanno niente da dire perché non c’è nessun essere personale che in fondo parli, ma perché diventano quello che sono arrivando a parlare dell’Unico e manifestandosi come suo dono.

X. 25 — Dunque ci dicevamo: «Se per qualcuno fosse ridotto al silenzio il tumulto della carne, al silenzio tutte le immagini della terra e dell’acqua e dell’aria, al silenzio anche i cieli, e l’anima stessa tacesse a se stessa e dimenticandosi si trascendesse, se i sogni e le rivelazioni dell’immaginazione e tutte le lingue e tutti i segni e tutto ciò che diviene col passare del tempo fosse tutto ridotto al silenzio — poiché se qualcuno ancora le ascolta, tutte le cose dicono: non ci siamo fatte da noi, ma ci ha fatto Colui che rimane in eterno!

Questo passaggio è decisivo: Agostino non disprezza il Creato come i manichei, ma capisce che il Creato, se veramente tace, se veramente è quello che deve essere, dice qualcosa, dice: “Un altro mi ha fatto”. L’uomo esce da se stesso per accogliere un Altro che viene verso di lui. Tutte le cose gli possono parlare di questo Altro che è il loro Creatore.

Se, ciò detto, ormai tacessero per aver levato il loro ascolto verso Colui che le ha fatte, e lui solo cominciasse a parlare, non attraverso di esse, ma da se stesso, così che noi udiamo la sua stessa parola, non per lingua umana, né per voce angelica o per fragore di nubi, né per simboli ed enigmi, ma lui direttamente, che amiamo in queste cose, lui stesso senza queste cose — come noi proprio adesso ci sforzammo di attingere con un pensiero istantaneo la Sapienza che è stabile sopra ogni cosa — se tutto ciò acquistasse durata e sparissero tutte le altre visioni troppo impari, e solo quest’unica rapisse e assorbisse e sommergesse nelle gioie interiori lo spettatore: se questa fosse la vita eterna, fosse ciò che ha visto l’intuito in un istante a cui giungemmo sospirando, non è forse vero che questo sarebbe il significato dell’invito: entra nel gaudio del tuo Signore? (Mt 25,21) E questo quando? Non sarà forse quando tutti risorgeremo, ma non tutti saremo trasformati? (1Cor 15,51)

Agostino parla della gioia che l’uomo intravede, molto più grande della gioia di usare delle cose, di provare un sentimento, di ricevere un sentimento, di mangiare una cosa, di dormire, di giocare, ma pure presente in tutte queste realtà quando esse cominciano a parlare – o, il che è lo stesso, a tacere – nel senso che gli annunziano un Altro. Immagina – dice allora Agostino - quando quest’Altro, Dio, parlerà Lui solo. Nella vita umana c’è sempre una tensione fra questi due aspetti: noi amiamo Dio nelle cose che ci parlano di Dio e noi amiamo Dio al di sopra delle cose. C’è una preghiera liturgica straordinaria che noi usiamo tuttora e che è agostiniana: “Signore fa’ che noi ti amiamo in ogni cosa e al di sopra di tutte le cose”. Vedete Agostino annunzia - così lui comprende il Vangelo - che la vita cristiana non è né amare Dio solamente nelle cose, ma neanche amarlo solo al di sopra di tutte le cose, senza di esse! Quanto è banale dire: “Certo io amo, quindi sono cristiano”. Agostino risponde: “Tu devi trascendere le cose per amare Dio”. Ma insieme, in una visione spiritualoide, uno può dire di amare Dio e dimenticare la realtà: ed anche questo è profondamente anticristiano perché Dio chiede di essere amato anche nelle cose che Lui ha fatto e anzi di vederle in questa luce, in questa prospettiva.
Nei testi agostiniani c’è una distinzione tra i verbi uti e frui, usare e godere. Agostino sa che l’uomo ha bisogno di mangiare, di dormire - questo lo chiama “usare” della creazione. Ma ci sono delle cose che danno godimento non per la loro necessità, ma perché ci fanno godere di Dio, ci fanno continuamente godere della sua bellezza, della sua bontà, della sua verità. Agostino dice che il godimento per il quale l’uomo è fatto è arrivare a questa comprensione, a questa lode del Creatore.

E’ interessante che questo Creatore che ha fatto il mondo è anche Colui che lo redime. C’è subito dopo l’estasi il testo straordinario sulla morte di Monica che non si preoccupa più della sua tomba. E’ la storai di Monica, una donna che non sempre è stata libera interiormente, ma ora giunge al termine di un cammino di straordinaria libertà. Per conoscere tutti gli aspetti della vita di S.Monica dobbiamo rivolgerci anche ad aspetti che vengono trascurati, quando si vuole fare di lei una santa anzi tempo; sappiamo che, ancora a Milano, spingeva Agostino a sposare una donna milanese ricca, invece della donna troppo povera, quella di cui non conosciamo il nome, la madre di Adeodato, che lui amava. Per fortuna però la ragazza era troppo giovane e i genitori le negarono il consenso, altrimenti Agostino si sarebbe sposato. Ma ad Ostia, Monica è un’altra donna. E’ divenuta libera. Così Agostino parla di lei, poco prima della morte della madre:

XI. 28 Ma io pensavo ai tuoi doni, Dio invisibile, che tu fai scendere nei cuori dei tuoi fedeli e che là generano frutti ammirevoli. Gioivo e ti rendevo grazie, ricordando ciò che sapevo: la sua continua preoccupazione per la tomba, che si era procurata e preparata accanto al corpo di suo marito. Essendo vissuti in grande armonia, ella voleva aggiungere anche questo alla sua felicità — tanta è la fatica dello spirito umano a cogliere il divino — e desiderava che la gente ricordasse che, dopo il lungo viaggio al di là del mare, le era stato concesso che una stessa terra coprisse i resti terreni di due coniugi. Io non sapevo quando questo desiderio vano si era spento nel suo cuore per la pienezza della tua bontà. Ma ero pieno di gioia e ammiravo che ella mi apparisse così. Veramente già durante il nostro colloquio alla finestra, quando lei mi aveva detto: «Che cosa faccio ormai qui?», mi aveva fatto comprendere di non desiderare di morire in patria. Più tardi venni a sapere che, quando eravamo già a Ostia, ella un giorno aveva parlato con materna fiducia ad alcuni miei amici del disprezzo di questa vita e del bene della morte. Essi si meravigliavano della virtù di questa donna — tu gliel’avevi donata — e alla domanda se non l’impauriva l’idea di lasciare il corpo così lontano dal suo paese, ella aveva risposto: «Niente è lontano per Dio e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non riconosca il luogo da cui risuscitarmi». Così nel giorno nono della sua malattia, nel suo cinquantaseiesimo anno, e trentatreesimo mio, la sua anima religiosa e pia venne sciolta dal suo corpo.

E’ straordinaria la fiducia, e notate come questo è antimanicheo, con la quale si afferma che dalla terra si risorge. Monica ha questa gioia, questo godimento: “Non importa dove sarà la mia tomba, la cosa che importa è che io risorgerò, perché io non mi perdo nella terra, non mi perdo nel nulla, ma io con la mia vita sono chiamata da Cristo alla resurrezione”. E qui c’è il tema del Redentore, del Salvatore, la gioia più grande. La fede cristiana annunzia che in questa creazione, che si è rovinata per il peccato originale, il male non sta dall’origine, il male sopraggiunge. Da quando è sopraggiunto quel Male, tutto può portare al Male, ma tutto invece in Cristo porta al Bene. Questa creazione deve essere salvata. Non basta che passi il tempo, ma serve uno che porti Monica alla resurrezione, che venga a dare la grazia della vita eterna.
Leggiamo ancora le ultime righe, quelle sul pianto, perché ci fanno vedere tutto ciò di cui abbiamo fin qui parlato, da un punto di vista simmetricamente opposto, quello del motivo delle lacrime. Come dalla gioia delle cose create, si giunge al godimento della Verità, così dal dolore fisico si giunge a soffrire di ciò che realmente uccide la vita, per implorare il perdono di Dio e la nuova gioia. Agostino si descrive, all’inizio, come uno che non vuole piangere alla morte della madre, perché i maschi non debbono piangere - tuttora è così. Quando c’è un lutto, una disgrazia, è della donna piangere. Agostino riflette su come in lui matura questo bisogno di sfogarsi nel pianto. Andiamo ai paragrafi 32-33

XII, 32 Quando la salma venne portata alla sepoltura, andammo anche noi e ritornammo, ma senza lacrime. Neppure nel corso delle preghiere che recitammo per lei durante l’offerta del sacrificio del nostro riscatto, davanti al cadavere posto accanto al sepolcro prima di esservi deposto (secondo i costumi del luogo), neppure allora io piansi, ma rimasi per tutto il giorno profondamente triste nel segreto del cuore e con la mente turbata pregavo te, come potevo, di lenire il mio dolore. Non mi esaudivi, credo, per imprimere nella mia memoria, con questo esempio, che ogni legame umano è fortissimo anche nei riguardi di un’anima ormai nutrita dalla tua parola non fallace.

Agostino sa che la Parola di Dio ha salvato Monica, ma, nello stesso momento, ama sua madre e non disprezza questo legame con lei e riflette: “Dio non mi ha fatto piangere subito perché io capissi come l’esistenza del Creatore non mi toglie questo legame così forte con questa donna”.

Mi parve anche bene prendere un bagno, avendo sentito dire che i greci chiamano «alanion» ciò che libera l’animo dagli affanni. Ma confesso anche questo alla tua misericordia, Padre degli orfani, che dopo essermi lavato mi ritrovai tale quale ero prima di lavarmi. Non c’era nulla che potesse togliermi dal cuore l’amaro lutto. Poi andai a dormire e mi svegliai e trovai che il mio dolore si era non poco attenuato. Ed essendo solo nel letto, mi ricordai di quanto fossero veri i versi del tuo Ambrogio: tu sei infatti,

Dio, creatore di ogni essere,
tu guidi il cielo e adorni il giorno
di decorosa e bella luce,
e la grazia del sonno dai alla notte,
perché il riposo sciolga le membra
e le renda al solito lavoro
e sollevi le menti stanche
e disperda ansie e dolori.

Notate che bella lode del sonno. Agostino che loda il Creatore lo loda anche perché gli ha dato il sonno per riposare. Si accorge che una volta che ha dormito è più tranquillo, più sereno. Sente ancora la ferita della morte, ma il suo cuore si è un po’ rasserenato. Ma poi ecco lo scatto di fede:

XII, 33 Allora, un po’ alla volta, i miei pensieri tornarono alla tua ancella d’una volta, al suo comportamento pio davanti a te, blando e santo verso di noi, di cui venni privato così improvvisamente. E potei così finalmente piangere davanti a te di lei e per lei, di me e per me. E lasciai le lacrime scorrere dentro di me senza sosta, convogliandole sotto il mio cuore. Su questo giaciglio il cuore riposò. Là altro non c’era che il tuo ascolto, e non quello di un uomo, che poteva interpretare sdegnosamente il mio pianto.
Ora, Signore, lo confesso a te per iscritto. Legga chi vuole e interpreti come vuole. E se qualcuno troverà peccaminoso il fatto che abbia pianto per breve tempo mia madre, quella madre che non potevo ormai più vedere con i miei occhi; lei che mi aveva pianto per tanti anni affinché vivessi agli occhi tuoi, non mi derida, ma piuttosto pianga lui stesso per i miei peccati. Piuttosto se è uomo di grande carità, pianga davanti a te, Padre di tutti i fratelli del tuo Cristo.

34 ...io verso per quella tua serva davanti a te, Dio nostro, lacrime di tutt’altra specie, quelle che sgorgano da uno spirito sconvolto dalla considerazione dei pericoli di ogni anima che muore in Adamo.

Il pianto in questo testo non è più il pianto per un lutto, ma diventa la memoria di quando Monica aveva pianto per il peccato del figlio. Ora Agostino si accorge che anche Monica ha peccato nella sua vita terrena. La Grazia di Dio l’ha salvata, ma lei pure ha peccato, nella sua vita, perché nessun essere è santo dinanzi a Dio. E il pianto che finalmente sgorga non è più allora semplicemente quello di una creatura che ne piange un’altra, ma il pianto dell’uomo che si accorge di quanto male fa il peccato e di come la morte sia la conseguenza del peccato. E’ il peccato che impedisce all’uomo di arrivare alla vita eterna, al paradiso, e se quel peccato non è tolto, l’uomo muore di una seconda morte. Sapete nella tradizione cristiana c’è l’idea delle lacrime spirituali, dell’uomo che piange per il male del peccato, perché il male del peccato è più grande della morte fisica, della malattia. Di nuovo troviamo il tema del desiderio, del godimento, visto da un altro punto di vista. La cosa che più fa male ad Agostino non è la mancanza di una creatura, della madre, come la cosa che gli dà più gioia non è la presenza di una creatura, ma è la presenza di Dio, di Dio stesso e di Dio nelle creature che tacciono o parlano manifestandolo. Così il dolore più grande è dato dall’essere lontani da Dio, dall’essere senza di Lui in un momento di lutto, di peccato.
C’è un ultimo testo che vorrei leggervi. Non è nelle Confessioni, ma nei Trattati su Giovanni, ed è un testo sull’essere attirati dal piacere (Tract in Joh 40.10):

“Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre” (Gv 6,44). Non pensare di essere attirato contro la tua volontà: l'anima è attirata anche dall'amore. Né dobbiamo temere di essere criticati per queste parole evangeliche della Sacra Scrittura da quanti stanno a pesare le parole, ma sono del tutto incapaci di comprendere le cose divine. Costoro potrebbero obiettarci: Come posso ammettere che la mia fede sia un atto libero, se vengo trascinato? Rispondo: Nessuna meraviglia che sentiamo una forza di attrazione sulla volontà. Anche il piacere ha una forza di attrazione.

Poi fa un esempio, se fate vedere delle noci ad un bambino che ha fame, quello vi seguirà perché vuole prendere quel cibo. Agostino spiega che così è la fede: non nasce da me, nasce da Dio che mi fa vedere Cristo, mi fa vedere il suo splendore nelle creature e soprattutto nella rivelazione. Ma questa fede mi cattura dall’interno e mi fa andare dietro di lei. Allora la fede è un atto libero, ma non nasce innanzitutto dalla mia libertà, nasce da quel godimento che Dio mi pone dinanzi. E’ un grande tema, chiarissimo in Agostino. Molti citano a sproposito alcune frasi come “Dio è dentro di noi”, arrivando alla conclusione che allora, se Dio è dentro di noi, non importa Cristo, non importano la Chiesa, i sacramenti. Agostino sa che se Cristo non è prima fuori di noi, noi non possiamo diventare cristiani. Sa che Cristo lo chiama e lo chiama attraverso la Chiesa e i sacramenti. Ma questo Dio che è extra nos è un Dio che attira, che attira con il piacere e con la gioia che suscita nell’uomo interiore.
Agostino ha vissuto quel godimento supremo che consiste nell’andare dietro a Cristo e non al primo piacere da quattro soldi che non dona niente di ciò che promette e che lascia ancor più spogli di prima. Agostino sa che la fede nasce dall’incontro tra Cristo che è fuori di noi e la Grazia con la quale Egli ci chiama dall’interno, attraverso il senso del godimento che dà l’incontro con Lui. Ecco il senso di quell’espressione straordinaria: “ Dio tu sei più intimo a me di me stesso” . L’uomo non deve cercare semplicemente se stesso, anzi si perde se cerca solo se stesso. Trovando Cristo trova quel “se stesso” che non sa neanche di essere. E’ il maestro interiore di cui parla S.Agostino in altri testi.
Volevo con queste riflessioni sull’estasi di Ostia, aiutarvi a comprendere come il tema del desiderio, del godimento, del piacere, sia proprio una chiave di lettura, non un elemento accessorio, della visione cristiana di Agostino.

Il pensiero di S.Agostino. Una proposta per l’uomo d’oggi
di padre Giuseppe Caruso

Parlerò del pensiero di Agostino, una proposta per l’uomo di oggi. Spero che vi interesserà perché oltre a parlare di Agostino parleremo anche un poco di noi stessi. Sedici secoli e mezzo ci separano dalla nascita di Agostino che vide la luce a Tagaste, nell’attuale Algeria, il 13 novembre del 354.
Il grande interesse per la figura di Agostino è un potente indice della sua perenne attualità. Quest’uomo, da cui ci separano più di sedici secoli ha ancora qualcosa da dire a ciascuno di noi. Ma cosa? Il tema della presente conversazione è proprio questo. Vorrei porre alla vostra attenzione alcuni aspetti del pensiero e delle esperienze di Agostino perché possiate farne e possiamo farne, se vorrete, uno spunto di riflessione su noi stessi. Agostino diventa il patrono di un municipio, il santo patrono è una realtà squisitamente cattolica, cristiana, però io penso che oggi Agostino abbia un messaggio per tutti noi e da oggi in poi per tutti i cittadini di Ostia, anche a prescindere dalla loro appartenenza confessionale. Evidentemente Agostino ad un cristiano dice tanto, per il semplice fatto che è un santo, quindi una persona che ha incontrato Cristo e in virtù di quest’incontro ha cambiato la sua vita.
Ma credo che Agostino - e questo non lo dico io, ma lo dice il fatto che sia studiato in tante facoltà anche non ecclesiastiche come autore latino, quindi in ambito letterario, in ambito storico, in ambito filosofico e in filosofia nel senso più ampio, dalla filosofia politica all’antropologia filosofica, all’etica, a tutta una serie di discipline - Agostino ha qualcosa da dire a tutti. Ai cristiani perché è un uomo che ha incontrato Cristo, ai non cristiani perché è un uomo che non è mai fuggito davanti alle domande fondamentali dell’esistenza.

Proprio le domande esistenziali hanno portato Agostino al cristianesimo, un cristianesimo coscientemente e pertinacemente rifiutato nella giovinezza. Allora, cosa dice Agostino di se stesso? Agostino ci ha lasciato Le Confessioni, che sono una sorta di autobiografia, un’opera molto originale, in tredici libri. I primi nove sono autobiografici, il decimo parla del tempo, gli altri tre parlano della Genesi, cose un po’ strane, ma che in fondo hanno dietro una logica che spero di mettere in luce magari dopo. Agostino in queste Confessioni ci racconta che a diciotto anni lesse un’opera di Cicerone, il grande retore della latinità – noi, quando andiamo a scuola, studiamo il latino di Cicerone, anche Agostino imparava il latino di Cicerone, probabilmente migliore di quello che si parlava per strada. Agostino lesse a diciotto anni un dialogo di Cicerone, l’Hortensius, che adesso è purtroppo perduto, ed è un grande dispiacere, ci piacerebbe molto leggerlo, ma non è più possibile. Questo dialogo lo infiammò d’amore per la filosofia ed Agostino a diciotto anni decide di dedicarsi alla filosofia. Per capire questo entusiasmo dobbiamo cercare di ricostruire e comprendere il tenore del dialogo ciceroniano. Possiamo farlo da quello che dice Agostino e che dicono altre fonti, oltre che dal genere nel quale l’Hortensius si collocava. Era un protrettico allo studio della filosofia, significa un’esortazione, un libretto, una specie di spot, diremmo oggi, ma sostanzioso, carico di contenuti, con cui Cicerone invita il suo interlocutore Hortensius, a dedicarsi alla filosofia. Non era la pubblicità che oggi fanno le università - “iscrivetevi a questa piuttosto che a quella” - non era questo il senso. Era un’esortazione che aveva la sua radice nel modo in cui gli antichi intendevano la filosofia, sempre e soprattutto dall’età ellenistica in poi, insomma da sette secoli, nel momento in cui Agostino legge l’Hortensius. Cosa era la filosofia, come la intendevano gli antichi? La filosofia era soprattutto una conoscenza profonda del mondo, in qualche modo mista tra scienza e quella che noi chiameremmo oggi metascienza. Il filosofo conosce il mondo, guarda le cose, la realtà e capisce quanto vale la realtà. Peraltro il filosofo pensa e parla, e ad un certo punto si interroga: “Ma in che modo conosco io la realtà?” Come funziona la mente dell’uomo? Come funziona la parola che è il prodotto mentale più duttile? Quindi il filosofo si interroga sul mondo e sulla nostra conoscenza del mondo. Sono la fisica e la logica. Conoscere il mondo, come noi pensiamo e, alla fine, avendo queste belle istruzioni dell’uso, capire anche come dobbiamo vivere. Dalla fisica e dalla logica scaturisce l’etica. Io so come è fatto il mondo, so dove va il mondo, so perché esiste il mondo e allora vivo, come dicevano gli antichi, secondo natura, secondo quella che è la vocazione iscritta nella realtà. Non sono io a pensare come è il mondo, non è una costruzione mentale arbitraria, c’è davvero una legge scritta nell’ordine delle cose, non è solo una legge di funzionamento, ma anche una legge indirizzata ad un fine. Insomma la domanda “perché esisto?”, per gli antichi, e anche per Agostino, è una domanda che ha una risposta definitiva, vera, autentica. Io non la so, ma la posso scoprire. Non è che io la invento, invento il motivo dell’esistenza. Esso è in qualche modo già dato. Perché è importante sapere queste cose? Perché l’uomo che ha capito e che vive secondo quell’etica iscritta nella realtà è felice e Agostino vuole essere felice. L’Hortensius gli fa capire che una felicità è possibile. C’è una felicità autentica per l’uomo, c’è - non vi spaventate - una vocazione autentica dell’uomo, di ognuno di noi. Questa è una lezione che Agostino ha imparato. E ha cercato cosa poteva renderlo felice. Agostino ha trovato questo, è già stato detto negli interventi precedenti, nella sua adesione alla fede cristiana. Ed è la risposta che con molta umiltà e povertà anch’io penso essere quella autentica. Forse qualcuno non è ancora arrivato a questo beato incontro. Va bene, tenga presente: esiste una felicità possibile, non immaginaria, fondata sul reale. Allora bisogna aprire gli occhi sul reale.

Passiamo ad un altro tema bellissimo, affascinante, l’ordo amoris. Agostino, guidato dalla lettura della Bibbia, ma sostenuto anche dalla riflessione filosofica classica, ritiene che non tutto quello che l’uomo desidera è capace di renderlo felice. E questo è un dato di fatto. Molte volte si vogliono le cose sbagliate, dice Agostino. E allora poi, anche quando le ottieni, sei triste lo stesso perché hai desiderato le cose sbagliate. Ci sono cose che non renderanno mai l’uomo veramente felice, anche se egli talvolta si illude che queste cose possano renderlo felice. Agostino ne cita alcune: la ricchezza, il successo, la buona fama, cose che peraltro in buona percentuale Agostino ha conquistato - era diventato il retore ufficiale dell’imperatore, quindi diciamo il “Pr” dell’impero romano d’occidente. Capiamo bene: certo queste cose hanno un valore, ma non un valore assoluto, non un valore capace di colmare quel desiderio di felicità che ognuno di noi porta in sé. Agostino pensa insomma che nell’uomo c’è un desiderio immenso che chiede di essere appagato. Questo desiderio immenso sia per la quantità che per la qualità! L’uomo desidera la cosa più buona che possa esistere, desidera possederla per sempre, senza la paura di perderla mai. Allora vogliamo tutto il bene possibile e vogliamo averlo in maniera da non poterlo mai perdere. Per Agostino, in ultima analisi, la felicità è il possesso di Dio, del Dio buono, di Dio che vuole il bene dell’uomo e che alla fine si dona a lui. Io voglio Dio e come faccio ad averlo? Agostino dice: “Dio si è donato a te in Cristo”. Questo desiderio di felicità enorme è Dio stesso che lo viene a colmare in Cristo, incarnato, morto e resuscitato. L’esito del pensiero di Agostino è dunque evidentemente religioso e questo non stupisce nessuno, ma c’è in questo discorso, così squisitamente cristiano, qualcosa che può suscitare l’interesse anche di chi non è ancora arrivato a questo incontro? Certo che c’è. Poco fa io citavo dei beni non assoluti, i soldi, il successo, la fama, Agostino non ritiene che queste cose debbano essere detestate, messe da parte. Va bene, dice lui, si possono anche amare - ogni cosa merita amore, ogni realtà creata è amabile, è amabile perché viene da Dio che è buono e fa belle e buone tutte le cose - ma queste cose non sono tutte uguali. Il mondo è fatto tutto di bene - anch’io avevo messo il “male” come realtà che ontologicamente non ha statuto, ma è stato già trattato, perciò lo dico brevemente. Il “male” non esiste come realtà ontologica, non esiste una cosa completamente cattiva, perché una cosa in quanto esiste è buona. Allora perché le cose non vanno bene? Esempio di Agostino: la cecità non è qualcosa, è la mancanza di qualcosa, la realtà piena, armoniosa è la persona che vede; quando una persona è cieca, purtroppo, non ha qualcosa in più, ma qualcosa in meno. Il “male”, l’imperfezione, è qualcosa in meno rispetto all’armonia originaria voluta da Dio. Agostino dice allora: “le cose create sono buone”, quindi anche se io vedo uno smeraldo immenso e lo desidero - facciamo un esempio banale - faccio bene a desiderarlo, è una cosa buona e bella. Ma quello smeraldo è di un altro, allora io faccio una rapina, ammazzo l’altro e mi prendo lo smeraldo. Sbagliato, perché l’altra persona vale più dello smeraldo e io devo amare più l’altra persona, il proprietario di questa pietra preziosa, dell’oggetto. Questa è l’idea dell’ordo amoris. Agostino dice: “Le cose non sono tutte uguali, ci sono cose più importanti e meno importanti”. Vivere bene significa amare di più le cose più importanti e amare di meno le cose meno importanti. Sembra un tema banale, ma guardiamo nella nostra vita, al di là della riflessione cristiana. Per Agostino la cosa che va amata di più è Dio. Se qualcuno non ci è arrivato, fermiamoci un gradino intermedio: “Ma davvero amiamo cose degne della nostra umanità?” C’è il rischio a volte di amare cose che non meritano tanto amore. Agostino dice: “Questo ti renderà triste, ti renderà inquieto, perché stai facendo disordine nella tua vita”. Non so come sarebbe il nostro mondo se davvero tutti noi, i singoli e i popoli, amassero gli altri in maniera “ordinata”. Probabilmente sarebbe un mondo migliore e meno conflittuale, meno imbruttito dalla violenza e dai soprusi. Agostino non ritiene che sia facile realizzare l’ordo amoris, egli pensa che sia possibile farlo solo con l’aiuto della Grazia. Resta però per tutti noi un fine a cui tendere, questo ordo amoris, acquisendo a tal scopo la capacità di dare a tutte le cose e agli eventi che ci stanno intorno il giusto valore, certo inferiore a quello dell’umanità, quella nostra e quella del prossimo, umanità che va sempre rispettata come un valore supremo, dopo Dio.

Altro tema quello dell’interiorità. Tantissime cose si potrebbero dire sull’interiorità agostiniana. L’interiorità è una via di conoscenza. Io faccio i giudizi sulla realtà in base alla mia interiorità; se una ricostruzione è armonica è perché dentro di me trovo la legge dell’armonia. Se una cosa è bella e buona, trovo dentro di me queste leggi, quindi l’interiorità è un punto fortissimo di Agostino. Vorrei mettere in luce soltanto un altro aspetto: Agostino invita continuamente i suoi lettori ad aprire gli occhi sulla realtà, non solo quella piccola e quotidiana, ma anche quella che si dischiude attraverso la quotidianità sviscerata attraverso una riflessione continua sul proprio vissuto. Cosa voglio dire? Solo apparentemente è una frase difficile. La storia di Agostino, se uno volesse per forza essere minimalista, è quella di un giovane che tenta di fare carriera, alla fine si accorge che il mondo è fatto di piranha. Anche alla corte di Milano, alla corte imperiale trova gente cattiva, e deluso volta le spalle e se ne va. Lettura misera. Agostino non legge così la sua storia, perché la medita, la soppesa e vi vede dentro significati diversi. Attraverso la sua storia vede un significato profondo, una vocazione dell’uomo verso l’assoluto, quell’assoluto che la corte di Milano non gli offre e altre cose gli offrono. Cosa significa questo? Qual è il messaggio che voglio umilmente offrirvi? Le storie sono tutte importanti, le storie personali non sono mai banali, fanno parte di una grande storia, della storia di questa umanità che va avanti. E per Agostino va avanti verso il fine ultimo, un fine che esiste davvero e per Agostino è appunto l’incontro con Dio. Agostino ci è maestro di interiorità, interiorità che è soprattutto fatta di attenzione al vissuto. E’ qui, in questo vissuto nostro, quotidiano, banale che si realizzano i valori. E’ attraverso di noi e la nostra profonda autocoscienza che possiamo leggere e misurare il reale, ricordandoci che questa comprensione è una prerogativa soltanto nostra, soltanto degli uomini. Gli animali, con tutto l’affetto per loro, non capiscono, non leggono il reale con questa profondità. E’ una nostra prerogativa della quale Agostino si è servito. Lui ha visto in questa prerogativa dell’uomo l’essere posto in un dialogo continuo con Dio. Dio chiama l’uomo dandogli del tu. Agostino invita ad apprezzare questa realtà “interlocutoria”. Tutto il creato è una parola detta da Dio all’umanità. Credo che il messaggio di Agostino per tutti noi è quello di porci davanti alla realtà in atteggiamento “interlocutorio”. La realtà, la storia, ci danno un messaggio. A noi spetta capirlo. Capirlo per utilizzare la notizia che viene dal mondo, dalla storia, per la costruzione di un mondo migliore.

S.Agostino e S.Monica ad Ostia da Le confessioni
di S.Agostino

Dal libro IX

X. 23 — Si avvicinava già il giorno in cui sarebbe uscita da questa vita. Tu lo conoscevi, mentre noi lo ignoravamo. Allora accadde, certamente secondo i disegni occulti della tua provvidenza, che ci trovassimo noi due soli appoggiati a certa finestra, da cui si vedeva il giardino che circondava la casa dove abitavamo. Eravamo presso Ostia Tiberina dove, lontani dalla folla, dopo la fatica di un lungo viaggio raccoglievamo le forze per la traversata sul mare. Conversavamo, dunque, soli con molta dolcezza, dimenticando il passato e protesi verso ciò che sta innanzi (Fil 5,13) , in presenza della verità che tu sei, ci chiedevamo cercando tra noi quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, vita che né occhio vide. né orecchio udì, né mai sorse in cuore dell’uomo (1 Cor 2,9) . La bocca del nostro cuore era avida delle acque discendenti dall’alto dalla tua sorgente, fonte della vita che è presso di te, per poter concepire in qualche modo una realtà così grande, aspersi da tale acqua secondo la nostra capacità.

24 — Il discorso ci portò a questa conclusione: la gioia dei sensi terreni, per quanto possa essere grande e per quanto preziosa nella luce del mondo, non è degna di paragone, anzi neppure di menzione rispetto al giubilo di quell’altra vita. E innalzandoci con affetto più ardente verso l’Essere stesso, attraversammo grado per grado tutti gli esseri corporei e il cielo stesso da cui brillano sopra la terra il sole, la luna e le stelle. E inoltre salivamo dentro di noi, pensando, chiamando e ammirando le opere tue, e venimmo alle nostre menti ma trascendemmo anche queste, per attingere la regione dell’abbondanza che non viene mai meno, dove pasci Israele in eterno con il cibo della verità. Là la vita è la Sapienza, mediante cui sono fatte tutte queste cose, quelle che furono e quelle che saranno; ma essa non conosce nessun divenire, bensì è come fu e così sarà sempre. O meglio: l’essere che è stato e l’essere che sarà non esistono in essa, ma soltanto l’essere, perché è eterna: l’essere stato e l’essere futuro non è l’eterno. E mentre parlavamo, pieni di desiderio, della sapienza, la toccammo lievemente con uno slancio totale del cuore. Sospirammo e ivi lasciammo avvinte le primizie dello spirito (Rm 8,23) , e ridiscendemmo al rumore delle nostre labbra, dove la parola incomincia e finisce. Che cosa potrebbe esserci di simile alla tua Parola, Signore nostro, che rimani sempre in te senza vecchiaia e rinnovi tutte le cose?

25 — Dunque ci dicevamo: «Se per qualcuno fosse ridotto al silenzio il tumulto della carne, al silenzio tutte le immagini della terra e dell’acqua e dell’aria, al silenzio anche i cieli, e l’anima stessa tacesse a se stessa e dimenticandosi si trascendesse, se i sogni e le rivelazioni dell’immaginazione e tutte le lingue e tutti i segni e tutto ciò che diviene col passare del tempo fosse tutto ridotto al silenzio — poiché se qualcuno ancora le ascolta, tutte le cose dicono: non ci siamo fatte da noi, ma ci ha fatto Colui che rimane in eterno —; se, ciò detto, ormai tacessero per aver levato il loro ascolto verso Colui che le ha fatte, e lui solo cominciasse a parlare, non attraverso di esse, ma da se stesso, così che noi udiamo la sua stessa parola, non per lingua umana, né per voce angelica o per fragore di nubi, né per simboli ed enigmi, ma lui direttamente, che amiamo in queste cose, lui stesso senza queste cose — come noi proprio adesso ci sforzammo di attingere con un pensiero istantaneo la Sapienza che è stabile sopra ogni cosa — se tutto ciò acquistasse durata e sparissero tutte le altre visioni troppo impari, e solo quest’unica rapisse e assorbisse e sommergesse nelle gioie interiori lo spettatore: se questa fosse la vita eterna, fosse ciò che ha visto l’intuito in un istante a cui giungemmo sospirando, non è forse vero che questo sarebbe il significato dell’invito: entra nel gaudio del tuo Signore? (Mt 25,21) E questo quando? Non sarà forse quando tutti risorgeremo, ma non tutti saremo trasformati? (1Cor 15,51)

26 — Dicevo cose simili, benché non in questo modo e con queste parole. Ad ogni modo, Signore, tu sai che in quel giorno, mentre parlavamo così, e tra le parole questo mondo sprofondava con tutte le sue attrattive, mia madre disse: «Figlio, per quanto riguarda me, niente più mi attrae in questa vita. Non so più che cosa debba fare qui e perché sia ancora qui. La mia speranza in questo mondo si è esaurita. C’era ancora una cosa per cui desideravo rimanere ancora un po’ in questa vita: vederti cristiano cattolico prima di morire. Il mio Dio me l’ha accordato oltre ogni aspettativa: quello di vederti suo servo al di sopra di ogni felicità terrena. Che cosa faccio ancora qui?».

Ultime parole e la morte

XI. 27 — Non ricordo bene che cosa le ho risposto, tanto più che dopo cinque giorni o non molto più, la febbre la obbligò a coricarsi. Durante la malattia un certo giorno subì uno svenimento e perse per un po’ la coscienza. Corremmo da lei, ma subito riprese i sensi, guardò me e mio fratello e disse come uno che cerca qualcosa: «Dov’ero?». Poi vedendoci sconcertati per il dolore disse: «Seppellite qui vostra madre». Io tacevo trattenendo il pianto. Mio fratello disse qualcosa per esprimere il desiderio che sarebbe stato meglio morire in patria e non in terra straniera. Lei udì, si agitò, rimproverò con gli occhi mio fratello per le sue parole e poi guardandomi disse: «Vedi cosa dice». Poi subito a entrambi: «Seppellite questo corpo dove volete, non preoccupatevi per questo. Ho solo una preghiera: che vi ricordiate di me presso l’altare del Signore, dovunque siate». Dopo aver rivelato questo pensiero nel modo che poteva, tacque. Il male peggiorò, la sua sofferenza cresceva.

28 — Ma io pensavo ai tuoi doni, Dio invisibile, che tu fai scendere nei cuori dei tuoi fedeli e che là generano frutti ammirevoli. Gioivo e ti rendevo grazie, ricordando ciò che sapevo: la sua continua preoccupazione per la tomba, che si era procurata e preparata accanto al corpo di suo marito. Essendo vissuti in grande armonia, ella voleva aggiungere anche questo alla sua felicità — tanta è la fatica dello spirito umano a cogliere il divino — e desiderava che la gente ricordasse che, dopo il lungo viaggio al di là del mare, le era stato concesso che una stessa terra coprisse i resti terreni di due coniugi.
Io non sapevo quando questo desiderio vano si era spento nel suo cuore per la pienezza della tua bontà. Ma ero pieno di gioia e ammiravo che ella mi apparisse così. Veramente già durante il nostro colloquio alla finestra, quando lei mi aveva detto: «Che cosa faccio ormai qui?», mi aveva fatto comprendere di non desiderare di morire in patria. Più tardi venni a sapere che, quando eravamo già a Ostia, ella un giorno aveva parlato con materna fiducia ad alcuni miei amici del disprezzo di questa vita e del bene della morte. Essi si meravigliavano della virtù di questa donna — tu gliel’avevi donata — e alla domanda se non l’impauriva l’idea di lasciare il corpo così lontano dal suo paese, ella aveva risposto: «Niente è lontano per Dio e non c’è da temere che alla fine del mondo egli non riconosca il luogo da cui risuscitarmi». Così nel giorno nono della sua malattia, nel suo cinquantaseiesimo anno, e trentatreesimo mio, la sua anima religiosa e pia venne sciolta dal suo corpo.

Il lungo lutto del figlio

XII. 29 — Le chiudevo gli occhi e nel mio cuore si raccoglieva un immenso dolore, pronto a traboccare in lacrime. Ma era violento il dominio del mio spirito, così che gli occhi riassorbivano la loro sorgente fino ad asciugarla. Questa lotta era per me molto penosa. Quando lei diede l’estremo respiro, il giovane Adeodato aveva gridato forte nel pianto, ma per l’intervento di tutti noi si era calmato. Allo stesso modo quanto c’era ancora di puerile in me e voleva esplodere in pianto, veniva represso dalla voce virile del cuore e ridotto al silenzio. Non ci sembrava infatti decente celebrare questo lutto con lacrime, gemiti e lamenti, perché in tal modo si suole piangere nei morenti un misero destino e quasi il loro annientamento totale. Ma mia madre non moriva miseramente, né moriva del tutto. Di questo eravamo certi per la testimonianza della sua vita e della sua fede non finta (1Tm 1,5) e per ragione sicure.

30 — Da che cosa veniva, dunque, un dolore così opprimente dentro di me, se non da una consuetudine dolcissima e carissima di vita comune che la morte distruggeva d’un tratto, lasciando un’atroce ferita? Certo mi potevo confortare con le parole che lei mi aveva detto, accarezzandomi, mentre la curavo nella sua malattia: mi chiamava buon figlio e ricordava con grande commozione amorosa di non aver mai sentito dalla mia bocca una brutta parola o un’offesa. Tuttavia, mio Dio, che ci hai creati entrambi, che paragone c’era tra il rispetto che le avevo portato e la dedizione che lei aveva avuto per me? Perché in tal modo venivo privato del suo grande conforto, la mia anima era ferita e la mia vita veniva quasi fatta a pezzi, la mia vita che era diventata una sola con la sua.

31 — Quando il pianto del fanciullo si fu calmato, Evodio prese il salterio e intonò un salmo. Tutti noi in casa gli rispondemmo: La tua misericordia e la tua giustizia voglio cantare a te, Signore (Sal 101,1) . Alla notizia della morte si erano dati convegno presso di noi molti fratelli nella fede e molte donne religiose. Mentre gli incaricati si occupavano della salma e preparavano il funerale secondo l’usanza, io in disparte discorrevo con quelli che non volevano lasciarmi solo, parlando di cose compatibili con la circostanza e alleviavo con questo balsamo della verità il tormento che tu conoscevi. Chi mi ascoltava attentamente, non l’avvertiva e credeva che non soffrissi. Ma io ai tuoi orecchi, dove nessuno di loro mi sentiva, mi rimproveravo la debolezza del mio sentimento e reprimevo il flusso del dolore: esso cedeva per un po’, ma poi riemergeva con impeto, seppure non fino allo scoppio delle lacrime o alla deformazione del viso; ma io sapevo che cosa comprimevo nel cuore. E poiché ero fortemente contrariato che potessero tanto su di me queste vicende umane, che devono pur succedere secondo l’ordine debito e il nostro destino mortale, con un altro dolore mi dolevo del mio dolore e una doppia tristezza mi macerava.

32 — Quando la salma venne portata alla sepoltura, andammo anche noi e ritornammo, ma senza lacrime. Neppure nel corso delle preghiere che recitammo per lei durante l’offerta del sacrificio del nostro riscatto, davanti al cadavere posto accanto al sepolcro prima di esservi deposto (secondo i costumi del luogo), neppure allora io piansi, ma rimasi per tutto il giorno profondamente triste nel segreto del cuore e con la mente turbata pregavo te, come potevo, di lenire il mio dolore. Non mi esaudivi, credo, per imprimere nella mia memoria, con questo esempio, che ogni legame umano è fortissimo anche nei riguardi di un’anima ormai nutrita dalla tua parola non fallace. Mi parve anche bene prendere un bagno, avendo sentito dire che i greci chiamano «alanion» ciò che libera l’animo dagli affanni. Ma confesso anche questo alla tua misericordia, Padre degli orfani, che dopo essermi lavato mi ritrovai tale quale ero prima di lavarmi. Non c’era nulla che potesse togliermi dal cuore l’amaro lutto. Poi andai a dormire e mi svegliai e trovai che il mio dolore si era non poco attenuato. Ed essendo solo nel letto, mi ricordai di quanto fossero veri i versi del tuo Ambrogio: tu sei infatti,

Dio, creatore di ogni essere,
tu guidi il cielo e adorni il giorno
di decorosa e bella luce,
e la grazia del sonno dai alla notte,
perché il riposo sciolga le membra
e le renda al solito lavoro
e sollevi le menti stanche
e disperda ansie e dolori.

33 — Allora, un po’ alla volta, i miei pensieri tornarono alla tua ancella d’una volta, al suo comportamento pio davanti a te, blando e santo verso di noi, di cui venni privato così improvvisamente. E potei così finalmente piangere davanti a te di lei e per lei, di me e per me. E lasciai le lacrime scorrere dentro di me senza sosta, convogliandole sotto il mio cuore. Su questo giaciglio il cuore riposò. Là altro non c’era che il tuo ascolto, e non quello di un uomo, che poteva interpretare sdegnosamente il mio pianto.
Ora, Signore, lo confesso a te per iscritto. Legga chi vuole e interpreti come vuole. E se qualcuno troverà peccaminoso il fatto che abbia pianto per breve tempo mia madre, quella madre che non potevo ormai più vedere con i miei occhi; lei che mi aveva pianto per tanti anni affinché vivessi agli occhi tuoi, non mi derida, ma piuttosto pianga lui stesso per i miei peccati. Piuttosto se è uomo di grande carità, pianga davanti a te, Padre di tutti i fratelli del tuo Cristo.

XIII. 34 — Ora, con il cuore ormai guarito da quella ferita, in cui si poteva scorgere la presenza di un affetto carnale, io verso per quella tua serva davanti a te, Dio nostro, lacrime di tutt’altra specie, quelle che sgorgano da uno spirito sconvolto dalla considerazione dei pericoli di ogni anima che muore in Adamo. Nonostante lei, vivificata in Cristo prima ancora di venir sciolta dalla carne, sia vissuta in modo che il tuo nome veniva lodato nella sua fede e nei suoi costumi, non oso tuttavia dire che, da quando l’hai rigenerata nel battesimo, non sia mai uscita dalla sua bocca neppure una parola contro qualche tuo comandamento. E’ stato detto dalla verità, cioè dal Figlio tuo: Se qualcuno dirà al suo fratello: pazzo, sarà reo del fuoco della geenna (Mt 5,22) . E guai anche per una vita umana lodevole, se tu la esaminerai dimentico della misericordia! Ma poiché non indaghi i peccati con rigore, speriamo con fiducia di ottenere un posto presso dite. Ma chi conta i suoi veri meriti davanti a te, che cosa conta, se non i tuoi doni? Oh se gli uomini si riconoscessero come uomini! e chi si gloria si glori nel Signore (1Cor 10,17) .

35 — Perciò, mio vanto e vita mia, Dio del mio cuore (Sal 118,4) , vorrei dimenticare un tantino le sue azioni buone, per le quali ti rendo grazie con gioia (Sal 118,14). Ora ti prego per i suoi peccati. Esaudiscimi per colui che è la medicina delle nostre ferite, che fu sospeso sul legno della croce e che ora, sedendo alla tua destra, intercede per noi (Rm 8,34) . So che ella ha agito con misericordia e che ha rimesso di cuore i debiti dei suoi debitori: rimettile anche tu i suoi debiti, se ne avesse contratti in tanti anni dopo aver ricevuto l’acqua della salvezza (Sal 143,2). Rimettili, Signore, rimettili, ti supplico, non entrare in giudizio contro di lei. La misericordia trionfi sul giudizio, (Gc 2,13) perché le tue parole sono vere e hai promesso misericordia ai misericordiosi. Se furono tali, tu l’hai concesso loro, tu avrai misericordia di colui di cui avesti misericordia e userai misericordia per colui verso cui fosti misericordioso. (Rm 9,15)

36 — E io credo che tu abbia già fatto ciò di cui ti prego, ma gradisci l’offerta volontaria della mia bocca, Signore (Sal 119,108) . Infatti, quando si avvicinava il giorno della sua morte, ella non pensò ad avvolgere sontuosamente il suo corpo e ad imbalsamarlo di aromi, né desiderò una tomba scelta, né si preoccupò per una sepoltura in patria. Non ci raccomandò cose simili, ma desiderò unicamente che venisse ricordata presso il tuo altare, cui aveva servito incessantemente ogni giorno, donde sapeva che veniva distribuita la vittima santa, che ha distrutto il chirografo che era contro di noi (Col 2,14) e che ha vinto il nemico che conta i nostri delitti e cerca accuse da opporci, non trovando nulla in Colui in cui siamo vittoriosi. Chi potrebbe rifondergli il sangue innocente? Chi ripagargli il prezzo, con cui ci ha riscattati per toglierci allo stesso nemico? A questo mistero del nostro riscatto la tua ancella ha legato la sua anima nel vincolo della fede. Nessuno la strappi alla tua protezione. Il leone e dragone non si insinuino con la forza o con l’astuzia tra lei e te. Ella, del resto, non risponderà di non aver debiti — altrimenti l’astuto nemico la potrebbe confutare ed attrarre a sé —, ma risponderà che i suoi debiti le sono stati rimessi da Colui a cui nessuno può ridare ciò che egli, senza doverci nulla, ci ha restituito.

37 — Sia dunque in pace con l’uomo, prima e dopo del quale non è mai stata sposa di nessun altro, e che servì portando frutti a te con la sua pazienza (Lc 8,15) , per guadagnare anche lui a te. E ispira, Signore mio, Dio mio, ispira ai tuoi servi, miei fratelli, figli tuoi, miei padroni, a cui io servo con il cuore, la voce e gli scritti, perché, leggendo questo racconto, si ricordino presso il tuo altare di Monica, serva tua, e di Patrizio, già suo marito, mediante la cui carne mi hai introdotto in questa vita non so come. Si ricordino con sentimento religioso in questa luce transitoria dei miei genitori, i quali sono pure miei fratelli, sotto di te Padre, nella Madre cattolica, e miei concittadini nell’eterna Gerusalemme, verso cui tende il sospiro del tuo popolo pellegrino, dalla partenza fino al ritorno. Allora si compirà per le preghiere di tanti il suo estremo desiderio, che mi rivolse più a causa delle mie confessioni che delle mie orazioni.

Le testimonianze cristiane negli scavi di Ostia Antica

Testo a cura del Centro culturale L’Areopago della parrocchia di S.Melania, via Eschilo 100, 00125, Roma-AXA.

Gli scavi di Ostia Antica offrono al visitatore interessanti testimonianze sulla vita del Cristianesimo dei primi secoli. Gli edifici da considerare si trovano nella parte opposta all'ingresso degli scavi.
Pertanto bisogna, una volta entrati, percorrere la strada principale che tagliava l'intera città, il Decumanus Maximus, superare lo splendido teatro costruito da Agrippa, genero di Augusto (e rifatto in mattoni da Commodo), il foro e il Capitolium, prima di arrivare alla Basilica cristiana - l'unica finora rinvenuta anche se è da presumere l'esistenza di altre non ancora scavate - che si trova sulla destra del Decumanus Maximus, dopo che quest'ultimo ha svoltato a sinistra, dopo l'incrocio con via della Foce.
La basilica fu costruita nella seconda metà del IV secolo - Agostino abitò ad Ostia nell'autunno del 387 - su costruzioni e su di un sistema viario precedente. La costrizione dello spazio è evidente nella singolare pianta dell'edificio con una sorta di antivestibolo costruito da due antinavate parallele divise da un colonnato, fiancheggiate da tre ambienti definiti cappelle. Seguono le navate vere e proprie, fra le quali corre una analoga serie di colonne, terminanti in due absidi. L'abside di sinistra era probabilmente adibita a Battistero. Questa è l'ipotesi più accreditata dagli studiosi a motivo dell'iscrizione tutt'ora leggibile sopra la trabeazione: "In Christo Geon Fison Tigris Eufrata Christianorum sumite fontes", che fa così riferimento ai quattro fiumi del Paradiso terrestre, esortando i cristiani ad avvicinarsi al battesimo, fonte della vita (cfr su questo G.Calza-G.Becatti, Ostia, Istituto Poligrafico e Zecca di Stato, Roma, 1987, p.47).
Il mitreo, detto dalle Pareti dipinte, attiguo alla Basilica, è testimonianza delle variegate correnti religiose che caratterizzano questa zona della città, nell'avanzata età imperiale - ben 16 mitrei sono stati rinvenuti all'interno degli scavi ostiensi.
Proseguendo sul Decumanus Maximus e attraversata Porta Marina troviamo sulla sinistra l'edificio detto dell'Opus Sectile, perché vi fu rinvenuta una straordinaria decorazione in marmi intarsiati. Gli studi recenti di F.Guidobaldi (F.Guidobaldi, La decorazione in opus sectile dell'aula, in AA VV, Aurea Roma, Dalla città pagana alla città cristiana, L'Erma di Bretschneider, Roma, 2000, 251-262) confermano la datazione degli intarsi marmorei agli anni 385-395. Appare, infatti, sicuro che la decorazione si arrestò, non ancora pienamente terminata, poco dopo il 394. Il Becatti aveva identificato l'aula come la sede di un'associazione professionale. Il Guidobaldi propende, invece, per la destinazione di una domus. Insieme ad altre figure di altissima qualità artistica, come due leoni che azzannano due cervi ed un volto maschile, appare la figura di un personaggio barbato, nimbato e benedicente. A tutt'oggi niente si oppone all'identificazione più probabile con quella del Cristo - nel caso della domus sarebbe una immagine devozionale, voluta dal suo proprietario. E' difficile, infatti, attribuire il nimbo ad un filosofo, come altri hanno proposto. L'intera decorazione dell'aula è ora conservato nel Museo Nazionale dell'Alto Medioevo all'EUR ed ivi visitabile.
Dopo aver svoltato a sinistra, si giunge alle terme di Porta Marina, con ogni probabilità il più antico dei tre complessi termali pubblici di Ostia. E' a questo stabilimento termale che probabilmente si riferisce lo scrittore cristiano Minucio Felice nel suo dialogo Octavius. Lo scrittore ricorda esplicitamente un frangiflutti di pietra costruito per proteggere le terme, identificabile con una massicciata riconoscibile all'angolo di sud-ovest. Non è possibile, invece, identificare in quali terme Agostino prese il bagno, dopo la morte della madre Monica, per cercare di calmare il dolore.
Sul tratto residuo della strada che esce da Porta Marina, sulla sinistra, sorge la Sinagoga, ulteriore testimonianza del mosaico delle religioni praticate in Ostia in età romana. L'edificio presenta interventi tra il I e il IV secolo. Non sono stati rinvenuti ulteriori reperti della comunità ebraica di Ostia Antica, tranne un'iscrizione funebre ritrovata a Castel Porziano che fornisce dati fondamentali sull'organizzazione della comunità stessa, estremamente prospera.
Lungo la necropoli, sulla via che conduce a Roma, vicino alla chiesa di S.Aurea è da porsi, probabilmente, la prima tomba di S.Monica.


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